XVI.
Il Manzoni unitario.
Noi abbiamo fin qui toccato del Manzoni come riformatore dello
stile poetico italiano, come scrittore religioso e come autore di tragedie
storiche ed autobiografiche. Vediamo direttamente e particolarmente lo
scrittore politico.
Le opinioni politiche espresse in verso da un giovinetto di
quindici anni non sembrano doversi pigliare molto sul serio. Quella spontaneità
che appare, per lo più, nella manifestazione de' sentimenti di un giovine, è
solo apparente; il giovine prima dei trent'anni sposa con ardore e difende con
impetuosa eloquenza quelli che crede i suoi principii inviolabili e santi; ma
egli non gli ha, gl'impara, li sposa, li riceve, gli accetta; rado accade che
essi siano il prodotto di un intimo proprio convincimento. Il giovine, con
tutta la sua furia simpatica che lo spinge a concepire i disegni più arditi e
più vasti, a intraprendere le opere più pericolose, e con la felice illusione
in cui vive che tutto il mondo sia suo, è meno libero assai dell'uomo maturo,
tanto più composto e regolato nel suo modo di pensare, di sentire e di operare.
Il giovine si crede libero, quando segue tutti i suoi istinti più diversi;
l'uomo invece sente la libertà solamente dal punto, in cui egli incomincia a
governare questa tumultuosa varietà d'istinti, a reggere la propria volontà, a
dominare sè stesso. Non è quindi da chiedersi ad un giovine conto troppo severo
di quel ch'egli abbia pensato politicamente fra i quindici ed i trent'anni; ma
è poi tanto più mirabile il caso, in cui, come avvenne nella vita del Manzoni,
si abbia a notare fra la giovinezza, la virilità e la vecchiaia d'un uomo una
continuità progressiva di quei pensieri, che sono il fondamento e la regola
della sua condotta civile. Del Manzoni si può dire che egli temperò con l'età
il modo di manifestare i proprii pensieri; ma la somma di questi rimase
costante e si confermò con la vita. Incominciò, come già sappiamo, a cantare il
trionfo della libertà a quindici anni. Nel primo Canto del Trionfo
incontriamo l'immagine dell'uccello che esce di gabbia e gode della sua
libertà, adoprata a significare la gioia del prigioniero italiano ritornato
libero:
E a color che fuggir l'aspra catena,
Prorompea sugli occhi e su le labbia
Impetüosa del piacer la piena,
Come augel che fuggì l'antica gabbia,
Or vola irrequieto tra le frondi,
Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.
È singolare il vedere come le prime immagini della giovinezza
manzoniana rifioriscono vive nella sua tarda vecchiaia. Il Manzoni, più che
ottantenne, passeggiando ne' Giardini Pubblici di Milano, alla vista di
uccellini chiusi in gabbia, compose alcuni eleganti distici, nei quali gli
uccelli prigionieri, ai quali è contesa la vista del cielo, si lamentano per
invidiare la sorte delle anitre che si diguazzano liberamente negli stagni:
Fortunatæ anates
quibus æther ridet apertus,
Liberaque in lato margine stagna patent.
Nos hic intexto
concludunt retia ferro
Et superum prohibent
invida tecta diem.
Cernimus heu! frondes
et non adeunda vireta
Et queis misceri non
datur alitibus.
Si quando immemores
auris expandimus alas,
Tristibus a clathris
penna repulsa cadit.
Nullos ver lusus
dulcesve reducit amores,
Nulli nos nidi,
garrula turba, cient.
Pro latice irriguo,
læto pro murmure fontis
Exhibet ignavas
alveus arctus aquas.
Crudeles escæ, vestra
dulcedine captae
Ducimus æternis otia
carceribus.
L'Austria ricevette pure i primi colpi dal giovinetto Manzoni, nel
Trionfo della Libertà:
S'alzò tre volte e tre ricadde al suolo
Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
Che l'arse penne ricusâro il volo.
Alfin, strisciando dietro a la campagna
Le mozze ali e le tronche ugne, fuggìo
Agl'intimi recessi di Lamagna.
Non ci meravigliamo dunque che tra i Martiri dello Spielberg il
conte Confalonieri sapesse a memoria e recitasse parecchie terzine del poema
giovanile d'Alessandro Manzoni. L'anima gloriosa del francese Desaix caduto a
Marengo combattendo contro gli Austriaci per quella che si sperava potesse
divenire la libertà d'Italia, appare in una specie di Olimpo al giovine Poeta,
il quale, pure imitando il noto incontro di Virgilio con Sordello, sa ancora
trovare e produrre un nuovo effetto poetico:
Allor ch'egli me vide il piè ramingo
Traggere incerto per l'ignota riva,
Meditabondo, tacito e solingo,
A me corse gridando: «Anima viva,
Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
E per amor di libertà s'arriva.
Italia mia che fa? di sue ferute
È sana alfine? è in libertate? è in calma?
O guerra ancor la strazia e servitute?
Io prodigo le fui di non vil'alma.»
Dicono che il Manzoni ed il Mazzini, ritrovandosi insieme un
giorno dell'anno 1860, si rallegrassero insieme d'essere stati, per lungo
tempo, i soli veri unitarii d'Italia. Nel vero, entrambi misero una specie di
ostinazione nel desiderare e nel predicare in tutti i modi ed in ogni occasione
l'unità italiana. Anche il Monti, per dire il vero, nella Musogonia
aveva collocata la seguente strofa:
E voi di tanta madre incliti figli,
Fratelli, i preghi della madre udite:
Di sentenza disgiunti e di consigli,
Che pensate, infelici, e chi tradite?
Una deh sia la patria, e ne' perigli
Uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite.
Del discorde voler che vi scompagna,
Deh non rida, per Dio! Roma e Lamagna.
Si può anche ammettere che il Monti fosse in quel momento sincero,
ed esprimesse con tali versi il proprio intimo sentimento; ma egli cantò tante
volte idoli diversi, dal Braschi a Napoleone, dal Suvaroff all'Imperatore
d'Austria, che una sua strofa unitaria non può far di lui un poeta unitario.
Prima dell'anno 1860 gli unitarii in Italia si potevano contare; tra i liberali
d'idee più avanzate prevaleva generalmente l'idea della federazione. Il
professor De Benedetti racconta in questo modo il colloquio che il Mazzini
avrebbe avuto col Manzoni: «Vede, Don Alessandro (avrebbe detto il Mazzini),
durante un pezzo siamo stati noi due soli a credere all'unità di
quest'Italia. Ora possiamo dire che avevamo ragione.» Al che il Manzoni volendo
mostrare che egli vi aveva avuto poco merito, perchè l'unità era inevitabile,
con un malizioso sorriso avrebbe risposto: «Il padre del nostro amico Torti,
che aveva sempre freddo, cominciava al primo fresco di settembre a dire: Vuol
nevicare. A ottobre e novembre sentiva crescere il freddo e ripeteva: Nevica
di sicuro. Finalmente, a gennaio o febbraio s'aveva una gran nevicata, e il
buon Torti esclamava: L'avevo detto io che doveva nevicare.» Ma, un anno
innanzi, prima che il Mazzini gli facesse visita, egli, che era sempre stato un
po' repubblicano e molto unitario, compiacevasi, in somma, di avere indovinato
giusto giusto come il padre del Torti. «Alla fede dell'unità d'Italia (egli
diceva) ho fatto il più grande dei sacrificii che un poeta potesse fare: quello
di scrivere scientemente un brutto verso.»
Questo brutto verso si trova in un frammento di Canzone
petrarchesca composta dal Manzoni nell'aprile dell'anno 1815, quando Gioachino
Murat bandiva il suo famoso Proclama di Rimini, col quale chiamava alle armi gli
Italiani, in nome dell'Unità italiana. Ma intanto che il Manzoni
scriveva, la rotta di Tolentino, con tutti gli ambiziosi disegni del Murat,
faceva cadere la penna di mano al nostro giovine Poeta, che, a mezzo della
quinta strofa, si arrestava. Il frammento, più che quattro strofe finite, ci
presenta un solo abbozzo, ove conviene tener molto conto de' pensieri ed usar
qualche indulgenza alla inelegante povertà del verso. Nello stesso anno il
giovinetto Leopardi componeva una specie di Orazione rettorica e reazionaria,
della quale mi fece vedere una copia il marchese Ferrajoli di Roma. Quando
verrà pubblicata, se pure a quest'ora non è già pubblica, sarà utile il
riscontrare la Canzone del reazionario Manzoni con la prosa del
Leopardi, il quale, per quanto intesi, era, alcuni anni dopo, col Nicolini tra
quelli che si sdegnavano più forte contro il pietismo manzoniano e contro la
sua teoria del perdono delle ingiurie. Il Manzoni nei versi del frammento, per
la forma, classicheggia un po' pedestremente; ma ne' concetti egli si rivela
moderno, e libero e coraggioso profeta d'un avvenire, intuito e sperato per
l'Italia da pochi sapienti:
O delle imprese alla più degna accinto,
Signor, che la parola hai proferita,
Che tante etadi indarno Italia attese;
Ah! quando un braccio le teneano avvinto
Genti che non vorrìan toccarla unita,
E da lor scissa la pascean d'offese;
E l'ingorde udivam lunghe contese
Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
In te sol uno un raggio
Di nostra speme ancor vivea, pensando
Ch'era in Italia un suol senza servaggio,
Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
Sonava intanto d'ogni parte un grido,
Libertà delle genti e gloria e pace,
Ed aperto d'Europa era il convito;
E questa donna di cotanto lido,
Questa antica, gentil, donna pugnace,
Degna non la tenean dell'alto invito;
Essa in disparte, e posto al labbro il
dito,
Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
Come siede il mendìco
Alla porta del ricco in sulla via;
Alcun non passa che lo chiami amico,
E non gli far dispetto è cortesia.
Forse infecondo di tal madre or langue
Il glorïoso fianco? o forse ch'ella
Del latte antico oggi le vene ha scarse?
O figli or nutre, a cui per essa il sangue
Donar sia grave? o tali, a cui più bella
Pugna sembri tra lor ingiuria forse?
Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
E non le voglie; e quasi in ogni petto
Vivea questo concetto:
Liberi non sarem se non siamo uni;
Ai men forti di noi gregge dispetto,
Fin che non sorga un uom che ci raduni.
Egli è sorto per Dio! Sì, per Colui
Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
Che del fratello il percussor percosse;
E fattol duce e salvator de' sui,
Degli avari ladron sul capo reo
L'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
Per quel Dio che talora a stranie posse,
Certo in pena, il valor d'un popol trade;
Ma che l'inique spade
Frange una volta, e gli oppressor
confonde,
E all'uom che pugna per le sue contrade
L'ira e la gioia de' perigli infonde.
Con Lui, signor, dell'itala fortuna
Le sparse verghe raccorrai da terra,
E un fascio ne farai nella tua mano...
I versi non belli, in questo frammento, sono parecchi; ma il
Manzoni alludeva, nel suo discorso, a questo:
Liberi non sarem se non siamo uni.
Per questa unità da lui voluta, sperata, predicata, fin da
giovinetto, il Manzoni aveva il coraggio di combattere apertamente, quantunque
così devoto al Capo spirituale della Chiesa, il potere temporale de' Papi. Per
questo riguardo, il Manzoni s'accordava perfettamente con l'antico e col nuovo
poeta Ghibellino, con l'Alighieri e col Niccolini; il Poeta quindicenne, nel Trionfo
della Libertà, e però prima della sua pretesa conversione, mentrechè egli
mostra come Dio, ossia la religione, insegni soltanto l'amore:
Ei, con la voce di natura, chiama
Tutti ad armarsi, e gli uomini accompagna
E va d'ognuno al cor ripetendo: ama!
si rivolge dantescamente a Roma:
Ahi! de la libertà l'ampia ruina
Tutto si trasse ne la notte eterna,
Ed or serva sei fatta di reina.
Che il celibe Levita ti governa
Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
Chiuder la porta e disserrar superna.
E i Druidi porporati, oh casta, oh santa
Turba di lupi mansüeti in mostra
Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta,
E il popol riverente a lor si prostra
In vile atto sommesso, e quasi Dei
Gli adora e cole, oh sua vergogna e
nostra!
Si offendeva il giovinetto Manzoni nel vedere che in Italia molto
più che Cristo si adorasse il suo Vicario; egli presentiva già il giorno, in
cui il Papa avrebbe finito per dichiararsi infallibile; perciò arditamente
cantava:
Infallibil divino a le devote
Genti s'infinse, che a la putta astuta
Prestâro omaggio e le fornîr la dote.
Si dirà facilmente da alcuno di que' devoti che si preparavano
alla beatificazione di Alessandro Manzoni, che non è da tenersi conto del
linguaggio intemperante di un giovine studente traviato; ma il guaio è che il
Manzoni, quantunque ossequente alla Chiesa, in tutto ciò che riguarda la
materia dommatica del Cattolicismo, non s'immaginava mai che verrebbe un
giorno, in cui l'infallibilità e il potere temporale de' Papi diventerebbero
due nuovi dommi, due nuovi articoli del Credo cattolico! Nell'Adelchi,
lo stesso Desiderio re de' Longobardi, a cui l'Autore impresta pure i suoi
proprii sentimenti religiosi, tanto da fargli dire vinto da Carlo Magno queste
parole di sommissione, per le quali si riconosce nel vincitore la potenza del
dito divino:
In te del cielo
Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
Dio m'inchinò, m'inchino,
quando si tratta di definire quali possano essere le relazioni di
un Re che ambisce la piena signoria d'Italia col Papa, esclama:
.... Roma fia nostra; e, tardi accorto,
Supplice invan, delle terrene spade
Disarmato per sempre, ai santi studii
Adrian tornerà; re delle preci,
Signor del Sacrifizio, il soglio a noi
Sgombro darà.
In queste poche parole viene espresso, dodici anni prima, il
concetto fondamentale dell'Arnaldo del Niccolini. Il Manzoni perciò non
poteva in nessun modo accordarsi coi Gesuiti, i quali volevano che la Chiesa
s'impacciasse nel governo politico del mondo; e fin dall'anno 1819, scrivendo
da Parigi al suo proprio confessore Tosi un po' giansenista, esprimeva
chiaramente il suo pensiero in proposito: «A malgrado (egli diceva) degli
sforzi di alcuni buoni ed illuminati Cattolici per separare la religione dagli
interessi e dalle passioni del secolo, malgrado la disposizione di molti
increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la religione
almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono
assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno
aggiunto al Simbolo. Quando la Fede si presenta al popolo così
accompagnata, si può mai sperare che egli si darà la pena di distinguere ciò
che viene da Dio da ciò che è l'immaginazione degli uomini? I solitarii di
Porto Reale l'hanno fatto, ma erano pochi, erano dotti, erano separati dal
mondo, assistiti da quella grazia che non cessarono d'implorare». Ciò che è
nuovo nel carattere religioso della letteratura manzoniana è, per l'appunto,
questo richiamo della religione a' suoi principii fondamentali di carità e di
libertà, questo accordo dei principii umanitarii del Vangelo coi principii
umanitarii proclamati dalla Rivoluzione francese, la quale non gli osservò poi
sempre essa medesima, ma intanto gli ha come consacrati nella società moderna.
Gli scrittori cattolici francesi più venerati, come il Chateaubriand ed il
Montalembert, rimasero, per questo riguardo, molto più indietro del Nostro. Il
Montalembert, per esempio, che conobbe il Manzoni a Brusuglio nel 1836,
discorreva un giorno con esso intorno all'assetto politico che si poteva
sperare o disperare di dare all'Italia. Il Manzoni disse tosto che il suo
ideale sarebbe stata l'unità d'Italia con un Principe di casa Savoia. Sperava
il Francese che il Manzoni avebbe fatta un'eccezione pel dominio temporale del
Papa, non potendo ammettere che un cattolico supponesse possibile qualsiasi
attentato contro di esso; e però strinse i panni al Manzoni, chiedendogli
quello che contasse di fare del Papa-Re. «Quando vi ho detto (rispose il
Manzoni senza scomporsi) che voglio l'unità con un Principe che non è il Papa,
mi par d'avere già risposto in anticipazione alla vostra dimanda.» Nell'anno
1848, quando tutta l'Italia delirava per Pio IX e in casa dello stesso Manzoni
il suo primogenito si faceva bello con la medaglia del Papa, il Manzoni fu de'
pochissimi che non si lasciarono sedurre da un entusiasmo, che a lui pareva più
funesto che utile all'unità italiana. Egli non si lasciava trasportare dalle
opinioni volgari, quando non gli pareva che il senso volgare fosse il buon
senso; ma voleva camminare co' suoi tempi, e progredire; anche nel modo di
vestire, desiderando evitare ogni ridicola stranezza, fino agli ultimi anni di
sua vita desiderava sempre mostrarsi uomo moderno. Di ogni ritorno al passato,
di ogni passo che si dèsse per andare indietro, si doleva. Venerava i dommi
cattolici, ma non trovava certamente che fossero pochi; e però quando intese
che se ne voleva aggiungere uno nuovissimo, quello dell'infallibilità papale,
il vecchio Manzoni si trovò intieramente d'accordo col giovinetto protestante
del Trionfo della Libertà, si schierò dunque animosamente tra gli
antinfallibilisti più risoluti e più rigorosi; «ma quando (scrive il Rizzi)
egli, cattolico, seppe che in Vaticano era passata, come si direbbe noi laici,
la nuova legge, non fece che esclamare: pazienza!, e non ne parlò più. E
forse in questa sua sottomissione della ragione alla fede c'entrava per molto
l'esempio del suo dottore e maestro l'abate Rosmini, il quale pure avea
dichiarato di sottomettersi alla censura inflitta al suo libro delle Cinque
Piaghe.» Ma, in somma, egli si rallegrò che Roma fosse tolta al governo del
Papa, ed accettò con piacere l'onore di venire ascritto nell'albo de' cittadini
di Roma capitale, dove il Papa infallibile si era rintanato a fare il broncio a
quell'Italia, che, come ben disse lo stesso Manzoni, egli benedisse prima del
Quarantotto, per mandarla, dopo il Quarantotto, a farsi benedire. Egli
conosceva il pregio di certi onori, i quali ricevono importanza dall'occasione
e dalla qualità speciale di chi li riceve e di chi li concede; perciò egli che,
a malgrado dell'intercessione del conte Andrea Cittadella e di Alessandro
Humboldt, non avea temuto offendere l'Imperatore d'Austria ed il Re di Prussia,
ricusando le loro decorazioni, gradiva poi una stretta di mano del re Vittorio
Emanuele, una rosa del generale Garibaldi, ed un ben tornito complimento del
più dotto fra i coronati viventi, Don Pedro d'Alcantara. Un tempo, quando
pubblicò i Promessi Sposi, egli avea pure gradito le cortesie del
Granduca di Toscana; ma non dimentichiamo ch'era quello il decennio glorioso,
in cui nella piccola ospitale Toscanina riparavano gli esuli delle altre
provincie d'Italia, il Pepe, il Colletta, il Poerio, il Leopardi, il Tommaseo,
il Giordani ed altri più che venivano a riscaldare le loro speranze intorno
alla più coraggiosa ed importante delle Riviste letterarie italiane, l'Antologia,
e nel Gabinetto letterario del ginevrino Giampietro Vieusseux. Ed il Manzoni di
nessuno faceva maggiore stima che di quegli Italiani, che aveano avuto la fortuna
non solo di scrivere, ma di patire e di combattere per l'Italia; quando il
Settembrini si dimenticò pertanto a segno da paragonare il Manzoni al
vecchio Priamo che scagliava il suo telo senile, egli, sebbene sentisse
tutta l'indegna acerbità dell'offesa, la voleva perdonare, non tanto perchè
come cristiano egli lo avrebbe dovuto, ma perchè egli pensava che si dovesse
perdonar molto ad un uomo, il quale era stato in prigione per la patria.
È noto che il Manzoni, negli ultimi anni della sua vita, lavorava intorno
ad un Saggio comparativo fra la Rivoluzione francese del 1789 e la
Rivoluzione italiana del 1859. L'opera, tuttora inedita, non potè venir
terminata; nella parte che riguarda la Rivoluzione francese, egli ammira
l'Ottantanove e deplora e condanna il Novantatrè, che non gli pare sia stato nè
utile nè, in alcun modo, necessario; trova, in somma, che il Novantatrè era un
Ottantanove peggiorato; sono rimasti intatti di questa parte ben 286 fogli. La
parte italiana, quale rimane fra le carte inedite del Manzoni, si compone di
soli diciotto fogli; al nostro scopo, che è quello di mostrare quale concetto
civile e politico il Manzoni si faceva della letteratura, basterà qui il
riferirne, poichè la gentilezza e la memoria di un amico ci aiuta, alcuni saggi
che il Manzoni stesso veniva leggendo ai più intimi ed assidui suoi
frequentatori. Di Dante che voleva l'unità con Arrigo di Lussemburgo, il
Manzoni scriveva: «Dante, il grande e infelice Italiano, che cercava in una
qualche forza viva il mezzo di ottenere l'unità, credette di poterlo trovare
nell'Impero. Ma, per verità, sarebbe difficile il decidere se questo sarebbe
stato meno atto a crearla davvero o a mantenerla.» Il Manzoni ammirava il
Piemonte e sperava molto da esso; perciò lasciò scritto: «La concordia nata nel
1849 tra il giovane Re di codesta estrema parte della patria comune e il suo
popolo ristretto d'allora, fu la prima cagione di una tale indipendenza; poichè
fu essa, e essa sola, che rese possibile anche il generoso e non mai abbastanza
riconosciuto aiuto straniero; e essa sola che fece rimaner privi d'effetto gli
sforzi opposti della Potenza allora prevalente in Italia, e fatalmente avversa
a questa indipendenza.» Ma il Manzoni voleva il Piemonte italiano, non già
l'Italia piemontese, e ancora meno l'Italia esclusa dal Piemonte o il Piemonte
dall'Italia. Perciò quando il Piemonte formava con la Sardegna un regno
separato, e l'Accademia delle Scienze, la quale soleva aggregarsi come Accademici
stranieri gl'illustri Italiani delle altre provincie, nel 1833 eleggeva Accademico
straniero il Manzoni, questi, rifiutando un tale onore, rispondeva al
Presidente dell'Accademia conte Prospero Balbo in questi termini: «Un tanto
onore sarebbe caramente pagato, se io non lo potessi ottenere che col titolo di
Accademico straniero; standomi più a cuore l'esser compatriotta di Lei e
degli altri uomini insigni, di cui codesta Accademia si vanta, che d'esser loro
collega; chè, se questo è un effetto della degnazione loro, quello è un dono di
Dio, che mi ha fatto nascere in questa Italia, che è superba di chiamarli
suoi.» L'ultime sue parole d'affetto furono pure per la città di Torino. Egli
le scrisse nell'anno 1873, poco prima di morire, e suonano così: «Trista
condizione di cose, in cui anche gli uomini di alta mente e amici della patria
non potevano far altro che disperare o sognare.» Vittorio Emanuele gli pare:
«Un Re che al coraggio e alla costanza della sua stirpe univa un sentimento per
l'Italia, che in questo caso non consentiremmo di chiamare ambizione, perchè la
parte di vanità e d'interesse personale sottintesa in un tale vocabolo scompare
nella grandezza e nella nobiltà del fine.» Riconosce l'antica forza di
resistenza opposta allo straniero invasore dall'esercito del piccolo Piemonte,
con una felice similitudine: «L'esercito piemontese aveva saputo tener
addietro, da quella parte, per ben tre anni, il novo invasore, come quel
valente ragazzo olandese aveva opposta all'acqua che stava per prorompere da un
punto dell'argine la sua piccola, ma tenace schiena, aspettando soccorso.»
Riconosce l'importanza del soccorso, che ci diedero i Francesi nel 1859; ma,
nello stesso tempo, osserva che l'Italia si è pure un poco aiutata da sè: «La
vita d'una nazione non può essere un dono d'altri. È bensì vero che una nazione
divisa in brani, inerme nella massima parte, e compressa da una preponderante,
ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da sè rivendicare il suo
diritto di essere; e questa è la sua infelicità e un ricordo di modestia. Ma è
anche vero che non lo potrebbe nemmeno con qualunque più poderoso aiuto esterno
senza un forte volere e uno sforzo corrispondente dalla sua parte. Un braccio
vigoroso può bensì levar dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di
reggersi e di camminare.» Per la stessa ragione il Manzoni ammirava la grande
impresa compiuta dal generale Garibaldi; ma, quanto più gli appariva
meravigliosa, tanto più ei vi riconosceva l'opera del popolo italiano che la
secondò: «E mille valorosi condotti, come a una festa, da un valorosissimo a
conquistare a questa patria comune un vasto e magnifico tratto del suo
territorio, da principio con l'armi, a un'immensa disuguaglianza di numero,
come a prova dell'ardire, e poi con la sola forza del nome e della presenza,
come a prova della spontaneità dell'assenso.» Questa pare a me e deve parere a
molti bella e buona sapienza politica; si chiama pure (a dispetto di certe
sottigliezze e squisitezze di stile che possono talora apparir soverchie) un
parlar chiaro e sicuro, come d'uomo profondamente convinto.
Il Manzoni ebbe pure la grande fortuna che gli eventi gli diedero
ragione. Nel 1848 egli voleva essere più tosto repubblicano con l'unitario
Mazzini, che federalista col re Carlo Alberto; del che dolevansi i suoi amici
piemontesi, in ispecie il Balbo e l'Azeglio. Quest'ultimo, perciò, scrivendo a
sua moglie sfogava un po' di risentimento politico contro il Manzoni ed i suoi
amici53: «Salutami gli amici, Grossi, Manzoni, e di' a tutti che io, a
forza di girare, conosco l'Italia più di loro; che non si fan repubbliche senza
repubblicani; e di questi non ne ho quasi incontrati in Italia. Di' a Manzoni
che, se riesce a far repubblicano Carlo Alberto, non riescirà a far Pio IX.
Sarebbe metter in seno all'Italia due serpi che si combatterebbero e lacererebbero
loro e lei. Per amor di Dio, contentiamoci di fare uno Stato forte sul Po,
costituzionale; e preghiamo Dio di trovare un venti per cento che capisca de
quoi il s'agit. A star sempre in una camera, parlar cogli stessi uomini, si
giudica male un paese e il mondo pratico. Lasciamo andar la donna del giudizio
di Salomone e il suo bambino; a lei Salomone dava la scelta, a noi la necessità
la nega. Giudizio, cose possibili, e non poesia, per carità!» Pare che il
Manzoni opinasse allora che chi amava l'Italia dovea piuttosto come, nel
giudizio di Salomone, imitar la vera madre, la quale preferiva piuttosto saper
viva ed intatta in mano altrui la propria creatura, che riscattarla dalle
altrui mani per farla in pezzi, L'Azeglio dava al Manzoni del poeta, altri, con
parola che vorrebbe significare il medesimo, lo qualificavano, a motivo delle
sue idee unitarie, per un utopista; al che egli rispondeva: «Eh! ben anche la
vostra federazione è un'utopia; poniamo pure che l'unità sia un'utopia; la
federazione è un'utopia brutta, come l'unità è invece un'utopia bella.»
Dolevasi, invero, che i Francesi avessero chiesto un compenso del sangue
versato in Lombardia, col privare l'Italia occidentale di due suoi antichi
baluardi; ma, dominato dal suo concetto unitario, egli provava a consolarsi
della dolorosa iattura con una similitudine: «Se la culla del Regno d'Italia
(egli pensava) è stata la Savoia, come il fanciullo cresciuto in età, non
avendo più bisogno della culla, la può dar via, così fece il Regno d'Italia
cedendo la Savoia alla Francia.» Ma la Savoia era all'Italia, più ancora che
una culla, una fortezza poderosa; chi la ricevette, invece, non si rallegrò
forse di un acquisto proporzionato alla gravità della nostra perdita. Ma in
Savoia non si parlava italiano, e uno de' più forti elementi per costituire
fortemente l'unità della patria pareva al Manzoni l'unificarla in un solo
linguaggio. Quindi il sacrificio nazionale, per la perdita di Nizza e Savoia,
ma specialmente della Savoia, al Manzoni dovette parer minimo. Essa non poteva,
secondo il concetto manzoniano, convergere al centro comune della patria, non
poteva associarsi e partecipare all'opera vivificatrice del linguaggio, che
doveva aver sede unica e base fondamentale in Firenze. Poichè ogni unità, ma
specialmente ogni unità organica, ha il suo centro di attrazione e di gravità,
poichè ogni albero ha la sua radice, la radice dell'albero della lingua
italiana, ond'essa dovea ricevere succo e forza vitale, era pel Manzoni in
Firenze, nella parlata fiorentina, come quella che in Toscana appare meno
incerta, e, come più ricca di storia civile, necessariamente anco più ricca di
parole adatte per esprimere un maggior numero di pensieri. «In fatto di lingua
(diceva egli con vivacità a' suoi amici), in fatto di lingua non c'è un più o
un meno; non c'è che il tutto o il niente.» Egli voleva il tutto; e non
ammetteva alcuna diminuzione di questo concetto ch'ei si era fatto dell'unica
base stabile e conveniente alla lingua italiana54. Chi, dicendosi
manzoniano, cercava l'italiano in altre parti della Toscana, fuori del Contado
fiorentino, spostava la sua questione, mostrava di frantenderla e irritava il
valentuomo che l'aveva proposta, forse più degli avversarii aperti, i quali
volevano che la lingua si pigliasse dove tornava più comodo.
La questione della lingua non è punto nuova in Italia; essa è
nata, si può dire, con la nostra letteratura. Merito principale del Manzoni fu
d'avere ricominciato a trattarla nazionalmente, con quella stessa
serietà, con la quale l'aveano posta nel Trecento e nel Cinquecento il primo
poeta e il primo prosatore d'Italia, Dante e il Machiavelli. Il merito dovea
parere tanto maggiore nell'anno 1824, quando il Manzoni s'accinse la prima
volta di proposito allo studio della lingua italiana, poichè Vincenzo Monti con
la Proposta e gli Accademici della Crusca coi loro illustri e minuti
battibecchi facevano anzi nuova mostra infelice, con meschini dispetti
provinciali, dell'antica e funesta discordia italiana. Il Manzoni poi,
lasciando stare le questioni minori, prese, come suol dirsi, il toro per le
corna, si domandò se lingua c'era, dov'essa era migliore, e quando la
fiorentina si riconoscesse migliore, richiese che quella sola si studiasse e
adottasse per farne la lingua di tutti gl'Italiani. Il ragionamento pareva
molto ovvio e semplice; il Manzoni aveva rinnovato il miracolo dell'uovo di
Colombo. Ma quando tutti ebbero capito quello che prima non capivano, pur
volendo mostrare di saperne di più, invece di convenire che egli avea ragionato
bene, si voltarono contro di lui come contro un sofista che, invece d'allargare
la questione, l'avea ristretta troppo. Ma egli aveva ragionato anche questa
volta da unitario. Egli ammirava forse nella storia più Firenze che Roma, e si
sarebbe contentato che la sede del Regno d'Italia rimanesse in Firenze anzi che
trasferirsi a Roma, la quale in ogni modo desiderava di gran cuore ridonata
all'Italia libera dal dominio temporale de' Papi. I Fiorentini doveano parere
al Manzoni gli Ateniesi d'Italia, la lingua fiorentina la nostra lingua attica.
Ma, perch'egli potesse avere pienamente ragione, era prima necessario
ascoltarlo; ora l'Italia non convenne a Firenze, per avvivarne l'antica
floridezza, per mettervi dentro tutto il suo sapere, tutta la sua civiltà e per
farne veramente la prima città d'Italia, com'era un tempo Atene per la Grecia;
l'Italia vi si attendò per cinque anni, non vi pose stabile radice e, migrando
nel 1870 ad altra riva, la lasciò più povera e più negletta di prima. La teoria
manzoniana quindi ci pare ora più che mai eccessiva, poichè in Firenze non
s'accentra più, com'era sperato dal Manzoni e dall'Azeglio, il fiore della
civiltà, il nerbo della vita italiana; ed una lingua per ottenere il consenso
universale d'una nazione ha bisogno di derivar la sua forza da una vita locale
più gagliarda delle altre. Questa vita privilegiata potrebbe esistere, ma non
può dirsi, pur troppo, che esista ora in Firenze; quindi la necessità di
ammettere la ragionevolezza di que' temperamenti che il Fauriel proponeva già
al Manzoni fino dal loro primi colloquii intorno alla lingua italiana. «Il
Fauriel (scriveva il Sainte-Beuve), udendo le ingegnose ragioni del Manzoni,
non ardiva contradirle in tutto, ma nondimeno aveva qualche cosa da ridire.
L'Italia ebbe pure in tutti i tempi i suoi grandi scrittori; perchè dunque non
potrà averne anche oggi? È poi un male così grande ed irrimediabile, alla fin
fine, d'esser costretto a scegliere, ed anche, in un certo senso, a comporsi la
lingua, a tenerla sollevata dalle trivialità, a cercare d'indirizzarla verso un
tipo superiore, che s'appoggia direttamente, ma in modo larghissimo,
all'esempio degli antichi maestri? È vero che, superate le difficoltà, ci vuole
poi l'ingegno per far bene. Ma il Fauriel mostrava che qui il campo era assai vasto
e glorioso. E ardiva, per certo, rimandare all'amico un rimprovero che ne avea
ricevuto sovente; e incitarlo a non voler prendere per regola del suo lavoro un
ideale di perfezione, a cui non è dato giungere interamente, neppure a coloro
che ne hanno in sè il sentimento. E rifacevagli quella guerra che spesso il
Manzoni compiacevasi fare a lui, per troppa incontentabilità. Il Fauriel era
infatti incontentabile in ciò che componeva, ma sulle cose; il Manzoni sullo
stile.» Noi possiamo ora trovar ragionevoli i temperamenti del Fauriel, ma
dobbiamo essere persuasi ch'essi non convincevano il Manzoni, il quale mirava
ad ogni specie di perfezione, e riconosceva come un elemento di perfezione
l'unità.
Bisognava in Italia scrivere popolarmente per essere intesi da
tutti, bisognava parlare una sola lingua, avere una sola fede religiosa, una
sola fede politica; senza di ciò non vi è armonia e vera grandezza italiana. Il
centro dell'unità del linguaggio doveva esser Firenze, quello dell'unità della
fede Dio, come lo intende e lo spiega la Chiesa cattolica. Voleva pure unità di
stirpe nel popolo italiano, e però nel suo celebre Discorso sopra la Storia
de' Longobardi che ebbe il merito di promuovere in Italia una nuova serie
d'indagini storiche molto importanti55, escludeva i Longobardi
conquistatori da quel popolo italiano che aveano vinto ed oppresso e derubato,
ma in nessun modo, potuto assimilarsi. Voleva bontà ed unità di leggi, liberate
dal capriccio; quindi la critica legislativa della sua storia della Colonna
Infame, ove, col pretesto di biasimar le antiche leggi, colpisce nella
stessa condanna le nuove sommamente arbitrarie dell'Austria. Anche le idee
avevano il loro principio, il loro centro d'unità; nel Dialogo
sull'Invenzione egli sostiene la dottrina rosminiana delle idee innate, e
le fa, per conseguenza, anche se non lo dice, risalire a Dio. Per lo stesso
sentimento d'armonia universale, il Manzoni sente l'alto dominio della poesia,
che abbraccia in sè l'universalità delle cose sentite e pensate, e la superiorità
della poesia alla storia. «È una parte (egli esclama nel suo Discorso sul
Romanzo storico) della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non
qualcosa di ciò ch'è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della
sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può
sapere.» La realtà per lui era la base, l'ideale, la corona di ogni edificio
poetico; perciò il suo edificio piantato sopra la terra poteva facilmente
salire fino al cielo. Per questi supremi diritti concessi alla poesia, il
Manzoni, sebbene confessi che ad ogni uomo d'ingegno giova il consenso altrui
per assicurarsi delle proprie forze, sentendo sè stesso tanto superiore al
volgo da poter talvolta osare di andar contro le opinioni volgari, lasciò pure scritto:
«La maggior parte de' poeti, le cui opere sopravvissero a loro, ebbero qualche
pregiudizio da vincere, e non divennero immortali se non con l'affrontare il
loro secolo in qualche cosa.» Ma non frantendiamo: il Manzoni, per quanto
grande rivoluzionario egli fosse in letteratura, non ha già voluto dire ai
giovani che, per riuscire originali, essi hanno ad urtare i sentimenti più
squisiti e più delicati del loro tempo; lo strano ed il grottesco non vogliono
già dire l'originale; il Manzoni è sempre ragionevole anche quando egli è
maggiormente poeta, ossia quando il suo ingegno si alza di più; egli ha
definito una volta la poesia l'esaltazione del buon senso, e basta
questa definizione per farci intendere quello ch'egli crede si possa dire o non
dire in poesia. Il reale e l'ideale devono essere fusi insieme; l'ideale deve
alzare il reale, non abbassarlo, non abbassarsi ad esso; l'uno fuori dell'altro
non istà nella poesia; e con uno solo di questi elementi non c'è vera poesia.
Il Manzoni, in questo come in altri casi, vuole tutto o niente. Egli, così
destro e fine nel cogliere i particolari accidenti delle cose, li nota soltanto
per le loro attinenze con quell'armonia generale che, nell'età nostra, nessuno
ha sentita più del Goethe. E quantunque assai lontano il Nostro dal possedere
quelle profonde conoscenze nelle scienze fisiche e naturali, che il Tedesco
aveva acquistate, è mirabile la loro concordia nell'alto concetto dell'unità
ideale della scienza, o, se vogliam meglio, delle scienze. «Questo esser costretti
(scriveva il Manzoni) a spezzar lo scibile in tante questioni, questo vedere
come tante verità nella verità ch'è una, e in tutte vedere la mancanza e
insieme la possibilità, anzi la necessità d'un compimento, questo spingerci che
fa ognuna di queste verità verso dell'altre, questo ignorare che pullula dal
sapere, questa curiosità che nasce dalla scoperta, com'è l'effetto naturale
della nostra limitazione, è anche il mezzo, per cui arriviamo a riconoscere
quell'unità che non possiamo abbracciare.»
Io mi sono forse troppo dilungato a parlare d'un Manzoni diverso
da quello che gli stranieri si figurano. Ma tante volte mi è accaduto di
sorprendere sulle labbra di gentili forestiere un sorriso ironico perchè
richiesto d'indicar loro uno scrittore italiano da leggersi, io raccomandavo a
tutte ostinatamente il Manzoni, tante volte mi sentii rispondere: sono pur
noiosi que' suoi Promessi Sposi ch'io ho voluto dimostrare dapprima: che
il Manzoni sarebbe per noi un grande uomo anche senza i Promessi Sposi;
ed ora mi proverò a dichiarare le ragioni, per le quali i Promessi Sposi
non possono parer noiosi a noi, e, se non mi lusingo troppo da me stesso, non
dovranno parer più noiosi ai forestieri, pur che s'avvezzino a leggerli a quel
modo con cui siam soliti a leggerli in Italia da un mezzo secolo e specialmente
da alcuni anni in qua, la guida costante di un rationabile obsequium.
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