XIX.
IL MANZONI E LA CRITICA.
Appena che i Promessi Sposi si pubblicarono, il pubblico li
comprò e li lesse avidamente75: se ne fecero subito in tutte le
provincie d'Italia ristampe, in Francia, in Germania, in Inghilterra
traduzioni. Il pubblico lesse ed ammirò; parecchi nobilissimi ingegni sacrarono
tosto con parole di vero entusiasmo il capolavoro della moderna prosa italiana;
i soli letterati di professione, facendo il loro solito invido mestiere,
criticarono indegnamente. Ma il pubblico, come spesso accade, non gli ascoltò;
i Promessi Sposi diventarono, in poco tempo, classici; i luoghi
descritti nel romanzo parvero degna mèta di nuovi pellegrinaggi ideali; i tipi
de' Promessi Sposi diventarono tutti popolari; il romanzo parve così
poetico, che un Del Nobolo si provò pure a mettere quella storia in versi; la
pittura, la musica s'impadronirono di quel tèma popolare, reso illustre da una
mente sovrana; fino ad oggi le edizioni italiane del romanzo superano le
centocinquanta. Nessun libro italiano è forse mai stato letto di più; e pure è
singolare che oggi, dopo oltre cinquant'anni, ci siano ancora da scoprire ne' Promessi
Sposi tante finezze, tante bellezze che erano passate intieramente
inosservate. Un commento ai Promessi Sposi rimane ancora da farsi e non
può mancare. Il libro è assai piano, e non sembra abbisognarne: e pure confido
che quanto ne sono venuto dicendo fin qui, abbia già convinto alcuno di voi che
in questa come in tutte le opere del genio si può sempre scoprire qualche
abisso inesplorato. L'antico bisticcio del Tommaseo avrebbe potuto da lungo
tempo spingere i lettori a questa maniera d'indagini; ma, o non vi si pose
mente, non vedendosi altro in quel giuoco di parole che il giuoco stesso e non
l'occasione che gli avea dato mouvo, o, vivo Manzoni, nessuno osò andare a
cercar l'Autore nel libro. Dopo la sua morte, si raccolsero parecchi de' suoi
motti, si ricordò qualche suo discorso, si pubblicarono alcune sue lettere; ma
a rileggere criticamente tutto intiero il libro de' Promessi Sposi, dico
a rileggerlo per il pubblico, non s'è pensato ancora; ed è cosa assai strana,
fra tanto consenso di ammirazione, che non solo dura, ma cresce sopra la tomba
del grande Milanese. I Promessi Sposi li rileggiamo volentieri, perchè
ad ogni nuova lettura ci pare d'intenderli e di gustarli meglio; ma, quanto
maggiore sarà questo nostro diletto, se noi potremo d'ora in poi leggere quelle
tante altre belle cose che il Manzoni nascose prudentemente fra riga e riga, ed
alle quali non avevamo fin qui posto mente! Ricordiamoci ch'è del Manzoni e che
si trova per l'appunto ne' Promessi Sposi quella similitudine fra i
segni del vasto saccheggio fatto nella parrocchia di Don Abbondio accozzati
insieme nel focolare e «molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo
di garbo.»
Dicono che Walter Scoti, venuto a Milano, cercasse tosto del
Manzoni, per rallegrarsi con lui del suo bel romanzo, e che il Manzoni, il
quale definì un giorno lo Scott «l'Omero del romanzo storico,» con modestia
rispondesse ai primi complimenti: «Se i miei Promessi Sposi hanno
qualche pregio, sono opera vostra, tanto sono il frutto del lungo mio studio
sui vostri capolavori.» Il grande Romanziere scozzese sentì tosto ciò che vi
era di eccessivo in quella modestia, e tagliò corto, a quanto si narra (il
Carducci pone in dubbio il racconto stesso), con una risposta non meno spiritosa
che eloquente, la quale non ammetteva replica: «Or bene, in questo caso
dichiaro che i Promessi Sposi sono il mio più bel romanzo.»
Carlo Cattaneo, forte ingegno lombardo, che non partecipava punto
delle idee della scuola manzoniana, anzi le combatteva, parlando un giorno col
professor De Benedetti, dichiarava ch'egli non conosceva alcuno scrittore più
originale del Manzoni, perchè in nessun altro scrittore si vedono come nel
Manzoni armonizzate due qualità che di consueto si escludono, la pietà e la satira.
Ho riferito l'opinione d'un rivale e quella d'un dissidente;
gioverà ancora ascoltare quella di un nobile avversario.
Il Sismondi, contro il quale il Manzoni avea composto il suo libro
sopra la Morale cattolica, scrivendo nel 1829, da Ginevra, a Camillo
Ugoni, esprimevasi in questi termini sopra il Manzoni: «Je suis enchanté
d'apprendre que vous préparez une novelle édition de ses oeuvres; c'est un
homme d'un beau talent et d'un noble caractère. J'apprends avec bien de chagrin qu'au lieu de
préparer quelque nouvel ouvrage dans le genre du roman historique dont il a
fait un présent a l'Italie, il écrit au contraire un grand livre contre ce
genre d'ouvrages. Il y avait da génie dans ses Promessi Sposi, il y
avait en même temps l'exemple da genre de lecture qui peut, en dépit de la
censure, faire l'impression la plus générale et la plus utile sur le public
italien.»76
Ma il Manzoni doveva essere originale in tutto; egli avea promesso
a vent'anni di mirar sempre alla salita, ma che egli sarebbe caduto
sopra una via propria, sulla sua propria orma, quando avesse dovuto cadere.
Appena composti i Promessi Sposi, vedendo il pericolo che si correva a
passare per creatore del romanzo storico in Italia, e ad esser tenuto complice
di tutti i pretesi romanzi storici che si sarebbero pubblicati dopo il suo,
ebbe un'idea poetica. Adopero la parola poetica nel modo, in cui
piaceva adoprarla a Renzo. Vi ricordate la scena dell'osteria? Un giuocatore
dice che le penne d'oca, con le quali si scrive, sono in mano de' signori, perchè
sono essi che mangiano le oche, ed è giusto che s'ingegnino a far qualche cosa
anche delle penne. Si ride, e Renzo esclama: «To' è un poeta costui. Ce n'è
anche qui de' poeti; già ne nasce per tutto. N'ho una vena anch'io, e qualche
volta ne dico delle curiose..., ma quando le cose vanno bene.» L'Autore
soggiunge: «Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che,
presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già,
come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un
allievo delle Muse, vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano che, ne'
discorsi e ne' fatti, abbia più dell'arguto e del singolare che del
ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole,
e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi
domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?» Il Manzoni dovette
sentirsi dare a quel modo del poeta, e non da sole persone del volgo. Quando
egli stava correggendo i Promessi Sposi, cioè nel luglio del 1824, dopo
avere scritto una bella lettera scherzosa a monsignor Tosi, conchiude: «Ma io
m'accorgo che lo scherzo eccede e che la mia pensata di non dirle seriamente
quello che io sento, per timore d'essere poco rispettoso, è stata veramente,
com'Ella dice qualche volta, poetica. Perdoni Ella davvero questa
scappata d'un cervello che Ella conosce per balzano, la perdoni
alla vivezza d'un sentimento che aveva proprio bisogno di sfogo.» Queste parole
sono il commento più autentico che si possa desiderare a quel brano veramente poetico
dei Promessi Sposi.
Il Manzoni dovea temere i suoi pedissequi, non meno forse che il
pericolo d'esser preso egli stesso per un pedante che camminasse sulle traccie
altrui. Per i grandi egli aveva un rationabile obsequium; Virgilio,
Dante, lo Shakespeare, il Voltaire, il Goethe ammirava, ma sentendosi
abbondanza d'ingegno originale, non si provò mai, dopo il Carme per l'Imbonati
e l'Uranio, ad imitarli. Concepì il romanzo come un lavoro nuovo e sui
generis, anzi, tutto proprio, e nell'anno medesimo in cui l'ebbe terminato,
che fu, come s'è già detto, il 1823, diresse al marchese Alfieri una lunga
lettera sul romanticismo, la quale rimase allora inedita, ma che ci pare
molto eloquente. Compiuto un lavoro destinato a diventar classico, ecco in qual
modo egli ragionava intorno ai Classici: «Gli antichi, o almeno i più lodati di
essi, sono stati appunto eccellenti, perchè cercavano la perfezione nel
soggetto stesso che trattavano, e non nel rassomigliare a chi ne aveva trattati
di simili; e quindi per imitarli nel senso più ragionevole e più degno del
vocabolo, bisognava appunto non cercare d'imitarli nell'altro senso servile.
Chè molte cose de' Classici erano piaciute, perchè avevano trovato negl'intelletti
una disposizione a gustarle, nata da circostanze, da idee, da usi particolari
che più non sono. Che, fra i moderni stessi, più vantati son quelli che non
imitarono, ma crearono; o, per parlare un po' più ragionevolmente, seppero
scoprire ed esprimere i caratteri speciali, originali, degli argomenti che
presero a trattare; vi è un po' di contradizione nel dire: prendete a modelli
quegli scrittori che furono sommi, perchè non presero alcun modello.» Egli non
può tollerare l'impero delle leggi stabilite, con molto arbitrio, dai retori.
«Ricevere (egli esclama) senza esame; senza richiami, leggi di tali, e così
create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale infatti (aggiungeva) è
l'effetto più naturale del dominio di queste regole? Di distrarre l'ingegno
inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla ricerca de' caratteri
proprii ed organici di quello, per rivolgerlo e legarlo alla ricerca e
all'adempimento di alcune condizioni talvolta affatto estranee al soggetto, e
quindi d'impedimento a ben trattarlo. Una delle lodi che noi Italiani in
ispecie diamo ai poeti che più siamo in uso di lodare, non è ella forse
dell'aver eglino abbandonate le norme comuni, dell'essersi resi superiori a
quelle, dell'avere scelta una via non tracciata, non preveduta, nella quale la
critica non aveva ancor posti i suoi termini, perchè non la conosceva, e il
genio solo doveva scoprirla? Se essi dunque hanno fatto così bene, prescindendo
dalle regole, perchè ripeteremo sempre che le regole sono la condizione essenziale
del far bene?» E sopra questo argomento della ragionevolezza nell'ammirazione
egli ritorna ancora con altre parole: «L'ammirazione pe' sommi lavori
dell'ingegno è certamente un sentimento dolce e nobile; una forza non so se
ragionevole, ma tuttavia universale, ci porta a gustare più ancora un tal
sentimento, quando gl'ingegni che lo fanno nascere sono nostri concittadini. Ma
l'ammirazione non deve mai essere un pretesto alla pigrizia, voglio dire che
non deve mai inchiudere l'idea di una perfezione che non lasci più nulla da
desiderare nè da fare. Nessun uomo è tale da chiudere la serie delle idee in
nessuna materia; e come nelle opere della produzione materiale, così in quelle
dell'ingegno, ogni generazione deve vivere del suo lavoro, e risguardarsi il già
fatto come un capitale da far fruttare con nuovi trovati, non come una
ricchezza che dispensi dall'occupazione.»
Egli scrive dunque a suo modo un libro che si battezza come un romanzo
storico; così tuttavia non l'ha battezzato egli; egli ha fatto un libro
originale che fu ascritto tra i romanzi originali; ma il suo romanzo
storico è tale che si può dire di esso:
Manzoni il
fece e poi ruppe lo stampo.
Vennero numerosi imitatori: nessuno, non esclusi i migliori, come
il Varese, il Bazzoni, l'Azeglio, il Grossi, il Cantù, riuscirono a darci un
romanzo manzoniano; chi si avvicinò di più, per alcune parti, al tipo,
fu Giulio Carcano con la sua Angiola Maria; ma questa, più ancora che i Promessi
Sposi, arieggia il Vicario di Wakefield del Goldsmith. Il Manzoni
previde il caso, e col suo bravo discorso contro il Romanzo storico mise, come
suol dirsi, le mani innanzi, per non venire confuso co' suoi probabilmente
numerosi seguaci, che si credettero e non furono e non potevano essere
imitatori. Egli non può naturalmente, per modestia, parlare di sè; ricorre
quindi ad un altro esempio illustre, ed esclama: «Mi sapreste indicare, tra le
opere moderne e antiche, molte opere più lette e con più piacere e ammirazione
dei romanzi storici di un certo Walter Scott? Voi volete dimostrare, con questo
e con quell'argomento, che non doveano poter produrre un tal effetto. Ma se lo
producono! - Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perchè, è un
fatto innegabile, ma è un fatto di quei romanzi, non il fatto del romanzo
storico.» Con questo argomento egli salva il proprio libro dal naufragio, in
cui si accorge che tutti i romanzi storici devono andare perduti; e meglio
ancora da questo argomento, che richiede sempre il sussidio della prova, lo
salva, fuor di ogni dubbio, la creazione di alcuni tipi; il poeta creatore di
tipi salva il romanziere. Non si domanda, invero, nè importa sapere in qual
secolo, in qual villaggio precisamente, Don Abbondio abbia vissuto; ciò che
rileva è che si abbia in lui rappresentato al vivo un certo carattere umano, un
certo tipo di parroco italiano. Il romanzo può perire; Don Abbondio e l'artista
che lo scolpì, vivranno immortali. Ma il genere, insomma, è proprio falso. «Un
gran poeta e un gran storico (disse con ragione il Manzoni sentendo sè stesso)
possono trovarsi, senzo far confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel medesimo
componimento. - Il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è
conosciuto; o non si conosce se non in quanto si può distinguerlo da ciò che
non è lui; e quindi l'ingrandirlo con del verosimile non è altro, in quanto
all'effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte
sparire. Ho sentito parlare di un uomo più economo che acuto, il quale si era
immaginato di poter raddoppiare l'olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta
acqua. Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra, l'andava a fondo, e
l'olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e
dibattendoli bene, ne resulterebbe un liquido solo, e si sarebbe ottenuto
l'intento. Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so che di brizzolato, di
picchiettato che scorreva insieme, ed empiva la lucerna. Ma era più roba, non
era olio di più; anzi, riguardo all'effetto di far lume, era molto meno. E
l'amico se ne avvide, quando volle accendere lo stoppino.» Quando il Manzoni
ebbe pubblicato il suo Discorso contro il Romanzo storico - Siamo fritti!
- scriveva Tommaso Grossi a Cesare Cantù. E si capisce che, dopo avere pensato
e scritto un tale discorso, ove ogni pagina, anzi ogni parola rivela una
profonda persuasione, egli non si sarebbe mai accinto a scrivere un secondo
libro sul tipo dei Promessi Sposi. Prima di tutto, un libro simile non
può essere altrimenti che unico per uno scrittore e per una letteratura. Concepite,
se vi riesce, due Iliadi per la Grecia, due Divine Commedie per
l'Italia, due Amleti per l'Inghilterra, due Faust per la
Germania, due Don Chisciotti per la Spagna; l'uno dei due deve essere
una freddura o una caricatura. Così non si può dare in Italia un altro libro
simile ai Promessi Sposi, e il Manzoni avea troppo buon senso per
immaginarsi di poterlo scrivere; egli non era, per dire il vero, un grande
ammiratore del Tasso; anzi è strano il disprezzo che mostrò a questo nostro
grande e infelice ingegno; ma, se ammirava qualche cosa in lui, la Gerusalemme
Conquistata dovea parergli una grande miseria nel confronto della Gerusalemme
Liberata. Egli dunque non avrebbe mai commesso lo sbaglio di comporre un
secondo poema, o sia un secondo romanzo; ma nel capitolo 22 del suo romanzo si
era letto questo passo, relativo alla storia della Colonna infame ed agli
Untori: «È parso che la storia potesse esser materia di un nuovo lavoro. Ma non
è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con
l'estensione che merita. E, oltre di ciò, dopo essersi fermato su quei casi, il
lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro
racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli,
torneremo finalmente ai nostri personaggi.»
Fu uno sbaglio quella pubblica promessa; poichè si trovarono
subito, non so se speculatori o spigolatori, o l'uno e l'altro insieme, che gli
sfiorarono l'argomento, così chiaramente indicato alla curiosità del pubblico,
di maniera che quando il Manzoni ebbe pronta la sua Storia della Colonna
infame, troppi dei documenti ch'egli aveva esaminati il primo, aveano già
vista la luce. E poi il pubblico s'era immaginato da quella aperta promessa, e
dalla lunga aspettativa, che sarebbe uscito un nuovo racconto; quando, invece,
s'accorse di che si trattava, esso si credette burlato, e mormorò, quantunque
il Manzoni l'avesse, con onesta previdenza, messo subito sull'avviso,
scusandosi da sè stesso della soverchia curiosità, con cui s'era attesa la Storia
della Colonna infame. «In una parte (egli scrive) dello scritto precedente
(I Promessi Sposi), l'Autore aveva manifestata l'intenzione di
pubblicare la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna,
sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e
di mole corrispondente. Ma, se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a
lui, gli sia permesso almeno di protestare che nell'errore non ha colpa, e che,
se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i
monti.» Il Manzoni, proseguendo l'opera di Pietro Verri che nel secolo innanzi
aveva scritto le Osservazioni sulla Tortura, voleva fare inorridire per
le iniquità dei sistemi di procedura, insistendo sui processi degli Untori, non
tanto per far prendere in odio la tortura già scomparsa, quanto per rendere
odiosi i processi che l'ignoranza rende ancora sempre arbitrarii e fallaci.
«Noi (egli scrive), proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo
sopra errori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non
ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni
volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si
posson bandire come falsi sistemi, nè abolire come cattive istituzioni, ma
render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti e
detestarle.» Si meraviglia il Manzoni e si duole e s'arrabbia ad una volta che,
per un secolo e mezzo, non pur dal volgo, ma da uomini dotti ed onesti siasi non
pur creduto agli Untori, ma diffusa per gli scritti l'opinione che gli Untori
esistessero, e che fosse carità e giustizia il perseguitarli. «Se non che
(osserva il Manzoni) anche quella indegnazione alla rovescia, anche il
dispiacere che si deve provare nel riconoscerla, porta con sè il suo vantaggio,
accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica e non mai
abbastanza screditata di ripetere senza esaminare, e se ci si lascia passar
quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, alle volte
quello che gli ha già dato alla testa.»
I processi erano condotti con la ferma intenzione di trovare
materia di condanna, e di provare ad ogni costo la reità dell'accusato. A
proposito del Mora, il quale sotto la tortura si confessa reo, il Manzoni
osserva: «Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro,
come al Piazza le immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso
con una tortura illegale come nel primo con un'illegale impunità. L'armi eran
prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio e a
tradimento.» Il Manzoni mirava evidentemente a colpire con queste parole la
pretesa legalità dei processi politici austriaci, ai quali premeva provare la
reità degli accusati; sopra questi processi si dovea poi scrivere la storia.
Ora noi vediamo quale opinione avesse il Manzoni degli storici ufficiali,
quando leggiamo quello che egli scriveva intorno al Ripamonti: «Il Ripamonti
era istoriografo della città, cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche
caso, può esser comandato e proibito di scriver la storia.» Così egli fa una
critica degli storici, quando giustifica sè d'aver fatto la storia di povera
gente: «I giudizii criminali e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano
come materia propriamente della storia.»
Nella seconda parte del suo scritto, il Manzoni cogliendo
l'occasione che gli si offre di cercare quello che gli storici avean detto
degli Untori, intraprende pure una critica eruditamente demolitrice di Pietro
Giannone, storico audacemente plagiario, e la conchiude con queste parole: «Chi
sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse
ricerea; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori,
non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico giudizii, l'osservazioni, lo
spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e
lodato, quel che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di
mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio, ma unica la felicità di
restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grande uomo. E questa
circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia
perdonare dal benigno lettore una digressione, lunga, per dir la verità, in una
parte accessoria di un piccolo scritto.»
Dopo aver citato i versi del Parini, che fanno eco alla tradizione
popolare degli Untori e della Colonna infame:
O buoni cittadin, lungi, che il suolo
Miserabile infame non v'infetti,
Il Manzoni soggiunge. «Era questa veramente l'opinione del Parini?
Non si sa; e l'averla espressa così affermativamente bensì, ma in versi, non ne
sarebbe un argomento; perchè allora era massima ricevuta che i poeti avessero
il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere o false, le quali
fossero atte a produrre un'impressione o forte o piacevole. Il privilegio!
Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si
rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perchè i poeti, nessun
credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare; solo può parere strano che
i poeti fossero contenti del permesso e del motivo.»
Noi abbiamo qui un Manzoni intieramente critico; il poeta creatore
è scomparso. Ma quanta novità ed originalità pure in questa critica! quanta
onestà e profondità d'intendimenti! quanta efficacia, quanta poesia, se si può
dire, in questa stessa critica! Noi dobbiamo tuttavia, a nostra confusione,
confessare che la Storia della Colonna infame come, in generale, tutte
le prose critiche del Manzoni, in Italia fu letta da pochi e meditata da
pochissimi; e che il Manzoni dovette anche una volta convenire che egli era
stato meglio capito, in ogni modo, meglio apprezzato da un forestiero che dai
proprii concittadini. In una lettera di ringraziamento ch'egli diresse,
nell'anno 1843, al conte Adolfo di Circourt, noi leggiamo queste parole scritte
in francese, lingua della quale egli aveva già dato splendido saggio nella sua
bella lettera al Chauvet sopra le Unità drammatiche, pubblicata dopo una rispettosa
critica del suo Conte di Carmagnola: «J'avais, effet, en travaillant au
petit ouvrage que vous avez jugé avec tant d'indulgence, les intentions que
vous exprimez si bien. Evènement
isolé et sans relation avec les grands faits de l'histoire; acteurs obscurs,
les puissants autant que les faibles; erreur sur laquelle il n'y a plus
personne à détromper parmi ceux qui lisent; institutions contre lesquelles on
n'a plus a se défendre: il m'avait semblé que sons tout cela il y avait
pourtant encore un point qui touchait aux dangers toujours vivants de
l'humanité, a ses intèrèts les plus nobles, comme aux plus matériels, a sa
lutte perpétuelle sur la terre. Mais comme on aime beaucoup à viser, on se fait
facilement des buts; et la persuasion la plus vive, qui par cela même pourrait
n'être qu'engouement, le témoignage même de quelques amis dont le jugement, de
grande autorité en toute autre occasion, pourrait être égaré par la sympathie,
ne peuvent rassurer que faiblement contre la crainte de s'être trompé. C'est du
public que l'on attend une assurance, non pas entière, mais plus ferme; et
cette épreuve m'a été complètement défavorable. Quand ma petite histoire a
paru, le silence (permettez-moi de ramener à un sens plus réel une expression
que vous avez employée d'une manière trop bienveillante) le silence s'est fait;
et la curiosité qui s'était assez éveillée dans l'attente a cessé tout d'un
coup, non comme satisfaite, mais comme déçue. Jugez après cela, Monsieur, quel
plaisir a dû me faire une voix inattendue et éloquente, qui a bien voulu me
dire que je ne m'étais pas tout a fait trompé.»
Dopo la pubblicazione della Storia della Colonna infame,
fuori de' suoi scritti sull'unità della lingua, il Manzoni non pubblicò altro.
E pure il suo robusto e vivace ingegno si mantenne vegeto fino agli ultimi
giorni della sua lunga vita,
Egli non iscrisse quasi più per la stampa; ma ogni giorno riceveva
vecchi e nuovi amici, discorrendo coi quali il suo ingegno, simile a molla che
scattasse, gittava luminose faville, e diffondeva idee così originali, che
avrebbero, ciascuna per sè, potuto formar la fortuna di un libro e di un
autore. Ed è veramente peccato che il Manzoni non abbia avuto presso di sè un
Eckermann come il Goethe, per trascriverci i suoi quotidiani discorsi; se Carlo
Porta, il Torti, il Grossi, il Tosi, il Giudici, il Sozzi, il Rosmini, il
Cantù, il Carcano, il Rossari, il Ceroli, il Bonghi, il Rizzi e gli altri più
intimi amici del Manzoni (non parlo della signora Blondel) avessero pensato a
notare tutti i motti che uscirono dalla bocca del Manzoni, nessun libro più
originale e più sapiente di quello che riunisse tutti quegli appunti sarebbe
forse mai stato immaginato e composto. Le uscite manzoniane erano tutte
impensate e quasi sempre felici. Lo stesso imbarazzo che il Manzoni provava
talora nell'esprimersi, poichè qualche volta e ne' momenti per l'appunto che
egli aveva una maggior fretta di parlare, gli accadeva di balbettare,
aggiungeva una nuova forza alle parole che uscivano poi come palle esplodenti.
E sopra quel suo difetto organico egli avea preso la buona abitudine di ridere
il primo, per toglierne la volontà ed il pretesto agli altri.
«La balbuzie di Alessandro Manzoni (scrive Antonio Stoppani) non
era una balbuzie di genere comune come sarebbe quella, per esempio, consistente
in una specie di sincope momentanea dell'organo vocale.... Il Manzoni non era
nemmeno di quelli che vanno soggetti a quella specie di paralisi mentale
momentanea, per cui la parola, benchè comunissima, rifiuta di presentarsi
nell'istante, in cui si ha bisogno di proferirla. «Io, diceva il Manzoni, la
parola la vedo; essa è lì; ma non vuole uscirmi dalla bocca;» quando era in
questo caso, troncava improvvisamente il discorso. «Se la si lascerà dire,»
soggiungeva l'illustre paziente: e dopo questa specie di scongiuro, pronunciava
senza difficoltà quella parola che prima s'era rifiutata assolutamente a
pigliar forma sensibile nella sua bocca. Avendo Don Giovanni Béttega, ora
parroco di Anzano, avuto occasione di presentargli, Alessandro Manzoni,
giocando di parole sul cognome di quel bravo ecclesiastico che, pronunciato
lungo, in dialetto lombardo vuol dire balbetta: «Lei, disse, ha il nomen
ed io l'omen.» Nella lettera che scrisse al Briano per rinunciare alla
deputazione, il Manzoni fece pure allusione alla sua balbuzie; ad un amico poi
che gli domandava perchè non avea voluto esser deputato, egli, scherzando,
rispondeva: «Poniamo il caso che io volessi parlare e mi volgessi al presidente
per domandargli la parola, il presidente dovrebbe rispondermi: - Scusi,
onorevole Manzoni, ma a lei la parola io non la posso dare. -»
Ma non è qui il luogo di raccogliere aneddoti, tanto più che il
loro numero, se gli amici del Manzoni superstiti vorranno ricordarli e parlare,
può divenire infinito. Ho qui solamente toccato di un difetto fisico del
Manzoni solamente per mostrare come anche da esso il Manzoni abbia saputo
trovar nuovo alimento alle sue inesauribili arguzie.
Molti venivano a domandargli pareri letterarii in iscritto, ma
inutilmente.
Un parere scritto gli era pure stato chiesto, prima ch'esso
pubblicasse le sue Novelle, dall'illustre poetessa piemontese Diodata
Saluzzo, ed egli allora s'era schermito con queste parole: «Ella dee dunque
sapere che io ho un'avversione estrema, come una specie di terrore,
all'esprimere giudizio su cose letterarie, massime in iscritto, e a ridurre in
breve i motivi; questa avversione nasce in me dall'incertezza o, dirò meglio,
dalla improbabilità di farlo bene, e dalla difficoltà del farlo comunque. Il
giudizio di una parola può essere, ed è sovente, derivato da principii di una
grande generalità; di modo che non sia possibile motivarlo, nè quasi
esprimerlo, senza espor quelli, cioè senza scarabocchiar molte pagine. Nel che
sovente il lavoro materiale sarebbe ancora la più piccola faccenda; vi è questo
di più che tali principii ponno essere, e sono sovente (parlo del fatto mio)
tutt'altro che connessi, che certi, che distinti, puri e riducibili a formole
precise e invariabili; e l'applicazione che pur se ne fa, è un tal quale
intravvedimento; è quel che Dio vuole; ma pur lo si fa. E siccome questa
incertezza o confusione è anche, per men male, riconosciuta sovente
dall'intelletto, in cui è, così dove si vorrebbe un giudizio, spesso non si
presenta che un dubbio, più difficile assai a mettere in parole, che non un
giudizio. Queste difficoltà e altre congeneri (giacchè non voglio abusar troppo
della licenza che le ho chiesta di riuscirle seccatore) si trovano a cento
doppi più nello scritto che nella conversazione. Qui hanno luogo le espressioni
più indeterminate, i periodi non formati, le parole in aria, formole cioè
proporzionate a quella incertitudine e imperfezione d'idee; e tali formole
hanno però un effetto, giacchè la parte stessa che si degna volere il giudizio
altrui, viene in aiuto a chi ha da formarlo, dando mezzo, colle spiegazioni,
colle risposte, a porre in forma il dubbio, a svolgere il giudizio che non era
nella mente del giudicante che un germe confuso. Questa parolona di giudicante
basta poi a farle ricordare gli alti motivi di avversione che ha e dee avere
per un tale uffizio chi conosce la propria debolezza. Contuttociò non voglio
dire che io non mi conduca a farlo qualche volta a viva voce con persone, a cui
mi lega una vecchia famigliarità; nè ch'io non ardisca pur di farlo, comandato,
con persona, per cui sento la più rispettosa stima; dandomi animo da una parte
questa stima medesima che dall'altra mi tratterrebbe; che, quanto al pericolo
di dire sproposito o di non saper bene cosa si dica, è poca cosa per chi
protesta e avvisa innanzi tratto che probabilmente gli accadrà l'uno e
l'altro.»
Così, quando accadeva al Manzoni di dover giudicare di una contesa
letteraria e non averne voglia, egli dovea ricorrere press'a poco a quel famoso
espediente, a cui, come dicemmo, si riferiva un suo amico di cara e onorata
memoria, che gli raccontava una scena curiosa, della quale era stato spettatore
molt'anni innanzi in casa d'un giudice di pace.
Il Manzoni imitò spesso la tattica di quel giudice di pace, ne'
giudizii che gli toccò proferire, sedendo in tribunale; ma, a quattr'occhi, coi
più intimi amici, diede sempre torto o ragione a chi l'aveva. Grande coraggio
personale egli non ebbe forse mai; ma la sua mente ardita non si arrestò
innanzi ad alcuna difficoltà, anzi le dominò sempre tutte come sovrana. Egli
non avrebbe, per un esempio, mai scritta una riga da pubblicarsi in favore d'un
libro del Tommaseo, o contro di esso; ma, quando egli pubblicava in Francia il
romanzo Fede e Bellezza, ove l'eroe passa per molte avventure erotiche
per arrivare poi ad una specie di gesuitica compunzione, il Manzoni lo
definiva, in un crocchio d'amici, con due parole: metà Giovedì grasso, metà
Venerdì santo. Al Borghi imitatore degl'Inni Sacri egli era stato,
per lettere, generoso di lodi soverchie; se ne pentì in appresso, e ne'
discorsi famigliari con gli amici temperò il soverchio in modo che il povero
innaiuolo toscano ne rimaneva annientato. Fu invece largo sempre di lodi
sincere al Grossi, al Rosmini, al Torti, al Giusti, a proposito del quale
rispondeva a chi gli faceva osservare che anche in Toscana la lingua si va
corrompendo, col parafrasare le parole della Bibbia relative a Sodoma e
Gomorra: «Dieci Giusti bastano a salvare la città.»
Nel Dialogo dell'Invenzione, il Manzoni mette senza dubbio
in iscena sè ed il Rosmini, sebbene non lo dica: anzi egli dà il nome di Primo
all'uno, di Secondo all'altro, dicendo: «Guai a me se mettessi in piazza
i loro nomi veri.» Il primo è senza dubbio, il Rosmini; il secondo, il Manzoni.
Il secondo dice che l'artista crea, poi corregge che l'artista inventa. Il
primo dimostra che nè crea nè inventa, poichè l'idea essendo semplice, non si
compone, ma esiste per sè, è anteriore all'opera dell'artista e conduce il
secondo per una serie di sillogismi stringenti, al fine de' quali il secondo
deve darsi per vinto, ma domanda altro. Il primo osserva: «Tanto meglio se
queste nostre chiacchiere vi lasciano la curiosità di conoscere più di quello
che richiede la nostra questione, e soprattutto di quello che potrei dirvi.
Vuol dire che studieremo filosofia insieme.» Il secondo conviene: «Insomma,
bisogna studiarla questa filosofia.» Il primo soggiunge: «Fate di meno ora, se
potete, con quelle poche curiosità che vi sono venute. Non fosse altro che
l'ultima, quella che non v'ho nemmeno lasciata finir d'esprimere. Tutte queste
idee.... avevate intonato; e infatti tante idee, tanti esseri eterni,
necessarii, immutabili, aventi cioè gli attributi che non possono convenire se
non a un Essere solo, non è certamente un punto, dove l'intelletto si possa
acquietare. E nello stesso tempo, come negare all'idee questi attributi? E non
v'è, di certo, uscito dalla mente neppure quell'altro fatto altrettanto
innegabile, e altrettanto poco soddisfacente, dell'esser tante di queste idee
comprese in una, che pure riman semplice e che potete fare entrare anch'essa in
un'altra più estesa, più complessa; come potete da una di quelle farne uscire
dell'altre moltiplicando, per dir così, e diminuendo, a piacer vostro, questi
esseri singolari, senza potere né distruggerne nè predarne uno. Ora, quando il
tornare indietro è impossibile, e il fermarsi insopportabile, non c'è altro
ripiego che d'andare avanti. Non è poi un così tristo ripiego! È con l'andare
avanti che si passa dalla moltiplicità all'unità, nella quale solo l'intelletto
può acquietarsi fondatamente e stabilmente.»
E in questo concetto sovrano dell'unità che balenò alla mente
manzoniana e la contenne, m'acquieterò anch'io per conchiudere che uno
scrittore che bandi a vent'anni la formola poetica: «sentir e meditar», e le
serbò fede costante nell'arte sua, non può venir letto superficialmente; egli
conduceva tutte le forme del bello alla suprema unità del vero, o più tosto
poneva il vero come base fondamentale di tutti i suoi edifizii poetici. Quanto
a' suoi intendimenti civili e religiosi, essi non hanno propriamente che fare
con l'arte sua; essi non le sono inerenti. Si può credere diversamente dal
Manzoni; ma non si dovrebbe oramai concepire l'arte in modo diverso da quello,
con cui egli l'ha trattata in modo non superabile ne' Promessi Sposi. Il
Manzoni scrisse il suo capolavoro fra le discussioni dei Classici e dei
Romantici che lo riconoscevano come loro caposcuola; la comparsa del capolavoro
manzoniano troncò le discussioni; così le recenti battaglie combattute in
Italia fra i così detti Veristi e Idealisti potranno aver fine, se nelle file
degli uni o degli altri apparirà un altro genio capace di risolvere il problema
con un altro capolavoro. Auguriamoci che questo genio nasca presto, e, intanto
che s'aspetta, studiamo il Manzoni.
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