Parte seconda
Eh, ma in città, prima ancora
di andar lassú in carso, io mi annoiai molto. Ora ci penso; e vorrei
raccontarvi dei miei anni di scuola, dei miei cari condiscepoli, delle prime
persone che conobbi; ma non m'interessa abbastanza. Vi scriverei lunghe pagine
seccanti. Invece è bello raccontare godendo delle proprie avventure e dei
sogni. Io mi diverto pensando alla mia vita.
Anche la città è
divertente, sebbene qualche volta m'abbia seccato. Mi piace il moto, lo
strepito, l'affaccendamento, il lavoro. Nessuno perde tempo, perché tutti devono
arrivare presto in qualche posto, e hanno una preoccupazione. Nei visi e negli
stessi passi voi potete riconoscere subito in che modo il passante sta
preparando l'affare. Se guardate bene, siete subito presi in un gioco eccitante
d'operosità, e la vostra intelligenza batte e rimanda istantaneamente i
possibili attacchi d'astuzia, di coltura, di bontà, di vendetta. Un inquieto e
giovine animale s'agita in voi, e voi andate per le strade ricchi della sua
vita istintiva, com'uno a cui ricircoli il sangue nella mano stecchita di
freddo sotto il guanto. Andate contenti nell'aria fusa di strepiti e volontà,
sentendo che qui, dove l'interesse d'ogni passante trabocca, comunica, scorre
negli altri, e si scansan gli urti e i carri accogliendo con logica inavvertenza
le mosse altrui qui, nella strada, si decide il domani del mondo.
E io vado per le strade di
Trieste e sono contento ch'essa sia ricca, rido dei carri frastornanti che
passano, dei tesi sacchi grigi di caffè, delle cassette quasi elastiche dove
fra trine e veli di carta stanno stivati i popputi aranci, dei sacchi di riso
sfilanti dalla punzonatura doganale una sottile rotaia di bianca neve, dei
barilotti semisfasciati d'ambrato calofonio, delle balle sgravitanti di lana
greggia, delle botti morchiose d'olio, di tutte le belle, le buone merci che
passano per mano nostra dall'Oriente, dall'America e dall'Italia verso i
tedeschi e i boemi.
Se voi venite a Trieste io
vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi
mostrerò le tre nuove dighe nel vallon di Muggia, fisse nell'onde, confini
della tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato. Per il nuovo
porto minammo e frantumammo una montagna intera. Mesi e mesi di furibondi
squarciamenti che rintronavano l'orizzonte e s'abbattevano come il terremoto
sulle nostre case piene di finestre. E piccoli vaporini, un po' superbi del
loro pennacchio di fumo, facevan rigar dritte lunghe file di maone tutte
pancia, - e dalla strada napoleonica si vedeva sfolgorar nel mare i carichi di
pietra scintillante. Quest'è il quarto porto di Trieste. La storia di Trieste è
nei suoi porti. Noi eravamo una piccola darsena di pescatori pirati e sapemmo
servirci di Roma, servirci dell'Austria e resistere e lottare finché Venezia
andò giú. Ora, l'Adriatico è nostro. Io avrei dovuto fare il commerciante. Mi
piacerebbe di piú trattare e contrattare che studiare i libri. La bella cosa
viva che è l'uomo! le sue mani che s'insaccocciano per nascondervi i moti
istintivi alle vostre parole, i suoi misteriosi occhi fondi che s'attaccano su
i vostri per impedirvi il salto di fianco, la sua idea precisa, sotterranea,
che vi chiama al centro vorticoso girandovi in spirale ironica dietro le
spalle! Bella cosa è l'uomo, e mette voglia di combattere. Dal suo modo di
parlare voi capite che prezzo bisogna fargli. Egli guadagna tempo, sorride,
pulisce gli occhiali, accende una sigaretta - voi, ecco sapete la vostra strada
e le tappe. Oh! anch'egli è giunto all'improvviso, e fa finta di non guardarvi,
ma tutto il suo corpo si meraviglia della scoperta e si slaccia gioioso di
sicurezza: e voi siete due uomini smascherati di fronte, e armati che l'altro
non si rificchi nella macchia. Ma chi di voi sa far smaniare quell'altro della
sua insufficiente certezza? Chi sa rigirarlo nelle mani e spremer acqua dal
fuoco e spegnerlo, e bruciarlo secco? Anche domani è un giorno: e un giorno che
può dar mille per le cento corone che oggi vi siete fatte rubare. Ah quel caffè
che nel Brasile fiorisce male questa primavera! Primavera, calda primavera,
amici miei, nuovo sole su grano nuovo, strade piú larghe e braccia piene di
rami fioriti - e noi andiamo a scuola con il pacco di libri al fianco. Andiamo
fra la gente e le carrozze, trasognati dietro i nostri desideri di
commercianti, di soldati, di pompieri; levandoci ogni mattina alle sette, alle
sette e qualche minuto di dolce coscienza semisveglia di letto, ogni mattina,
perché, la domenica, c'è messa. Primavere lampanti ai verdi scuretti. Grigia
piovosità d'inverno. Pomi e pere grasse sugli alberi. Autunno ritornato. Ogni
mattina. Il falegname pialla; - l'officina nera con la macchia sfavillante,
alcuni mezzivisi, un martello in alto; - gli operai con i calzoni blu sollevare
il lastricato e picconare il massiccio terreno per una conduttura d'acqua o di
gas. Com'è triste il piccone e la vanga nel terreno battuto della città! Si
lavora senza che nessuno vi possa seminare.
Ecco il casamento arido.
Otto classi, venti parallele. Qua dentro ho passato nove anni della mia vita.
Una buona ragazza, di
carne incitante e un glovane alto e forte, qualche volta triste. Essi si
sposeranno fra ott'anni. Essi stanno seduti su un largo sofà, tenendosi strette
le mani e godendo dei loro caldi corpi.
La mamma vuol assai bene
alla figliola, ed è un po' seccata dei lunghi anni e della serietà del giovane.
Sarà contenta quando si sposeranno, se il giovane non porterà via la figliola e
staranno insieme, allegri e senza tormenti. La zia corre, alzando e calando con
la sua gamba zoppa, a preparare l'arrosto per la nipote bella che le promette
un bacio. La zia è contenta che essa faccia come vuole il giovane, non vada ai
balli, vada poco al teatro, legga qualche libro. Egli è l'unico che la difenda
contro la cognata, e la zia gode che l'idee di lui siano opposte a quelle della
cognata.
Il babbo, a tavola, si
sbottona il gilè e additando con la mano grassa e unta la sovrabbondanza delle
vivande dice soddisfatto: "Se moro mi, i mii no i ga de magnar". Egli
è contento d'aver sulle spalle un peso sempre piú grave, e brontola sempre
perché i suoi capiscano com'egli sappia lavorar bene.
Il giovane comprende
benissimo tutta la piccola famiglia estranea, e anche l'ammira. E la ragazza è
buona, e quando egli la rimprovera o s'addolora perché non si capiscono, gli
dice con carezza: "Sí, sí, ti ga ragion, ma ti vederà, studierò, legerò,
semo tanto giovini. No stemo esser tristi, dai!".
E gli anni passano,
passano tre anni, e ognuno un giorno vede la sua strada. Cosí il giovane
intruso lasciò la povera ragazza disperata, salutò la mamma, andò via e
soffrirono per qualche tempo.
Ero stato socio della
"Giovine Trieste", non mi ricordo piú sotto che nome, perché il
regolamento delle scuole medie austriache proibiva allora di far parte di
qualunque società, "specialmente se politica". Pagavo regolarmente i
dieci soldi settimanali. Assistevo regolarmente alle sedute.
Tintinno del campanello
automatico, il socio entrava, diceva: "Bonasera", guardava attorno
per trovare un conoscente, si faceva portare una bottiglia di birra dal custode
- un ometto simpatico con orecchie a vela e naso grosso e lungo, a cui
sarebbero stati bene i colletti a risvolto dei nostri nonni, - accendeva una
sigaretta, leggeva i giornali, chiacchierava. Non si faceva niente, ma ci si
consolava pensando alla preparazione. Tutti si lagnavano della
"Patria", la direzione del partito liberale di cui noi eravamo l'ala
sinistra; ma prima di decidere un leggero rimprovero a questo o quel nostro
uomo rappresentativo, si domandava il permesso alla "Patria". Una
sera, in seduta, quando l'i. r. commissario era già andato via - perché quando
c'era lui si davano annoiatamente i resoconti di cassa e si leggeva sorridendo
la relazione ufficiale, - si inveí con forte parola contro l'apatia remissiva
di Hortis e degli altri deputati. Poi si votò un vibrato ordine del giorno; e,
come cosa implicita, il presidente domandava chi volesse venir con lui da
Venezian per il nulla osta. Io chiesi timidamente dalle sedie: «Ma perché
domandare il permesso a Venezian?». Tutti rimasero stupiti. S'alzò su un
giovanotto dal viso insecchito e mummificato in buchi e angolosità, e sorrise
con indulgente compassione fra i denti guasti, salivando abbondante. Poi disse,
un po' tartaglia, ma come chi la dice buona: «Se vedi che 'l mulo ga de magnar
'ncora pagnote!». Si sedette contento, e tutti risero battendo le mani.
Fu quella l'unica volta
che pronunziai mezza parola in seduta pubblica. Del resto brontolavo con i
pochi altri ingenui intorno a un tavolo-scacchiere, progettando ogni sera di formar
la "montagna" nel seno stesso della società. Ma non si concluse mai
nulla. E soprattutto ascoltavo i discorsi dei maggiori, per imparar di
politica, per aver armi contro la zia che disapprovava l'occuparsi
d'irredentismo. Parlavano in generale di trucchi da fare alle guardie,
dell'ultima schifoseria giallonera dei socialisti, del loro capo ufficio come
si sedeva sulla sedia e teneva la penna. Uno poteva imparare come si fabbrica
lo schizzetto triplice per dipingere di biancorossoverde la k. k. polizia; e
poteva anche essere informato che Franzca del 41 era passata, per cause ignote,
nel casino in via del Solitario. Un giovanottino con un neo-tre-peli-lunghi
raccontava della campagna a Domokos e della strippata data a Roma per
l'anniversario dello Statuto. Perché la patria era mescolata al risotto alla
milanese e all'ipermanganato di potassa al 3%. La patria era per loro come
quando i giornali pubblicarono il telegramma della morte di Carducci, e un po'
piú in su, un po' piú in sotto, dicevano della neve in Carinzia, e
dell'ambasciatore francese in viaggio.
Io mi meravigliavo. Io
sentivo la patria, esclusiva e sacra. Mi tremava il petto leggendo di Oberdan.
Avrei voluto morire come lui.
E seguivo sulla carta
geografica le campagne di Garibaldi, commovendomi degli eroi. Garibaldi mi fu
un venerato amico e dio. Ancora oggi quando sento parlare storicamente di lui,
il cuore mi balza in rivolta. Io sono ancora un bimbo che vorrebbe combattere
sotto i suoi occhi.
Ma noi nascemmo in altra
generazione. Noi cantammo per le strade:
All'armi, all'armi!
Ondeggiano
le insegne giallo e
nere.
Fuoco, per dio! sul
barbaro,
su le tedesche schiere;
scappammo davanti alle guardie di pubblica sicurezza
e lontani, a branchi, continuammo a cantare:
Non deporrem la spada
fin che sia schiavo un
angolo
dell'itala contrada.
Non deporrem la spada
fin che sull'alpi
Giulie
non splenda il tricolor.
E a casa trovammo la mamma
piangente di affanno e di paura per noi. Ci si bacia, e si va a dormire,
soddisfatti.
Io ebbi uno zio garibaldino
che a quattro anni mandava in lettera al babbo un pezzo di pane di collegio per
fargli gustare che roba gli davano; e a tredici scappò dal collegio, di notte,
gridando: "Viva l'Italia!", e camminò, senza un soldo, da Fiume a
Venezia, per arrolarsi con Garibaldi. Non lo presero perché era troppo giovane;
ma gli promisero una lira al giorno per il mantenimento. Egli prese la lira e
la buttò nel canale: che non voleva soldi da chi aveva meno di lui. Un parente
lo trovò seduto su un rio, sbocconcellante un tocco di pane, soddisfatto. Da
giovane combatté. Era abile commerciante, pieno di risorse e iniziative. Fu
povero, ricchissimo, quasi povero, agiato. Una volta capitò nel suo scrittoio
uno, dicendo che zio gli doveva dieci fiorini. Zio rispose che glieli aveva già
restituiti. L'altro negò. Zio prese di portafoglio una banconota da dieci, la
pose sul tavolo, prese un fiammifero, accese una candela, e tenne la banconota,
delicatamente per un angolo, sulla fiamma, finché bruciò tutta.
«Ghe fazo veder che no me
interessa de diese fiorini; ma a lei no ghe devo un soldo. Bongiorno.»
Sposò a modo suo contro la
volontà e il piacere di tutti i suoi parenti; studiò in tre mesi il croato e
andò con la sua donna nelle foreste della Croazia, a fare il mercante di
legnami. Cosicché egli fu sempre per quasi tutti i parenti uno screanzato
mistero da stare in guardia, un uomo presuntuoso e senza giudizio. Lo
sfuggivano seccati; e se mai dovevano parlare con lui per convenienza,
l'ascoltavano come s'ascolta la storiella mille volte ripetuta del vecchio
parroco di campagna, e guardandolo di sfuggita in viso per presentire che nuovo
tiro meditasse. Pure era ottimo e calmo, benché anima di passioni. Era alto, e
tarchiato di petto: il viso largo, a tratti grossi, senza delicatezze, ma gli
occhi come quelli di mamma, e la barba bionda chiara, ingiallita dal fumo.
Camminava con il passo delle guide. Parlava lentamente, con voce bassa,
profonda, negli occhi una gioia quasi puerile per ciò che raccontava, ma d'una
puerilità pregna di dolore e disperazione. Non aveva che la famiglia; e la
moglie gli era morta; una figlia gli s'era uccisa; un'altra aveva abbandonato
il marito e s'era fatta canzonettista. Non piangeva; ma quando, seduto nel
nostro salotto, tossiva, la corda piú bassa dell'arpa di mamma dava una
vibrazione lunga, terribile. Era stanco e quasi sfinito. Mamma gli diceva: «Eh,
su, coragio, ti xe ancora come un giovinoto!» ed egli sorrideva: «Sí, son
ancora forte; ma...» e sollevava il braccio destro nella posizione in cui si
spiana lo schioppo, e il braccio gli tremava benché egli alzandolo aveva
sperato che gli stesse fermo. «Ma le gambe le xe ancora bone» concludeva. E
ancora, per la terza o quarta volta, si rimise, a cinquant'anni, e andava a
caccia, e progettava di costruirsi una casetta in carso, vicino a Gropada, su
una terrazza calcarea dominante un vasto orizzonte di grebani e cielo. Mi
ricordo che ci tracciò col bastone ferrato i limiti dove sarebbe sorta la casa.
Era intelligente e nessuno
sa quante cose nostre, che ora a poco a poco cominciano a esser discusse, egli
già ne parlava con chiarezza, come uno cosí fuori dalle osservazioni e
valutazioni abituali che gli è naturale e ovvio comprendere verginamente le
cose, e si meraviglia che la gente non abbia le sue idee.
Era sempre in carso e i
contadini lo chiamavano "el paron". I conoscenti gli chiedevano,
tanto per dir qualche cosa: «Ma no ti ga paura d'esser sempre fra quei s'ciavi
duri?».
«Ma se no i ghe fa mal
nianca a una mosca! I xe boni come fioi. Ciò, natural! se va uno de quei
ebreeti triestini co' le gambe storte e 'l ghe canta in te le recie: "Nela
patria de Rosseti no se parla che italian", lori i xe a casa sua e i ghe
dà un fraco de legnade, se capissi. Cossa i dovaria far?» Dopo continuava: «Ma
mi vado per i campi, su l'erba, e nissun me disi mai niente. Un'unica volta,
ghe stavo drio a una pernise, camminavo ne l'erba, e me son sentí ciamar da un
contadin: "Paron, chi me pagarà l'erba?". El iera lontan, e no 'l se
ris'ciava de' vizinarse. Mi lo go vardà. E ghe go dito a pian: "Vien qua
che contemo insieme i fili de erba che go zapà, che te li pago". Ma ghe lo
go dito con un'aria che... e lú fila via come el levro». Concludeva: «Xe
natural: el s'ciopo no sta mai mal. Ma provè andar in Italia, in Friul, per le
campagne, e po' me savarè dir. Qua i xe tropo boni, co' sti farabuti de cità».
Odiava la gente vuota e ingiusta, benché nei suoi giudizi egli fosse tutto
fuoco. Non sopportava le chiacchiere di Venezian e compagni: "... la
patria romana... i venti secoli di civiltà..." - «ma la panza per i fighi!
Fioi de cani! Ve volevo là quando che subiava. I se la saria fata in braghe.» -
Di Garibaldi non l'ho sentito parlar mai, neanche una volta.
Io ho piacere d'aver avuto
questo zio. Gli voglio sempre piú bene, e qualche volta mi rammarico di esser
stato cosí bimbo, allora, quando viveva, e non averlo conosciuto veramente. Ora
qualche sera poggio la testa sulle ginocchia di mamma e mi faccio raccontare di
lui.
Mi disse una volta che
dieci muloni m'avevano aggredito e tutti i parenti si condolevano del gnocco
susinoso lasciatomi in una guancia; mi disse girando gli occhi quasi
sbadatamente: "Spero che no ti sarà restà debitor de assai". No
credo, zio.
Mamma è malata. Io sto
sdraiato accanto a lei sul margine del letto, accarezzandole la fronte e le
mani. Cosí passiamo qualche ora.
Ogni tanto ella mi guarda
e mi domanda: «Credi che guarirò?». Io la sgrido come una bimba e le racconto
di quando sarà guarita.
Io vorrei difenderla
contro il male e tenerla allegra. Mamma è buona. Ha sofferto assai nella vita,
piangendo in silenzio, e cercando di giustificare chi la maltrattava. Non disse
mai una parola d'odio, si rinchiuse in sé con i suoi figli, come una povera
creatura battuta. Io non perdono a chi le fece male. Io voglio che la nostra
mamma possa godere di noi piú bravi degli altri.
«Quando sarai guarita
verrai un mese con me a Firenze, vuoi? C'è le colline e gli ulivi, e staremo in
pace. Ora son passati tre mesi, poi passa ancora uno, e dopo facciamo una gran
festa. Io butto il cappello in aria: mamma è guarita. Vuoi?»
Ella tace rabbrividendo di
gioia. E io le parlo e le racconto tante cose buone, ma sono stanco di questa
triste camera oscura, con poca aria, con l'orologio che batte il suo tempo.
Vorrei rifugiarmi al mio tavolino e lavorare, scrivere un'allegra poesia,
uscire in campagna ed esser solo con il sole e l'aria. Io avrei bisogno di
prosperità e contentezza. Sono quasi irritato contro il suo male, contro
l'oscurità che è calata da tanti anni nella nostra casa. Si vive paurosi di
svegliare negli altri certe cose che sono sempre presenti dentro di noi; si
vive a bassa voce, guardandoci di sfuggita in viso dopo una risata. Molti
giorni si imbocca la minestra e la carne senza dir parola, sforzandoci a
interessarci dei piccoli che raccontano della scuola. Si vive cosí da molti
anni. E la mamma guarda i nostri occhi che s'abbassano come in colpa, e non può
far niente per i suoi figlioli. Ella ci bacia il capo, e ci chiede scusa in
silenzio.
Un giorno metteva ad asciugare
alcuni panni alla stufa e piangeva. Io le chiesi: «Mamma, cos'hai?». Le chiesi
ancora... essa piangeva e negava, cercava di trattenere lo spasimo, ed era
stanca: «Che hai mamma? perché piangi?». «Vedi, figliolo, non è niente, gli
affari di babbo vanno male.»
E un giorno babbo tornò da
un viaggio, che era stato anch'esso inutile, e non c'era da far piú nulla. Noi
eravamo seduti intorno alla tavola e cenavamo. Egli entrò, ci salutò, e si
sedette al suo posto. Noi tacevamo. Egli prese la forchetta e ingollò i
bocconi. Ci disse: «Mangiate dunque!». La sua voce era senza tremito.
Mai ho visto piangere
babbo. Gli occhi gli si incassano nelle tempie, la sua fronte si fa gonfia, ed
egli sta fermo con la testa dritta in su. Egli è un uomo, non si lamenta e s'irrigidisce.
Babbo m'ha insegnato a tacere e a disprezzare il dolore. E cosí passarono i
mesi e gli anni. E io cominciai ad amare la mia famiglia, e ero consolato
ch'essa credesse in me. E mamma una sera mi disse, poggiandosi sul mio petto:
«Figliolo, sono stanca, vai avanti tu».
Io amo i miei fratelli e i
miei genitori perché la nostra vita è stata dolorosa e confidente. Io vado
avanti con essi e non cedo. Noi vogliamo anche noi il nostro posto. Ci hanno
fatto molto male. Alcuni sono stati buoni con noi, ma non ci hanno capiti. Noi
vogliamo esser noi, con i nostri difetti e le nostre virtú, liberi di respirar
l'aria che ci spetta. Io sono contento di aver avuto una famiglia povera. Sono
cresciuto con un dovere e uno scopo. Essi mi vogliono bene, e il mio nome è il
loro.
L'orologio batte egualmente il suo tempo e la camera
è stretta e scura. Che sarà di noi se mamma non guarisce? La sua fronte è
sudata, e il suo pallido viso è pieno d'amarezza.
Voglio oscura la camera.
Non filtri il sole dagli scuretti. Io sono sdraiato bocconi sul letto,
immobile, e non penso.
Non soffro. Nell'oscurità
dilaga una noia infinita, e io sto dimentico, intravedendo con disgusto gli
scaffali dei libri sulla parete di faccia.
Ho letto, ho guardato dalla
finestra, ho fumato: inutile ritentare. Non ho voglia di niente, e la camera è
fredda.
Sento stridere bimbi in
strada, e ombre di carrozze sfumano rapide sulla parete. Presto sarà notte, e
si spegnerà finalmente anche questo raggio denso di sole che illumina il mazzo
di fiori dipinto lassú.
Intanto gli uomini tornano
dal lavoro e si salutano l'un l'altro. E la terra cammina nella sua via fissa.
Ho girato tutta la città
in questa notte di martedí grasso, annoiato e disgustato senza causa. Forse
ricordavo l'altr'anno, con lei, in caffè. L'ho cercata per tutti i caffè,
temendo di esser visto. Pensavo che le avrei rovinato maggiormente la serata.
Povera putela.
Su per l'Acquedotto ho
incontrato un condiscepolo, Nando Baul, che m'ha fatto entrare alle "Gatte".
Era la prima volta che entravo in un caffè concerto. Guardavo la carne floscia
e la gente che guardava. Il direttore d'orchestra aveva un naso terribile, e le
canzonettiste ci facevano le spiritosaggini. Nando si divertiva, ma con
ostentazione di esperienza. Nando aveva gli occhi lustri. Mi disse che qualche
volta xe piú bel. Credo. Saluti.
Feci un giro per Cità
vecia sperando di trovare per le strade una sporca baldoria. Io sono ancora
casto - ma come la vergine che guai a essere nei suoi sogni - dice all'incirca
Nietzsche. Sono rimasto puro fisicamente per paura di malattie. Forse anche no.
Del resto non importa. Mi sono fatto spiegare dai libri e dai compagni esperti,
e ora sono qui nervoso ad annusare. Avrei gusto di vedere qualche scena: ma non
c'è niente. Odor di piscio. Non ho coraggio di tener su la testa e guardare
agli sburti.
Qua abbasso c'è le solite
otto, nove che passeggiano con il loro andare di oche culone, incappottate
sulla camiciaveste. Fin qui arriva il belletto rosso, qui comincia il viola del
freddo, a zone. Come passo mi toccano il braccio: «'Ndemo su mulo?». Divento
rosso, passo via senza rispondere. Mi fanno schifo.
Schifo terribile. Questa è
la ragione. Specialmente i capelli e le mani. Sento un untume muschiato che non
posso sopportare. Se no, non mi parrebbe niente. Capisco benissimo senza
romanticherie. Io dò tanto; tu dai tanto. È pulito. Porca è la società che per
pulizia ha chiamato ciò... amore. (I puntini non sono miei: ma della società.
Io non adopero puntini.)
Dal caffè dove bevvi
petess la sera della calata, sbocca una comitiva di ominacci con barba, vestiti
da donna; donne spanciate e altro negrume, urlando, saltando con fanaletti e
bastoni. Mi tiro da parte. Sono contento di avere a casa un letto bianco,
pulito, senza cimici.
Ma una donna, una femmina,
per me, per avvoltolarsi insieme nel letto, per farla urlare di strette e
morsi! Questo letto è troppo grande. Troppo soffice. È meglio dormire con una
coperta per terra.
Andai a vedere al Credit
se mi prendevano impiegato. Appena montai la larga scalinata, piena di stucchi
e d'indicibili lampadari, il silenzio del lavoro mi fece poggiare i piedi
zitto, come se disturbassi, alla fonte, la pulsazione di un mondo misterioso.
Mi dissero ch'era
impossibile perché avevo fatto il ginnasio e non l'accademia di commercio, e
poi non sapevo bene il tedesco.
Appena uscito, vedendo il
bel verde chiaro degli orti sotto il Castello, mi tornarono a mente le fantasie
puerili salgariane. Belle cavalcate d'avventurieri ch'incontro ad ogni svoltata
della mia vita, e mi danno il buon saluto augurale inebbriandomi gli occhi con
il luccichio delle carabine strofinate e pronte. Strofinate sul tavolo, la
candela un poco piú in là: e il respiro della mamma dormente è tanto lungo che
la mano strofinante con foga, su e giú, si rallenta, e s'accorda al respiro
lungo, mentre l'anima comincia a pensare alle difficoltà, e si riempie di
dubbio, come di acqua i fori della tenda appena tolta, Cominciando la piova.
Rividi la brunastra tenda nel primo lume dell'alba, sgocciante di rugiada, e mi
curvai a uscirne dallo stretto pertugio, guardandomi intorno cauto, spiando gli
scricchiolii dell'erba che si rialzava.
Uno scalone tirato da due
cavalloni, carico di stanghe di ferro, correva a precipizio insordando la città.
Il cocchiere, piantato con le gambe aperte sui due lunghi tronchi scorzati del
margine, frustava e incitava i cavalli. Davanti a quel carro d'inferno tutti i
sogni sparvero. Ero in Corso, fra gente impellicciata e automobili.
Me n'andai a casa stranito.
Pensavo: picchiar porta
per porta. Otterrò d'esser mandato in una grande casa di commercio dell'Indie,
a Rangoon, come Ucio. Un cinese schiavo moverà nella mia stanza un'enorme
ventola rossastra, perché le zanzare malariche non si fermino sulla mia pelle.
Non scriverò altro che, in inglese: "In possesso vostra stimata del".
Imbroglierò astutamente, come i commercianti non sanno fare ancora. In tasca la
rivoltella.
Risi: perché in India?
perché la rivoltella, lucida come le carabine degli avventurieri? Bimbo, sei
letterato. E rimarrai letterato per quanto mare frammetta tra la tua ultima e
la nuova pedata. Anche se a Rangoon, anche se nell'isola di Robinson, la
ventola ti sembrerà, che so io: l'azione contro le idee: insomma una di quelle
tue immagini strampalate che mettono in sussulto e in compassione la gente. E
scriverai nella tua lettera d'affari cosa che il copialettere non potrà copiare
senza che la sezione controllo ti dia del matto.
Uscii deluso. Toccai le
foglie degli alberi umidi di piova, sforzandomi a non paragonarle con niente.
Un'impressione tattile di bagnato e di freddo, e basta. Avrei voluto mi fossero
disaggradevoli. Camminai lungamente, evitando di pensare. Poi decisi: Parto.
Andai alla stazione a
pigliare il biglietto di terza classe. «Per dove?» mi chiese il bigliettinaio.
Lo guardai. Io pensavo di viaggiare senza destinazione; viaggiare perché
speravo in un disastro ferroviario che avesse schiantato due macchine e piú
vagoni, e io mi salvo aggrappandomi fortemente fra i due valigiai, cosí che
l'urto non mi tocca. Poi esco rompendo il vetro dal vagone rovesciato, striscio
a carponi; non salvo nessuno ma corro alla prossima stazione per avvertire, con
calma, dell'accaduto. «Ha la mano insanguinata» mi dice premuroso il
capostazione. Io la guardo estraggo il fazzoletto e la fascio. Poi, per favore,
domando al capostazione di permettermi inviare un dispaccio al mio giornale.
«Per dove?» si spazientí
il bigliettinaio.
«Per Milano.» E pensai: mi
presento al «Corriere della Sera».
Il treno andava a Vienna,
e il bigliettinaio dicendomelo sorrise. Tornai a casa deciso di farmi
giornalista.
Il Piccolo mi
accettò a cento corone il mese: orario da mezzogiomo alle sedici, e dalle venti
alle tre.
La prima volta che andai a
intervistare un'attrice non ricordo piú se era la Bellincioni o la Tina di
Lorenzo - pensavo mettendo il pollice nel taglio ascellare del gilè bianco:
Rappresentazione d'una novità che non conosco; intervista antr'act; caffè neri;
accendo un sigaro; in redazione: è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le
lunghe cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la
recensione della novità e l'intervista: in un'ora e mezza. (L'intervista potevo
scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile.) Bene. Che
dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale piú diffuso di Trieste:
io, in questo momento, ne sono il critico teatrale.
Una folata d'immagini come
al ritorno delle rondini: ero accanto a un bosco autunnale, e soffiava la bora,
e le foglie d'oro e di porpora turbinavano intorno a me? Nella mia anima,
certo, fu un subbuglio, un accorrere, un saltellío guizzante, come in una vasca
di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso belletto delle
labbra e la polvere d'oro dei capelli di lei mi parodiò; e io ne fui spaventato
come guardandomi in uno specchio convesso. Scrissi molto male della commedia
che m'era piaciuta, per vendetta, perché anch'io avevo bisogno di violare la
realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le cartelle prima che andassero
in tipografia, mi chiamò, mi rimproverò aspramente e stracciò l'articolo.
Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male
sugli occhi stanchi.
Una notte, dopo qualche
anno, una notte di lavoro terribile perché era morto il papa, io fissavo la
lampada a gas sul mio tavolo. Sentivo andare, borbottare, scartabellare,
rombare intorno a me, sempre piú lontano, lontanissimo, e pensavo, chissà
perché, a Caino e Abele. Dicevo a Dio ch'egli era molto ingiusto con Caino:
perché non accetti il suo fumo? i rami carichi di frutti e le biade non valgono
l'agnello di Abele? Che male ti ha fatto egli, prima di uccidere Abele? perché?
La bibbia non dice niente. Pensai che questo poteva essere il pensiero centrale
d'una tragedia, e mi misi a ridere malignamente. Io avevo già ucciso Abele.
Abele aveva teso le corde
fra i corni del bufalo fucilato da me, e cantava. Io l'uccisi. Ma ora le foglie
che mi toccavano erano dure e aspre di veleno come pennini. Desiderai
ardentemente: "Abele Abele se tu fossi ancora melodioso in me, in
quest'ora di suprema stanchezza! Io ho voglia di veder le stelle in cielo e
cantare un grande canto".
Ma mi ghignai.
L'anima mi s'era ormai
coagulata per il gocciare della vita inacidita, rabbiosa, negatrice, e mi
corrose in rughe la faccia, incassandosi una tana nelle occhiaie.
Non vedevo piú le cose, e
diedi di cozzo senza sapere in spigoli acuti onde gli altri mi credettero un
eroe. Io andavo per la strada già scavata, disgustoso a me stesso, desiderando
che qualcuno mi bastonasse a morte.
Una volta anche mi proposi
d'uccidermi, ma davanti allo specchio non potei ammazzare l'essere maligno e
ironico che mi guardava. La donna che m'amava non torse il viso, mi si
avvinghiò nervosamente al collo e tentò con tutta la sua anima di darmi un
bacio; ma le sue labbra non aderirono sulle mie.
Ora sono quieto e viaggio
negli espressi.
No, no, la mia vita non fu
cosí, ma lo stesso io mi trovo inquieto e spostato. Io ho trovato compagni e
amicizia, e ho lavorato con essi, ma io sono meno intelligente di loro. Io non
so dir niente che li persuada. Essi invece sanno discutere e dimostrare che
bisogna esser convinti di questa o quella cosa. Io sono impersuaso e
contraddittorio. Bisogna star zitti e prepararsi.
Ma perché essi qualche
volta s'accasciano disperando di tutto? Chi vuol riformare gli altri non ha
diritto d'esser debole. Bisogna andar avanti e dritti. Bisogna accogliere con
amore la vita anche quand'essa è pesante. Bisogna obbedire al proprio dovere.
Essi sono piú intelligenti e piú colti e piú stanchi.
Forse io sono d'una città
giovane e il mio passato sono i ginepri del carso. Io non sono triste; a volte
mi annoio: e allora mi butto a dormire come una bestia in bisogno di letargo.
Io non sono un grübler. Ho fede in me e nella legge. Io amo la vita.
Ma i discorsi d'arte e di
letteratura m'annoiano. Io sono un po' estraneo al loro mondo, e me n'addoloro,
ma non so vincermi. Amo di piú parlare con la gente solita e interessarmi dei
loro interessi. Può essere che tutta la mia vita sarà una ricerca vana
d'umanità, ma la filosofia e l'arte non m'accontentano né m'appassionano
abbastanza. La vita è piú ampia e piú ricca. Ho voglia di conoscere altre terre
e altri uomini. Perché io non sono affatto superiore agli altri, e la
letteratura è un tristo e secco mestiere.
Dunque facciamo
l'articolo. Da molto tempo sto zitto: è tempo di risbucare. Lapis rosso: 1, 2,
3, 4, 5...; le cartelle sono numerate e pronte. Accendiamo la sigaretta.
Inchiniamoci sul tavolino per venerare il pensiero che gorgoglia, commisto
all'inchiostro, giú dalla penna.
Lo sviluppo d'un'anima
a Trieste. Comincio a scrivere; lacero; di nuovo, e altro strappo.
Sigarette. La stanza s'empie di fumo, e i pensieri si serrano come corolle al
vespro. Inutile illudersi: non ho da dire niente. Sono vuoto come una canna.
"Cosa fai qui,
davanti a questo tavolino, in questa sporca camera d'affitto? Anche se tuffi il
muso nella frasca verde della boccia con cui i tuoi occhi, stanchi del grigiume
stampato sulle pareti, cercano di sognare, tu, qui, non respiri. Ora, qui anche
Shakespeare è una pila di libri che ti ruba un brano d'orizzonte. Dirimpetto,
l'Incontro s'inrossa per l'aurora, e se t'affacci alla finestra e guardi a
sinistra, Fiesole è chiara come un cristallo ambrato. Sul Secchieta c'è la
neve. Andiamo sul Secchieta."
Fasce ai piedi; doppia
maglia al petto, un boccone di cioccolata in tasca: e mentre pesto forte il
lastricato della città perché dai piedi il sangue mi scorra piú caldo alla
testa, penso: "Che ha da fare con la vita dello spirito cotesta improvvisa
scampagnata? C'era un ostacolo in te, un poco piú alto del Secchieta: e tu
invece di pigliarlo di petto e darci dentro col cranio, gli giri attorno
credendo di andare cosí verso il sole che illuminerà a tuo uso e consumo tutte
le cose. Sei già stanco? e ieri ancora sbalzavi oltre i vigneti e giú dai
muriccioli scontorti e assodati dall'edera che t'intralciava i piedi, e pumpf!
col muso per terra, cervo vinto che i tuoi coetanei cacciatori sbraitando
l'alalà di vittoria legavan con venchi per le zampe e trascinavano a casa - il
viso rosso dalla scalmana e dal trionfo. Buttavi giú litri d'acqua, immersa
bocca e naso e occhi nella secchia del pozzo, sbuffando e ingorgogliandoti,
senza tregua: sicché l'alenare delle narici scavava due fondi buchi nell'acqua.
Stanco? ".
Qui nel treno che mi porta
a Sant'Ellero c'è contadini che appena montati dormicchiano rovesciando la
testa sullo schienale di legno. Io cammino su e giú per la corsia centrale del
vagone. Stanco? Non so piú niente, ora. Non sono piú in città. Non ho piú
obbligo di dimostrarmi perché faccio questa o quella cosa. Sono una bestia
irrazionale. Scampagnata, gita, fuga, pazzia, leggerezza, sciocchezza: non so;
so che vado sul Secchieta dove c'è la neve. Scendo dal treno, e respiro.
Su per gl'intrigati
viottoli de' carbonai, che qui là si allargano in uno spiazzo nero. Dove vado?
La collina nasconde Vallombrosa. Bene, se non mi sperdo; se mi sperdo, meglio.
Tocco vecchi castagnoni senza midollo né carne; l'elleboro nero è fiorito.
Forse i miei occhi troveranno tra le foglie brune e il musco la prima primola,
accanto alla macchia di neve.
Allenta il passo: l'animo
si può ingrassare rapinando la natura. Tutto è fiorito d'immagini intorno a te.
Stendi la mano!: non i getti del rovo tu tocchi, né il cespuglio tenace delle
ginestre, né i sassi della terra: accarezzi e ti pungi del tuo spirito, che è
svolato via da te a crearti il tuo mondo. S'è abbattuto contro l'oscuro amorfo,
e ha piantato di colpo le sue radici, entro di lui; onde il vento lo agita,
rami invernali gonfi come pugno che piú s'ingrossa come piú si sforza in se
stesso; e i tuoi scarponi marchiano il terreno umido di linfa succhiata su in
mille forme dal sole; e il tuo sguardo si spande fraternamente nel cerchio divino
dei colli verdineri, sotto il cielo limpido e lieve che par s'elevi - luce -
piú in su dell'aria. Cammina amorosamente nel tuo regno meraviglioso.
Le case di Saltino. La
prima neve nei fossi lungo il binario dentato. Dentro, gambe mie!: è dura e
crocchia come ossi fra i molari d'un cane. C'è degli alberi carichi di gemme
incuffiate di peluria argentea, come strani fiori. Da una stalla aperta mugghia
il muso d'una vacca, e si lecca dentro le larghe froge. R. R. Telefoni:
50 centesimi e sono a Firenze. Eppure cammino urlando sulla neve, e non c'è
nessuno che si fermi a guardare il pazzo. Tutt'è bello. Capisco la riforma
della scuola media e il cipresso stronco sotto il peso della neve, che giace
infissato nella neve attraverso la strada e m'obbliga a un salto allegro,
fermati sul petto i lembi della mantella. Ed è buono il salame, il burro, il
tè, il pane casalingo d'una settimana dell'osteria di Vallombrosa. Qui è
impossibile sian mai venute dame strascicanti lunghe gonnelle per campi ben
pettinati e rasati, né ministri hanno mai giocato tennis in solino: molti
alberghi attendono di spalancarsi: ma io non credo. Però potrei pigliare a
sassi quelle due aquile insaccate in stracci gialli, appollaiate col pernio sui
pilastri d'un portone.
Ma su, che al Secchieta
c'è neve assolutamente intatta. Nessuna traccia sul dorso del monte: dove sono
i giovani italiani? Aspettano che si bandiscano domenicate invernali con schi e
pattini e signorine. Scrivo con il chiodo dell'alpenstoc le lettere Voce nella
neve. Propongo che la festa vociana sia un'annua salita al Secchieta, di
febbraio. Lupercalia. Ah, ah, in questo momento qualcuno esce dalla redazione
d'un cotidiano e va a dormire! Venite a bever l'alba sui monti!
E basta: il disotto
sparisce. Non c'è che una cosa, alta, non vista, che bisogna raggiungere.
Nessun'immagine. I rami sono rami irrigiditi che scattano sul viso se ti
sfuggono di mano. Picchia il tacco nella neve per farti il tuo scalino, e un
altro piú in su. Ficca l'alpenstoc. Anche se affondandosi tutto, t'avverte che
la neve è alta come te, non camminare a serpentina; pianta dritte le pedate.
Niente mi giunge dentro di
consentaneo, attorno a cui s'affollino l'idee e lo poppino e lo assimilino
restituendolo mio, frutto dell'anima piú profonda. Tutto è sensazione di
ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo; altro no. E non devo esser
che io, in vetta.
Ti volti a contemplare?
Sei già stanco che ti metti a fare il poeta, caro amico mio? Se i polpacci ti scoppiano
e la schiena ti si ripiega insieme e per ogni centimetro di conquista stronchi
col viso, col petto un ramo; e un altro ramo, e rami chissà fino a dove ti
aspettano, duri, ghiacci, ipocritamente velati di neviscolo come una fiorita di
mandorli, e i ghiaccioli ti si frantumano nel collo, negli occhi abbacinati
dall'eterno luccicor del bianco; e il berretto che ti sguizza giú ti costringe
a ricalare, e l'alpenstoc ti s'incunea tra ramo e tronco, cosicché tutte le
cose indispensabili tentano d'impedirti ciò che devi - agguanta coi denti la
lingua che vorrebbe imprecare, e cammina. E se la neve intenerita dal sole cala
sotto il tuo piede, in modo che tu potresti adagiarti dolcemente su essa, e
riposare, non cedere alla soffice bontà, non poggiar lieve gli scarponi: batti,
affondati, tirati fuori e avanti lassú. E lassú - non sai dove, perché forse tu
non cammini verso la cima reale, delle carte geografiche - e il tuo lassú è
grave di nebbia, forse; onde tu raggiuntolo a cuore spasimante non vedrai gli Appennini
imbrunirsi come giovane carne sotto il sole, né la neve immensa, che tu hai
vinto, accendere i colori, né lontano, in basso, Firenze. Ma tu, amico mio, ti
sei levato da tavolino per salire sul Secchieta; e s'anche tutte le opinioni
della strada, che ti si sono infiltrate nell'orecchio dalla finestra, col
frastuono dei barocci scampanellanti e le canzoni sporche di vino indigerito;
s'anche tutta la vita degli altri è presente in te pur ora e tenta, come una
ventata polverosa, di storcerti il collo verso quello che hai già superato a
rimirarlo, e accosciarti, tra l'alto e il basso, sulle tue gambe stanche; anche
se in eterno tutta la città e la sua stanchezza è in te e non la puoi sfuggire
- non importa: tu vai in su: questo solo è vero; tu devi: questo solo è bello.
Un dirupo nevoso che mi
permetto di superare a zigzag: l'attacco due tre volte con l'unghie. E...
Sul Secchieta c'è una
bassa cappella con una madonnina dipinta. Ho acceso un fiammifero per timore
che vi fosse dentro il lupo. Sono sgusciato strisciando per il pertugio
ostruito dalla neve e sono ruzzolato sotto la madonnina. Penetro con le dita
spalancate nell'acqua del mare, come tra i capelli morbidi e resistenti d'una
donna; e m'arrovescio sulla superficie a riposarmi. Le piccole onde sbattono
mormorando al mio orecchio, come il cuore della donna all'amante che riposa su
di lei.
Allargo lo sguardo: e il
mare s'increspa sotto il sole. La sua anima è quieta e serena, ed egli si
stende sulla spiaggia soffice e si culla cantandosi piccole parole; e cerca con
dita di bimbo le conchigline e i granchietti fra la ghiaiola della riva.
Mi riposo sul mare.
Passano sul cielo bianche nuvole e migrano. Se sollevo un poco la testa vedo
tremare gli ulivi di Muggia: nient'altro. Il riposo è grande e infinito. Una
barca apre lenta la vela, si sbanda leggermente, e esita. Poi va,
raccogliendosi il poco vento. Io sono qui, portato dallo smuoversi lento
dell'onde increspate.
E il mare mi porta lontano
dove io non veda altro che mare e cielo, e tutto sia zitto e pace. Apro la
bocca e fra i denti mi scorre l'acqua salsa, e il corpo si lascia calare
lentamente nel mare.
Son qua per terra come un
cane in agonia e i nervi mi si inturgidano per il bisogno d'amare, e stiro la
testa come se un capestro mi si avvincolasse sempre piú stretto intorno al
collo. Poi balzo in piedi e guardo nella notte. Dove sei creatura bella che un
giorno mi devi amare? Guardi nella notte? Sotto le stelle l'aria ha uno
scintillío come di specchio e noi ci vediamo.
Creatura fresca, dentro
all'anima tutto è speranza di vita come in un bosco sotto la calura. La piccola
erba carezza il ceppo rugoso, tremando nell'aspettativa. La terra mormora,
l'acqua è vicina. Ecco l'acqua, la fresca acqua. E tu sei qui fra le mie
braccia, creatura.
Io ti posso baciare perché
mi sono conservato puro. Ho sofferto e pianto per te. Ora è agosto, e i rami
rigurgitano di succo e si drizzano smaniosi. Io voglio abbrancarti furioso e
sentire questa tua carne intatta torcersi sotto le mie dita, qua sulla terra
calda come il mio sangue, perché tu devi esser mia.
O creatura bella, io non
so che colore abbiano i tuoi occhi, ma sono azzurri perché la grande aria su di
noi è azzurra. Non so dove tu sia, ma guardi dall'alto e rassereni come il
sole. In tutte le cose tu sei perché tutto io amo: nella campanula bianca del
prato e nel fiume che ti rispecchia e va per l'ampia pianura portandoti nel suo
cuore.
O creatura nuova, non so
chi tu sei, ma ti sento dentro di me come se nell'anima un seme mi radicasse. E
sono un bimbo che va su per un monte verde, saltando e cogliendo fiori, e d'un
tratto gli s'apre davanti la valle con i suoi villaggi e la città lontano,
piena di luce nebulosa.
Tu sorridi di certo,
perché le stelle scintillano tanto questa notte. Sento il tuo sorriso sul mio volto
come un soffio di vento in un ciuffo d'erba. Ah cara! tutti i miei pensieri
vanno verso di te come l'api intorno a un fiore dolce. E vanno e vanno a
turbinare intorno a te, creatura mia.
Tutte le cose son vere; ma
alcune accadono ora, altre accadranno nel futuro. E s'io ti racconto in questa
triste notte invernale d'una fata che viene portando odoranti fiori in grembo,
tu mi devi credere, o povera anima mia.
Ho voglia di cose
lievi,
dove mi conduce un volo
di rondine, l'orecchio
sfiorandomi. Il sole è
tiepido
come guancia
adolescente.
Camminando leggermente
vado verso a bianchi
meli.
Lunghesso la strada
un ramo d'olivo
il volto mi tocca.
Cose fresche! Rose
gonfie di rugiada;
erba su d'un rivo.
Ah se potessi
baciar la tua bocca!
Il notturno sogno dei
fiori si disperde come la rugiada della prima alba lo tocca. Eppure volentieri
io sentirei le tue labbra sui miei occhi quando la mattina penso cosí
dolcemente.
Andiamo per i prati senza
sentieri, perché oggi un tiepido sole ci carezza le palpebre. Camminiamo
lungamente, godendoci il sole invernale e le piccole viole fra le foglie
dell'edera sparsa sul suolo.
È un giorno che l'anima è
portata in alto dal proprio fiato. Se respiriamo, lasciamo bianca vaporosa
traccia di noi nell'aria.
Andiamo ancora avanti un
poco, dove il sole scalda il tronco del bianco platano, e poggiamoci la fronte
leggera. Sotto ai piedi fruscia l'erba nuova, mentre andiamo tenendoci stretti
per mano e guardando tra le ciglia.
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