XVII.
Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821. Il Cinque
Maggio.
Ho promesso di discorrere finalmente de' Promessi Sposi;
ma, cosa che parrà alquanto singolare, questi non s'intendono bene se prima non
rileggiamo insieme le strofe del Marzo 1821 ed il Cinque Maggio.
Ho detto rileggiamo, ma io temo pur troppo che le prime non solo alla maggior
parte de' lettori stranieri, ma ad un gran numero di lettori italiani non siano
note affatto; e le doveva ignorare il Settembrini, quando, con improvvida
leggerezza, lanciava al Manzoni l'accusa di essere stato il poeta della
reazione. Le conosceva invece benissimo e le faceva gustare vivamente al
pubblico affollato di Zurigo nell'anno 1856 l'illustre critico Francesco De
Sanctis, conchiudendone la lettura concitata con queste belle parole: «Non è
una Marsigliese, neppure una poesia del Berchet, potentissimo de' nostri
poeti patriottici. Ne' versi di costui sentite una certa profondità di odio che
spaventa, la tristezza dell'esigilo, l'impazienza del riscatto, ed un tale
impeto e caldo di azione che talora vi par di sentire l'odore della polvere ed
il fragore degli scoppi; qui è il suo genio. La poesia del Manzoni non è solo
un inno di guerra agl'Italiani, ma un richiamo a tutte le nazioni civili; la
parola del poeta è indirizzata agl'Italiani ed ai Tedeschi insieme. In tanta
concitazione di animi non gli esce una sola parola di odio, di vendetta, di
bassa passione; lontano parimente da ogni iattanza, non vi è il fremito e la
spuma della collera, ma la quieta temperanza di un'anima virile.» Ma questa
bellissima tra le liriche manzoniane fu il meno fortunato de' suoi
componimenti; nato nel marzo del 1821, alto scoppiar della rivoluzione
torinese, quando s'attendeva da un giorno all'altro che l'esercito liberatore
piemontese varcasse il Ticino, compresso dalle armi del Bubna e del Latour ogni
moto rivoluzionario in Piemonte, rimase nascosto fino al giugno dell'anno 1848,
quando la rivoluzione lombarda non solo era già scoppiata, ma ferveva calda e
vivissima la pugna fra gl'Italiani e gli Austriaci. Prostrata nuovamente ogni
speranza italiana, tornò a nascondersi in Lombardia fino all'anno 1859, e solo
fece capolino nella Rivista Contemporanea dell'anno 1856, dopo che il De
Sanctis l'ebbe recitata a Zurigo.
Nel 1859 si ristampò, ma oramai come una poesia già vecchia,
divenuta rara, non già come una lirica viva, eloquente, e piena di affetti
vigorosamente italiani. Così essa tornò a dimenticarsi, e non si trova ancora,
ch'io sappia, in alcuna nelle nostre antologie poetiche56.
E pure mancò poco che per essa il Manzoni non rischiasse il capo,
quando si pensi che per assai meno si empirono di generosi patriotti italiani
le carceri di Gradisca e dello Spielberg.
È noto come il Confalonieri, quando in attesa de' Piemontesi si
ponevano già dai congiurati lombardi del 1821 le prime basi di un Governo
provvisorio, abbia pregato l'amico suo Manzoni di adoprare i suoi buoni amici
presso il canonico Sozzi di Bergamo, affinchè questi si disponesse a prendervi
parte; il Sozzi fu abbastanza avveduto per rispondere: «Vengano prima e allora
ci troveranno tutti pronti.» Nel processo, il Confalonieri ebbe il torto di
parlar troppo e nominò pure, quasi a propria scusa, il Sozzi fra i membri
designati al futuro Governo provvisorio; un commissario di Polizia si recò
prontamente presso il canonico; ma questi, evitando a studio di nominare il Manzoni,
si strinse soltanto nelle spalle, dichiarando semplicemente che al Confalonieri
egli non avea parlato mai e che non era mai nè pure passata fra loro alcuna
lettera; il che era vero; così il Manzoni per quella volta fu salvo, ma il
pericolo corso fu assai grande e gli dovette porre nell'animo un vivo sgomento.
Il Confalonieri, che aveva il difetto di parlar troppo, sapeva a memoria le
tremende strofe manzoniane per la rivoluzione piemontese del marzo e, se avesse
parlato, il Manzoni era perduto. Quindi il Manzoni si ritrasse, in que' giorni
pieni di sospetti e di denuncie, da Milano a Brusuglio, ove per tutto il tempo
che durarono i processi politici, non cessò di temere. Non mai la poesia
politica italiana aveva spiccato il suo volo così alto. Vi è una grande
serenità e tranquillità in tutto l'Inno; ma quella pace sarebbe stata tanto più
minacciosa ai tedeschi dominatori, se allora essi avessero potuto prenderne
notizia. Col dedicarla poi nell'anno 1848 a Teodoro Koerner, il Manzoni che,
come s'è detto, avea avuto la fortuna d'essere stato compreso e consacrato dal
Goethe57 volle fare intendere alla Germania che egli sapeva distinguere
il popolo tedesco da' suoi Governi tirannici; ben disse dunque il Carcano che
quella dedicatoria era omaggio insieme e rimprovero alla nobile nazione che ci
calpestava. Il ritrarsi del Manzoni a Brusuglio, se fu consiglio di prudenza
domestica, non fu già una viltà civile. Egli non faceva all'Austria alcuna
concessione. Egli non le abbandonava nulla. Egli avea cessato di sperare
nell'opera immediata della rivoluzione, quindi ritirava il suo Inno per
riserbarlo a tempi migliori. Ma intanto continuava a protestare, e dolersi del
presente, a custodire tutte le sue speranze patriottiche dell'avvenire. La
rivoluzione piemontese era fallita; di là dunque per il momento non c'era da
attendere altro. Ma nessuno ebbe una fede più viva del Manzoni nell'opera del
tempo. Ed egli continuò a scrivere anche ne' giorni più desolati come un uomo
che spera. Sentì e si persuase che egli non era fatto per cospirare, che la
parte anche piccolissima da lui, quantunque inettissimo, presa alla congiura
del Confalonieri non era adatta al suo temperamento; ma sentì che come
scrittore, col permesso della Censura, la quale non avrebbe capito ogni cosa e
approvato molte cose che non capiva, egli avrebbe ancora potuto fare un gran
bene. Egli mostravasi ossequente alla censura; ne accettava tutti i tagli, bene
persuaso che ciò che sarebbe rimasto sarebbe bastato a far penetrare il suo
pensiero. Così sappiamo ora che la Censura austriaca fece parecchi tagli nell'Adelchi.
Il Manzoni, specialmente quando egli scriveva il Discorso storico, ne'
Longobardi raffigurava non già i Lombardi, ma la stirpe germanica, i Tedeschi,
gli Austriaci. Il Giannone avea scritto che la signoria de' Longobardi doveva
ormai risguardarsi come una signoria nazionale, perchè dominante in Italia da
oltre due secoli; il Manzoni, in quegli anni, ne' quali la Grecia si agitava
per la sua guerra d'indipendenza, demandava semplicemente se non fossero pure
stranieri i Turchi in Grecia, benchè vi dominassero da tre secoli. La Censura
soppresse quel brano. Quattro altri bei versi, ne' quali il giovine Adelchi,
supplicando il padre a far la pace con papa Adriano, parlava dell'attitudine
degli oppressi Latini, ossia degli oppressi Italiani:
Di questa plebe che divisa in branchi,
Numerata col brando, al suol ricurva,
Ancor dopo tre secoli, siccome
Il primo dì, tace, ricorda o spera,
furono pure sacrificati. Così, nel Coro dell'Adelchi,
scritto dopo che fallì la rivoluzione piemontese del 1821, tra gli altri versi
vennero soppressi questi, ove l'Autore si rivolgeva agl'Italiani:
Stringetevi insieme l'oppresso
all'oppresso,
Di vostre speranze parlate sommesso.
Ma il censore che si credeva furbo, lasciò passare nello stesso
Coro questi altri versi, ove il volgo latino vedendo arrivare i Franchi
guerrieri (si legga Buonaparte coi Francesi),
rapito d'ignoto contento,
Con l'agile speme precorre l'evento,
E sogna la fine del duro servir.
I Franchi, ossia i Francesi, arrivano contro i Longobardi, ossia
contro i Tedeschi di Lombardia, contro gli Austriaci; ma, invece di liberare,
portano in Italia una nuova tirannide, la tirannide napoleonica; e il censore
si contenta che l'ultima strofa del Coro manzoniano dica così:
Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico;
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti,
Si posano insieme su i campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.
Era un canto di dolore, che dovea seguire naturalmente a quello
tutto fiducioso che, nel marzo 1821, il Manzoni stesso avea composto, quando i
congiurati lombardi aspettavano con ansia le novelle che l'esercito
rivoluzionario piemontese avea passato il Ticino. Ma il censore non capì
intanto che era l'Austria la rea progenie,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
e che con quelle parole il Manzoni vendicava finalmente nel 1822 i
martiri piemontesi e lombardi della libertà italiana. Dopo il 1821, il Manzoni
fece della Censura austriaca la propria alleata, per divulgare i suoi pensieri
patriottici; prima di quel tempo, aveva, invece, anch'esso, se bene
inutilmente, cospirato un poco. Ne' Cento Giorni, quando si temeva in
Italia una nuova ristorazione della tirannide napoleonica, il Manzoni aveva,
fra il 23 aprile e il 12 maggio 1814, composta una Canzone che si conserva
inedita a Milano, diretta contro la signoria francese in Italia. Ne reco qui,
per saggio, la prima strofa, la quale mi pare abbastanza significante pel suo
particolare sapore manzoniano:
Fin che il ver fu delitto, e la menzogna
Corse gridando, minacciosa il ciglio,
Io son sola che parlo, io sono il vero,
Tacque il mio verso e non mi fu vergogna.
Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
Che non è sola lode esser sincero,
Nè rischio è bello senza nobil fine.
Or che il superbo morso
Ad onesta parola è tolto alfine,
Ogni compresso affetto al labro è corso;
Or si udrà ciò che sotto il giogo antico
Sommesso appena esser potea discorso
Al cauto orecchio di provato amico.
Dopo il 1822, il Manzoni giudicò cosa più prudente e più pratica
il confidarsi tutto all'ignoranza de' suoi censori. Quando il 5 maggio 1821
morì Napoleone, il nostro Poeta si trovava a Brusuglio. Parve a sua madre che
quella morte sarebbe stata degno soggetto di un suo canto. Il Manzoni si
raccolse brevemente in sè stesso, e bastarono sole ventiquattro ore ad
ispirargli una delle più belle liriche del nostro secolo, nella quale il
soggetto epico trae pure calore lirico dalle impressioni stesse che il poeta
aveva ricevute nella sua gioventù alla vista di Napoleone. Lo Stoppani ci ha
fatto noto che il verso del Cinque Maggio, ove si rappresenta il modo
terribile, con cui il primo Napoleone poteva talora guardare:
Chinati i rai fulminei,
risale ad una impressione ricevuta dal Manzoni giovinetto al Teatro
della Scala. Dopo la battaglia di Marengo il Buonaparte era venuto a Milano
più da padrone che da liberatore: entrò una sera in teatro, e scorse in un
palco la contessa Cicognara, nemica implacabile che non gli perdonava
l'ignobile mercato di Venezia. Incominciò a puntare gli occhi sopra di lei,
quasi per fulminarla, e per tutta la sera non si rimosse. «Che occhi! (diceva
il Manzoni, il quale stava nel palco della Contessa), che occhi aveva
quell'uomo!» e richiesto se potesse esser vero che quegli occhi gli avessero
suggerito il noto verso, rispose: «Proprio così, proprio così.»
Il Buonaparte gli aveva lasciato certamente per questo ricordo e
per altri consimili una forte, viva e profonda impressione. Al poeta
Longfellow, che, in una sua visita al Manzoni, avvertiva la Impossibilità,
nella quale egli si era trovato di render convenientemente in inglese tutte le
bellezze di quell'Inno straordinario, il Manzoni con la sua solita originalità
ed arguzia, pur facendosi tutto rosso in viso, rispondeva: «Dio buono! Era il
morto che portava il vivo!» Il Manzoni era, del resto, sinceramente persuaso
che si fosse un poco esagerato il merito del proprio componimento, a cui fu
senza dubbio non piccola gloria e pari fortuna l'essere stato proibito dalla
Polizia austriaca, tradotto in tedesco dal Goethe, imitato in francese dal
Lamartine58. L'Austria aveva tosto riconosciuto nel Cinque Maggio
del Manzoni un omaggio troppo splendido al suo temuto nemico, che pareva come
evocato dal suo sepolcro, in quelle strofe potenti. Non ne permise la stampa;
ma il Manzoni ebbe l'accorgimento di presentarne alla Censura due esemplari: un
esemplare il censore tenne gelosamente presso di sè; dell'altro esemplare non
prese alcuna cura; ed il caso volle che andasse smarrito negli stessi ufficii
di Polizia, o sia che qualche impiegato lo trafugasse e trafugato lo
divulgasse; onde il Manzoni poteva poi dire con la sua consueta maliziosa
bonarietà, ch'egli il Cinque Maggio non l'aveva proprio stampato mai,
non avendone mai avuto il tempo, poichè quella Polizia che ne avea proibita la
stampa, si era essa data briga di farlo divulgare, tanto che usci la versione
tedesca del Goethe prima che ne fosse conosciuta alcuna edizione italiana. Ogni
grande scrittore ha nella sua vita il suo momento epico; il Manzoni lodato dal
Goethe che canta Napoleone, dovette sentire tutta la potenza del suo genio
poetico, e ch'egli, in quel punto, dominava veramente le altezze:
Lui sfolgorante in soglio
Vide il mio genio e tacque.
L'io Manzoniano qui appare potente come in quei forse
già da me notato, forse più ambizioso di qualsiasi più audace affermazione:
E scioglie all'urna un cantico
Che forse non morrà.
Il Cinque Maggio è il degno epilogo poetico di una grande
epopea storica, tanto più grande e più eloquente in bocca d'un poeta che
poteva, con fiero e legittimo orgoglio, quasi unico tra i poeti italiani e
francesi del suo tempo, dirsi innanzi alla memoria di Napoleone
Vergin di servo encomio,
E di codardo oltraggio,
quantunque la notizia che abbiamo ora di una Canzone
antinapoleonica, non codarda certamente e non oltraggiosa, ma pure scritta dal
Manzoni, quando il colosso napoleonico non lo poteva più ferire, scemi una
parte dell'efficacia potente che avevano que' due mirabili versi59.
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