Parte terza
Ho ritrovato il mio carso
in un periodo della mia vita in cui avevo bisogno d'andar lontano. Camminavo
spesso, lento, alle rive per veder la gente che partiva. Studiavo l'orario dei
piroscafi lloydiani, e se avessi avuto qualche centinaio di corone sarei andato
in Dalmazia, a Cattaro, poi mi sarei arrampicato su fino a Cettigne, poi
chissà? nell'interno della Croazia dove c'è boschi immensi e bisogna cavalcare
lunghe ore per arrivare a una casipola di legno bigio. Il pater familias è
ancora l'antico ospite. Di notte, quand'uno non può dormire, sente un canto
triste che lo culla. Forse piuttosto sarei andato nell'Oriente.
Guardavo i bragozzi
ciosoti che con una gran spinta si staccavano, gonfi e carichi, dalla riva. Il
padrone della barca si levava la camicia per non infradiciarla di sudore,
s'arrampicava sull'albero, e agganciandosi con la gamba sulla scala a corda
sbrogliava la vela, giallastra a macchie mattone. Tutta la notte avrebbero
corso l'Adriatico col borino, e poi un altro giorno, e un altro sotto il sole.
Specialmente mi desideravo la piena calma marina, se il vento fosse cessato
improvvisamente.
Avevo bisogno di star
solo. Andavo per le strade poco frequentate, nell'ombra degli alti casamenti
rettangolari, e mi guardavo intorno spiando di lontano il viso dei passanti. Temevo
d'esser conosciuto, d'esser salutato, di dover salutare. Un amico mi mandò una
cartolina: perché non gli scrivevo? "Poiché non vuoi, non vengo. Ma non è
bello che tu sia cosí scontroso ed egoistico nel tuo dolore. Proprio ora
l'amicizia ti farebbe bene." Tutte buone care persone: ma io ero in cerca
di lontananza.
Stavo solo, nella mia
stanzetta, e ogni sera sentivo battere lente le nove, poi le nove e mezzo, poi
le dieci, poi le dieci e mezzo... Il tempo camminava come si va nei pomeriggi
domenicali, portandosi addosso la noia di tutti gli uomini. E ogni notte
sentivo passare una carrozza nella via, poi la voce di tutti i nottambuli che
gridavano alla moglie o alla mamma per la chiave.
Ecco - pensavo - ora mi
metto a leggere, piglio appunti, studio. Ma calavo la testa sulle braccia
raggomitolate - e non potevo piangere.
Non potevo dormire. Ero
sotto l'incubo di un'afa grave. E uno usciva di casa nella notte e camminava
con passi stanchi. Sognavo di una lunga notte di bora, che i pochi viandanti
camminano curvi contro di essa, senza pensare. Mi sognavo soprattutto di cedri
infissi nel fondo del mare, che a poco a poco impietravano. Avevo bisogno di
sassi e di sterilità. E mi ricordai del carso, e dentro ebbi un piccolo grido
di gioia come chi ha ritrovato la patria. Quante storie mi raccontai quella
notte! M'ero sdraiato sul materasso poggiando la testa sul braccio destro, e
ero un bimbo che aspettava con occhi aperti un po' di lume alla fessura della
porta e la mamma entrasse: "Non dormi? È tardi. Dormi, dormi. Ti racconto
una storia".
Avevo pietà e tenerezza
per me stesso. E mi raccontavo a voce alta una storia del carso: "Molti
anni prima di noi una donna del carso con capelli biondi, aveva partorito un
piccolo che tremava anche sotto la pelle d'orso. Allora lei poiché il suo fiato
non bastava, accese il fuoco per la prima volta. Il piccolo crebbe e non andava
a caccia. Mangiava carne cotta e le notti d'inverno quando si svegliava
d'improvviso e non vedeva la fiamma, l'oscurità e il freddo entravano in lui,
ed egli pensava strane cose, rabbrividendo. Dalla volta della grotta stillavano
gocce, piú lente del battere del suo sangue, e come cadevano sullo strame del
giaciglio egli sentiva camminare fuori della grotta. Ma molto lontano; chissà
dove, chi era?
"Pascolava le capre;
si ficcava dentro un cespuglio e guardava il cielo tra le frasche. Un cervo
passava annusando, un uccello fischiettava, e quei suoni entravano in lui e si
intricavano. Poi dormiva un poco. Poi tornava al calar del sole, e raccontava
con parole chiare come le foglie dopo la piova. La sua famiglia l'ascoltava.
"Un giorno,
mentr'egli raccontava, vennero uomini, il torso come macigno spaccato dal
ghiaccio; ammazzarono la famiglia, rubarono il fuoco, e condussero lui in
servitú." Anche altre storie mi raccontai. Ma poi fui stanco, e non potevo
dormire. La mia testa erano tanti pensieri rotti che nascevano e svolavano via
da tutte le parti, portandomi in mille posti contemporaneamente. Sudavo. Allora
m'alzai, mi vestii in furia, intascai il mio coltello a serramanico, e andai.
In via Chiadino c'era ancora una coppia d'amanti, e la donna giocava con le
dita del compagno che la teneva avvincolata a sé. Io pensai: "Quella donna
gli può benissimo morire proprio questa notte". I cani abbaiavano. Appena
su, verso Kluch, dopo la stanga giallonera della dogana, io fui solo e
respirai. Camminavo senza pensare.
Anche questa mattina s'è
alzato il sole. E come al solito i muratori camminavano nella strada
silenziosa, con i loro grossi tacchi. Ho visto una donna dirimpetto alla mia
finestra spalancare le imposte e chiamare il figliolo ch'era ora di scuola.
Dentro di noi s'accumulano
molte nausee e schifi, e un giorno escono e ci appestano l'aria che respiriamo.
Secca assai vestirsi, mangiare, alzarsi dalla sedia, ed è inutile; ma è meglio
non turbare le abitudini e mettere un piede davanti all'altro perché ci hanno
insegnato a camminare. Soltanto non porre ostacoli alla noia, perché allora il
pensiero s'agita e fa patire; ma se no, la vita procede calma, senza scosse né
sussurri.
Silenzio e pace. Si
cammina per le strade senza far rumore. Non bisogna svegliare. La gente dorme,
male, bene, ma dorme. Nessuno ha diritto di svegliare il sonno di nessuno.
Passa qualche nottambulo, e una guardia di pubblica sicurezza piantona a passi
larghi. Vicino ai fanali senti il fruscio del gas ch'esce dal beccuccio. Un
tratto di luce; la tua ombra cammina davanti a te, poi si smarrisce un poco;
una seconda ti segue; si fa piccola, s'avvicina, eguale a te. Ti puoi fermare,
sdraiarti su lei, nel lastricato della città, e dormire anche tu. Ma puoi anche
andare avanti, svoltare a sinistra o a destra, è indifferente. Ora sei in mezzo
a una puzza di petrolio bruciato; poi, quando questa zona finisce, comincia la
ventata calda di grasso dalla cucina d'un albergo. Tu puoi camminare fino
all'alba per la città zitta, mentre la polvere cala lenta per terra.
Piove. È una giornata
lunga. Il campanello suona: entra Guido, lascia cader l'ombrello nel
portaombrelli, va in camera sua, butta giú i libri, va a mangiare. Mamma passa
piano vicino la mia porta, perché spera io riposi.
Il giorno s'allunga eguale
e infinito.
Un carro traballa lento
per la strada. Odo picchiare su ferro. I colombi tubano sul cornicione della
casa. Non so che sarà della mia vita.
Due uomini passano vicino
e si salutano levandosi il cappello. Uno ha un viso triangolare, tutt'ossi, con
occhi stanchi e erranti; l'altro cammina a piccoli passi svelti, tutto
contento. È contento d'aver appetito. È contento della sua casa, della giovane
sposa che lo aspetta alla finestra. Ha il Piccolo ripiegato in tasca e
porta un cartoccio di ciliege per il pranzo. - Perché si sono salutati? Che
rapporto vi può essere tra questi due uomini? Tutta la vita è intrecciata cosí
ridicolmente. Nessuno può capire l'altro, ma s'infinge d'amarlo e d'odiarlo.
Perché? L'altro fa un atto e allora si dice che ha fatto bene, che ha fatto
male. In nome di che cosa?
Io passo e lascio passare,
e guardo questa ignota vita come un forestiero. Io sono qui perché in questo
momento cammino per questa strada e vedo un orologiaio curvo su un panchetto
svitare una molla con una piccola punta di acciaio. Tien stretto nell'incavo
dell'occhio una lente a tubo, naturalmente, senza increspare un muscolo per lo
sforzo. Nella bottega mille pendoli dondano ritmicamente e mille lancette
segnano l'ora identica e gl'identici minuti. Tornan da scuola le bimbe del
Liceo, a frotte, tutte vestite di turchino, e cianciano occhieggiando di straforo
i giovanotti che fanno l'aspetta.
Un ragazzotto spruzza
d'acqua il selciato davanti a un negozio, poi entra, esce con una scopa e butta
la polvere in mezzo alla strada. Un fiaccheráio dorme rannicchiato nella
carrozza, sui cuscini rovesciati, e il cavallo, con il muso insaccato, mastica
la biada. I colombi di Piazza Grande ogni tanto si levano a tormo e volteggiano
in grandi cerchi, poi ricalano e zampettano fra le fossette d'acqua. Il soldato
bosniaco davanti al palazzo della luogotenenza marcia a passi duri, si volta in
tre tempi, torna in su.
Dove sono? L'aria calda mi
fa socchiudere gli occhi, e cammino trasognato. Cammino lentamente e guardo
come un forestiero stanco di viaggio, e che tuttavia debba vedere perché
qualcuno lo attende pieno di affetto e interesse. Ma nessuno m'aspetta e
nessuno si sederà accanto a me tornato chiedendomi con occhi amorosi: "E
dunque? come fu il viaggio?".
Io sono solo e stanco.
Posso tornare e restare. Posso fermarmi qui in mezzo alla piazza finché il sole
mi faccia vacillare e cader per terra; e posso andare fra il frastuono dei
carri come nel silenzio della notte, perché in nessun luogo c'è riposo per
questa mia grande stanchezza.
E i carbonai che dalla
maona carrucolano le ceste di carbone sul Baron Gautsch mi guardano con
quei loro occhi infossati e sanguinosi meravigliandosi del mio interessamento.
Uno tosse, sputa, l'aria
gli riporta sul torso seminudo, impastato di carbone e sudore, i lunghi
filamenti di mucco e forse egli pensa stizzosamente che io ho compassione di
lui.
No, no: io sono
indifferente. Soltanto non capisco. Vedo che si lavora intorno a me. Un
bastimento greco imbarca grosse travi; due pescatori issano la grande vela
scura, gocciolante; un gelataio grida la sua merce; uno con occhiali neri nota
su un libruccio il numero sacchi cemento; un servo di piazza si fa avanti con
il carretto rosso; s'accosta, spumando, il vapore di Grado; un manzo tira un
vagone carico di balle di cartone. Sul vagone è scritto: Troppau-Triest-Rozzol-Assling.
Ora un treno sbuffa su per il colle d'Opcina; un altro arriva a Pola, un altro
rintrona sul ponte del Po. L'aria è piena di strepito. Il movimento s'allarga.
La terra lavora. Tutta la terra lavora in una grande frenesia di dolore che
vuol dimenticarsi. E fabbrica case e si rinchiude tra muri per non vedere
reciprocamente i propri corpi avvoltolarsi insonni fra le lenzuola, e si tesse
vestiti per poter pensare che almeno il corpo dell'altro è sano e regolare, e
congegna milioni di orologi perché l'attimo l'insegua perpetuamente frustandola
avanti nello spazio, come una dannata che si precipiti senza tregua per non
cadere. Non fermarti mai per un minuto, o laboriosa terra!
Cosí sentivo; e stavo
fermo, come se fossi nel punto morto della terra. Avrei voluto pregare i
carbonai di lasciarmi lavorare con loro; ma ridevo malignamente e pensavo: Sí,
sí, lavorate. C'è sempre dentro di voi il mistero come un piccolo grumo che non
si scioglie. Lo portate con voi in tutte le vostre faccende, ed esso sta quieto
e buono per darvi l'unghiata all'improvviso. Mangiate il vostro pane e bevete
il vostro vino; crescete e moltiplicatevi; perché del pane che mangiate e del
vino che bevete si nutre il vostro mistero, ed è l'unica verità certa che i
vostri figlioli daranno ai loro figlioli. Incallite le vostre mani e il vostro
spirito penetri oltre i tessuti piú stretti e sia cosí limpido da farsi
specchio a se stesso. Torturatevi ogni membro del vostro corpo con tutti gli
istrumenti di lavoro, e anche, se volete, buttatevi su un letto comodo e affaticate
il vostro spirito. Il mistero non lo estenuate. In che parte di voi è rintanato
il piccolo mistero? Potete stritolarvi tutti, e il vostro ultimo sguardo non lo
vede. Lo potete anche cercare nelle notti stellate e tra i filoni di ferro,
sotto, nell'oscurità, fra le radici delle foreste. Anche, se volete, potete
ammazzarvi; ma la palla che passa oltre le vostre tempie non lo brucia, e esso
vive in voi anche dopo voi, eternamente, il piccolo mistero che ha fatto questa
bella distesa di mare e ha fatto noi e ci ha fatto costruire i piroscafi
rossoneri.
Ridevo quasi forte.
M'accorsi che mi guardavano. Allora ebbi ribrezzo di me. Stetti duro, fermo.
Ero tutto infetto. Mi pareva che una mia parola avrebbe impestato il mondo.
Guardai il mare largo, puro, e avrei voluto pregare. Ma no: tutto il mio dolore
è mio, tutto il mio strazio è per me solo. E mi rinserrai il petto con le mani,
e fui un sussulto di dolore attorto contro se stesso. Mi parve di poter morire
perché il mio segreto bruciava avidamente il mio sangue, rosso, come il sole
maledetto che tramontava nel mare.
Perché non lavori?
Ricordati che qualcuno ha sperato in te. Ella aspetta, e non è contenta. Ogni
minuto che tu implori è un delitto. Pesta il capo dentro il tavolino, ma lavora
benedicendola. È giusto che sia morta, perché tu sei un vigliacco.
Mi sedetti al tavolino,
presi la penna, cominciai a fare scarabocchi sulla carta, e facevo freghi con
su scritto il suo nome. Improvvisamente mi spaventai e corsi allo specchio.
Guardavo fisso i miei occhi e mi domandavo: "Sono molto lucidi? Ma Vedrani
dice che non si può capire dai segni esterni se uno è pazzo. Non sono pazzo.
Sta calmo, Scipio". Guardavo le cose riflesse nello specchio. Le cose
riflesse nello specchio - per legge fisica - sono distanti dagli occhi come
sono distanti dallo specchio le cose che si riflettono. Cercavo di calcolare se
anch'io vedevo cosí. "Se mi pesto devo sentire dolore. Ma anche i pazzi lo
sentono. Come posso avere una prova esterna che io non sono pazzo? " Il tappeto
nello specchio faceva un angolo con il tappeto reale. Guardavo per la prima
volta, come un bimbo. I lunghi fili rossi, i lunghi fili blu. Corsi in stanza
da pranzo; c'era Vanda che lavorava. - Ora parlo. - Ma non potevo. Avevo
terrore della mia voce. Giravo su e giú. Se fosse strana, e Vanda mi guardasse
spaventata?
"Xe in casa
mama?" Ma no, no: avevo domandato con naturalezza e semplicità. Tornai in
camera mia. Mi buttai per terra, tenendomi stretta la testa; la chiamai, due
volte, tre volte, quattro volte, cinque volte..., e continuai a dire il suo
nome lungamente, lungamente, a bassa voce, sempre piú piano. Poi mi misi a
ninnare: Din, don, campanon - Tre putele xe sul balcon - Una la fila, l'altra
la canta, - L'altra la fa putei de pasta - Una la prega sior Idio - che 'l ghe
mandi un bel mario... Poi non ricordo piú. Mi prese il sopore. Mi rialzai dopo
pochi minuti e stetti calmo. Non so per dove passai. Ma molte volte ho pregato
la pazzia e la morte.
Vorrei farmi legnaiolo
della Croazia. Amo le frondose querce e la scure. Andrei al lavoro camminando
un po' storto a destra per l'uso del colpo, e il lungo manico della scure
ficcata in cintola mi batterebbe la coscia.
Il capo mi dà una manata
sulla spalla, ridendo tra denti bruni. Il capo è forte e esperto e noi gli
obbediamo con riconoscenza. A noi piace esser comandati. Il capo beve petecchio
come acqua, e non traballa mai, ma andando coi suoi passi ben piantati vigila
dall'alba alla notte il lavoro - e gira per la foresta come una grossa bestia
affamata. Se tu non lavori, subito senti dietro alle spalle uno schianto di
rami, una risata di cornacchia infuriata e una pedata in mezzo della schiena.
Ma il capo è buono e mi
dice: Uh, Pennadoro! Ho scoperto una pianta per te. È dura di cent'anni. Come
va la scure? Alla! alla! stavolta mette il primo dente. Il primo colpo, qua.
Sentirai che carne!
La mia scure è bella, col
manico lungo di rovere, e un occhio quadrato. Ride freddamente come il
ghiaccio. È svogliata e pigra, piena di disprezzo. Ama starsene affondata nell'erba
guazzosa e contemplare il cielo. Qualche volta si diverte di giocar con le
teste dei cespugli e i getti spumosi del frassino. Allora sorride come una
bimba della saliva amarognola che le sgocciola sulle guance. Ma piú spesso è
triste e tetra.
Ah, ma quando si scalda
come dà dentro! Dà dentro come una bestia infoiata. Piomba, piccola e chiara,
senza respiro, e han! come un tuono che scoppi, è incassata nella carne
dell'albero. Tutta l'aria attorno ne vibra, e i fringuelli rompono la nota. Si
disficca a stratte per assaporar bene la ferita, si libra a dritta ala per un
istante, immobile, e han! è dentro all'ossa. La quercia sussulta drittamente,
senza piegarsi, e accarezza con le frondi basse i quercioletti giovani,
attorno, per non impaurirli, come se solo il dolce vento del mare la muovesse.
La grande quercia è silenziosa come una madre che muore.
Ma la scure canta. La
scure s'alza, s'abbassa e canta. Ride rutilante, rossa. È come pazza. Io n'ho
paura. Non vedo che questo lampo davanti che fischia e scroscia. Han! han! Non
sento piú le mani. Il lampo mi sbatte contro l'albero, e mi ribatte via! Han!
Piccola mano d'acciaio, distruggiamo la foresta!
Perché dunque ci
estrassero dalla terra? Dormivamo quieti nel tepore umido delle radici. Piú
fondi ancora eravamo, eravamo il buio cuore duro della terra. Venne giú
un'ondata di luce, ci squarciarono, ci portarono al sole.
Ebbene: ora viviamo. Ora
vogliamo sole sulla terra. Grande sole di deserto. Sole che spacchi le fronti.
Distruggiamo la foresta!
I colpi cantano senza
respiro, fra il ronzar dello scheggiume. Ah com'è buono arrivare al cuore della
vecchia quercia! Il colpo s'insorda. Via! - Un crollo: rintronan gli echi
lontani.
Ora gli squartatori e
squadratori hanno lavoro per una settimana.
Sono venuti i bimbi a
vederla morta per terra, e ne unghiano la corteccia lichenosa con roncolette
dal manico rosso. Sono contenti. M'hanno dato fragole e lamponi. Io mi frego
con l'indice disteso il sudore delle sopraciglia e li guardo.
Vorrei essere piuttosto
sorvegliante d'una piantagione di caffè nel Brasile. Ho parlato oggi con un
negoziante di qui: dice che sapendo lo spagnolo potrei farlo benissimo. Basta
un po' di durezza. Badare che lavorino. Dar di frusta non fa male. Avrei
piacere di assaggiare quelle larghe spalle di meticci. È strano che la gente
non crederebbe io possa essere aguzzino. La gente non crede ch'io sono freddo e
calmo e che la loro miseria mi dà semplicemente un senso di noia.
E io?
Io sono come voi, non
badate. Le mani del giovane barbaro sono diventate bianche e deboli come le
mani delle femmine. Ora è tempo di sognare: alberi spaccati, schiene frustate,
altre cose. Tante altre forti cose.
Mamma mi diceva
timidamente ch'era naturale non dormissi, tutto il giorno su e giú per la tua
stanzetta senz'aria! - Come un condannato: cinque passi in su e cinque in giú,
fra due scaffali di libri letti e riletti e un muro bianco dove sta scritto da
tanto tempo: Tutte le cose son vere, ma alcune accadono ora, altre
accadranno nel futuro. E s'io ti racconto questa triste notte invernale d'una
fata che viene portando odoranti fiori in grembo, tu mi devi credere, o povera
anima mia. - È passato parecchio tempo. Ora il piccolo salmo è tagliato con
un frego del dito. E scritto anche, a lapis rosso: Guardami ben: ben son...
ben son Beatrice.
Su e giú, giú e su. E poi
sedere davanti a questo piccolo tavolinetto, e poi sdraiarsi per terra. In
strada gl'innumerevoli bimbi urlano e piangono e tiran sassate sulla ruletta
chiusa dell'erbivendola. Tornano in rimessa, con gran fracasso, i carri d'una
fabbrica di birra. La casa grigia di fronte è orribile. Quando piove, sgocciola
di sudore giallastro. La luce invade camere soffocate, angoli di grandi armadi
scrostati, uno straccio per terra, una donna grassa che si leva le calze. A
qualunque ora del giorno sono ammassate sulle finestre lenzuola e coperte
stinte. Tutto il giorno c'è una brutta baba sdentata che sbraita discinta dalla
finestra contro il suo bambino: "Ah, porco! Dove te xe, fiolduncàn?"
'Speta che te guanto mi, mulo! Cori, Paulin! Che dio te maledissi in tel anima,
porco de mulo! 'Speta mi, co' te vien a magnar!". Tutto il giorno. Alle
diciannove e mezzo una moglie alza lo sportello della finestra e con una
piccola in collo aspetta il marito che viene a passi brevi, col bastoncello.
Ogni sera. La notte passano comitive di ragazzoni cantando l'inno della Lega o
dei Lavoratori. All'alba i muratori camminano battendo con i loro tacchi di
legno, e la donna apre le imposte e chiama il suo figliolo che è ora di scuola.
Usciamo, perché qui non si
può piú stare. Andavo nel bosco di Melara. Traversavo i prati e mi godevo del
sussurro dei piedi fra l'erba già alta, camminando lentamente, un po' curvo, a
capo scoperto, sotto il sole, come chi va spiando da piccole tracce e piccoli
strepiti una cosa che s'allontana cautamente.
Tutte le carnose
papilionacee, rosse, gialle, screziate, sono in fiore. Le foglie delle querce
s'inturgidiscono di succo, e i ginepri sono piú coccole che aghi: coccole
verdognole, lisce, fresche come gocce marine. I tronchi dei platani si
spellano, e all'annodatura i primi rami sono gonfi di muscoli crespi come
braccia di forti creature. L'erba dai prati s'allarga sulla strada maestra.
Dolce principio d'estate
in cui tutto è vivo. Io sento d'intorno a me la sicurezza meravigliosa della
vita che s'eterna. Cede la primavera benignamente, con piovere di petali
sanguinei e bianchi al vento vaporante, mentre i calici ingrossano e
s'insolidano e le farfalle rompono il bozzolo filamentoso e le guaine dei nuovi
germogli si ripiegano secche e scolorite. Ancora ondula qualche fraschetta
gommata e rossiccia, e avvolta dall'esuberanza dell'erba ancora qualche viola
impallidisce negli umidi nascondigli: lievi parole infantili che tornano sulla
bocca della donna che ha partorito.
Io mi sdraio sotto un
rovere e guardo svolettare tra le foglie mille insettucci rosso turchini, in
amore. Tutta l'aria sul mio capo è piena dei loro brevi svoli. Alcuno cade
sfinito, si agguanta al filo d'erba inarcato e drizza le sue antenne, stupefatto.
Per il tronco gropposo scende e sale la doppia carovana delle formiche;
dall'erba sbalzano sui miei vestiti esili puntolini neri come cicale
minutissime. E mi slungo piú fondo in questa forte erba fiorita, e sono pieno
di dolore e di morte.
Sta quieto. Il cielo è
chiaro, come dopo un'acquata. Nel turchino del cielo lo sguardo si riposa
calmamente, come nella distesa del mare. Veleggia un cirro bianco tremolando.
Gli orli delle foglie contro il sole lameggiano d'argento. Riposa. Il vento che
vien da lontano ti porta un buon sogno se tu stai fermo e lentamente
t'assopisci. Reclina il capo sulla terra. Ora ti giunge un suono tranquillo di
campana. Vicina è la patria.
No, non posso dormire. Le
braccia dormono, abbandonate lungo i fianchi, gli occhi dormono; tutto il corpo
e l'anima smania verso il ristoro del sonno: ma una, una cosa veglia che
nessuna nenia di mamma addormenta e l'acqua che a goccia a goccia fluisce
vicina non placa, e il vento non porta via tra i fiori con sé, natura, natura!
Una cosa. Non posso dormire. Le stoppie vecchie dell'erba inquietano come
questo pensiero che neanche nel sonno mi dà pace ed è insolubile a tutte le
buone virtú della terra, ed è duro, e mi tormenta in ogni posto. Non posso
dormire. Un disgusto orribile storce le mie guance per tutta questa vita piena
di gioia che mi circonda. Che ho commesso io di non potermi fondere dentro
quest'ora calda in cui una divina certezza d'amore freme da foglie e tronchi e
fiori e uccelli e sole? Ficco le dita aperte nel groviglio dell'erbe come si fa
per scoprire la bianca fronte dell'amata, e gli occhi suoi mi guarderebbero
fissi serrando l'infinito fra i nostri due sguardi. Dov'è la tua bocca,
creatura, ch'io la baci? Dove sei?
Solo m'hai lasciato qui. E
posso percorrere tutte le vie e i monti e i mari della grande terra, e in
nessun posto ti ritroverò piú. Sono ampie e immense le strade del vento piene
di spume e ondeggiamenti; ma tu sei piú in là. E se anche il sole mi fa chiari
questi stanchi occhi, io non ti posso piú vedere, tanto lontana sei andata.
Quando la notte è viva di stelle, ti cerco negli spazi immensi; ma l'infinito è
senza di te, perché io non ti posso piú stringere fra le braccia, creatura.
Ed eri fresca e odorosa
come l'alba. Eri un'alberella di primavera. Quando tenevi la mia mano nella tua
bella mano lunga, dovevo camminare dritto, con passo fermo. Io ti guardavo
negli occhi irrequieti, curiosi di foglioline sotto le foglie secche, che
improvvisamente si spalancavano meravigliati o profondi come il dolore, e ti sorridevo.
Cantavi a bassa voce, limpida come un filo d'acqua tra l'erbe. Dolce creatura!
E quando chinavi la testa sulla mia spalla, io ti tenevo il mento nella mano,
t'accarezzavo le guance e i fini capelli, e una tenerezza tremante mi prendeva
non potendo io comprendere che tu eri mia. Piccola, piccola! perché m'hai fatto
questo male?
Solo m'hai lasciato qui,
dopo averti baciato. E ora non c'è pace piú, in nessun posto, anima. Dove
potremo nascondere la nostra amarezza? Alziamoci e camminiamo con i nostri cotidiani
passi lenti, in cerca della nostra solitudine.
Il carso è un paese di
calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e
di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi.
Lunghe ore di calcare e di
ginepri. L'erba è setolosa. Bora. Sole.
La terra è senza pace,
senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è
spaccato e inabissato.
Grotte fredde, oscure. La
goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente,
da centomila anni, e ancora altri centomila.
Ma se una parola deve
nascere da te - bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è
pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è
raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera.
Premi la bocca contro la
terra, e non parlare.
La notte; le stelle
impallidenti; il sole caldo; il tremar vespertino delle frasche; la notte.
Cammino.
Dio disse: Abbia anche il
dolore la sua pace. Dio disse: Abbia anche il dolore il suo silenzio. Abbia
anche l'uomo la sua solitudine.
Carso, mia patria, sii
benedetto.
Ma una notte il dolore fu
quasi piú forte di me. Lo sentivo raccogliersi a goccia a goccia, e l'anima sí
chiudeva arida e indifferente, cercando di non dargli presa. Io so la paura.
Non si capisce altro: ora quell'uomo viene avanti e m'ammazza. Io non posso
muovermi. Non posso sottrarmi. Fare strepito, no. Devo guardarlo fisso.
Cosí era di me. Camminavo
rabbrividendo sulle scaglie calcaree, sonanti come piastre di ferro ai miei
passi, fra cespugli e pini giovani. Lo strepito dei miei piedi non mi faceva
terrore; ma mi sgomentavo, sudante, come la scaglia toccata scivolava piú in
giú, urtando le altre, crepitando fra stecchi e foglie. L'anima era stanca e non
voleva piú patire. Voleva rimanere sola e oscura. Pregava con nenia, che non
venisse il dolore, che non venisse l'affanno, che la lasciassero sola e oscura.
Ma non c'era pace nella preghiera; non m'ascoltavo. Ero tutto teso e doloroso
verso uno sfrondare improvviso, un lampo, un colpo di fucile, uno scroscio. Una
terribile cosa presentita; che mi può cogliere qui, da questa macchia nera,
dietro quel muricciolo, eccola. Correvo, per sfuggire il dolore che m'inseguiva
fra i cespugli mossi, verso il cielo aperto, dove si vede da tutte le parti
intorno, nella luce dell'orizzonte stellato.
Ma nell'infinito notturno
fui piú solo e senza difesa. Solo, col mio dolore, unico compagno, buon
compagno, da reclinare la testa in lui e piangere. Piansi come un bimbo sperduto.
La luna bianchissima nell'aria, soffusa sui sassi e sulle piante da inumidirsi
le labbra e toccarla, fredda, con la mano. Il mare sotto di lei s'innalzava in
una strada d'argento, procedente a larghissime spire. Nell'immensa luce d'alba
l'orizzonte lontanissimo guardava da tutte le parti, penetrando indifferente in
ogni cosa. E io piangevo solo, alta ombra nera osservata e vana.
M'accoccolai fra le rocce
a picco sul mare, nascondendo vergognosamente la faccia nelle mani. Io non
credo in Dio, non credo in Dio. Ma forse lei è qui sopra di me, in questa luce
senza scampo, in questo cielo, in questa terra. Anche tu sei qui con me. Forse
anche tu soffri. Aiutami, creatura. Ch'io senta solo una sillaba della tua voce
e la tua mano sulla fronte, perché è silenzio e solitudine qui, e nessuno
disturba. Intorno, nessuna cosa respira. La terra si può aprire e restituire la
sua preda. Il cielo si può riunire per ricrear la sua forma. L'anima è diffusa
in tutte le parti; ma io voglio averti ancora qui, amore. Io posso farti
rinascere. Basta ch'io creda. Io credo che tu puoi rinascere. Tu non sei ancora
morta. Aspetti prima che ritorni. Io ti scrivevo che si sarebbe stati contenti
assieme. Vedi, quando s'ha te tutto è cosí semplice e bello. Arrivederci
presto, amore. Aspettami presto. In luglio sarò di ritorno. - Allora, quando ti
scrivevo questo, tu eri già morta. Ma ora sono tornato, e t'aspetterò fino
all'alba, perché tu sei ancora mia, e non è possibile che tu sia morta. Non
avermi abbandonato! Sta' con me, piccola. Ti prego, ti prego. Creatura. - Non
alzavo la faccia per non disturbare la sua volontà. E bisogna credere e star
fermi e credere. Un tocco fra i capelli. Forse era il vento. La terra è
chiarissima sotto la luna. Perché tu sei eternamente morta.
Ella è morta. Non è
comprensibile questa parola. Nessuno la può veder piú. Nessuno ode piú la sua
voce. È morta. Io non capisco la morte. Io non so nulla. Io sono davanti alla
morte e la guardo incantato come guardo questa roccia spaccata sotto ai miei
piedi. Ma io non voglio morire, perché non so che cos'è la morte. Ella è in una
tomba nella pietra liscia, nella bara, serrata con viti. Come facevano quando
invitavano le viti? Ella è con le mani distese lungo i fianchi. Di fuori c'è un
nome e due date. Bisognerebbe strappare quella lapide. Bisogna portare tutti i
ginepri del carso sulla sua tomba. Porterò un macigno grande; e rami di quercia
giovane, perché tu stia sotto il fresco delle foglie, e i boccioli, e i
narcisi, tutti, cosí i fiori non nasceranno piú in carso. I fiori del carso
seccano sulla sua tomba, brava gente mia! Avanti, avanti, cercate se siete
bravi. Io li ho presi tutti, e ora scendo e la porto quassú con me e stiamo in
pace. Occorrono tutti i boschi di pino per bruciare il suo bianco corpo.
Riposiamo, riposiamo. Ella
è morta, è inutile. Uno vive tra noi. Per anni e anni. Ha bevuto il latte
d'un'altra donna, ha imparato a scrivere da un altro, ha insegnato a scrivere a
un altro. Io le ho dato un tormento, tu hai sofferto per lei. Sí, perché aveva degli
amici, e quando essi eran lontani a lei pareva di non essere neanche viva. Ha
parlato con migliaia di persone. Ogni suo atto e ogni sua parola è allacciata
con i nostri atti e le nostre parole, e forma un cosa unica, non sua, non
nostra, di tutti noi, di tutti. Niente interviene. Un piccolo niente, un atto
di volontà: un attimo: quella persona non è piú eternamente con noi. Com'è
possibile che uno può morire mentre gli altri continuano a vivere? Io non
domando com'uno può morire, io domando come gli altri continuino a vivere. Egli
è morto, egli solo. Gli altri alla mattina dopo vedono levarsi il sole. Si
stampa il suo nome sul giornale. I treni corrono. Potete già leggere il suo
nome nell'avviso mortuario del giornale comperato in una stazione intermedia.
Io non patisco. Anche questa signora qui di faccia legge il suo nome sullo
stesso giornale che ho in mano io. Trentamila copie. Io vado a vederla morta.
Ma questo non fa niente; ma io domando: se egli solo, egli addolorato da noi,
egli amato da noi, egli solo è potuto morire, continuando la nostra vita dunque
l'odio, l'amore, la comprensione? Nessuno può penetrare dentro una persona e
amarla cosí perfettamente ch'essa sia legata a noi come corpo nel corpo. Uno
può morire poiché nessuno lo può comprendere; dentro ogni individuo c'è un
segreto tutto suo che l'amante e il maestro non toccano. E l'individuo è per
l'eternità staccato dagli altri individui ed egli aspira a esser tutto, dalla
punta delle dita alla sua fede, tutto un segreto invisibile, senza che gli
altri lo possano cercare, muto e solo; egli aspira alla sua pace d'individuo,
dove la sua forma non sia turbata dall'altre; esser tutto suo. Ed egli patisce
finché non arriva: questa ricerca è la vita. L'individuo desidera di morire
dagli altri. E naturalmente noi non possiamo comprendere la sua morte.
Già da bimbo esiste
nell'uomo il rimpianto. Già allora sentiamo che ci manca qualche cosa che
godemmo e che s'è persa, e piangiamo; e tutti gli uomini assieme, tutta la
storia degli uomini non può consolare il piccolo bimbo che rimpiange una cosa.
Questa è l'umanità in cui ho creduto. Lavorare è cercar invano un ristoro per
la cosa perduta. Ognuno si cerca, ipocritamente, selvaggiamente, sul corpo
della donna, nella mano dell'amico, nella fede, in Dio. Ognuno, vanamente. Io
solo, quassú, solo, sono sincero; ma anche la solitudine e la sincerità non
bastano. Non basta sapere. Io penso in parole che gli altri pensano. È
necessario morire. Solo questo è indispensabile: essere.
Ma com'è possibile che
l'individuo sia, quando ha raggiunto la sua solitudine e non c'è piú ostacolo
davanti a lui? Egli muore imperfetto: come si perfeziona senza misura, meta,
mezzo, attività? Egli muore uomo. Che cosa avviene nello spirito individuale
che muore, perché si possa mutare cosí integralmente il suo carattere umano?
Dunque l'ultimo atto di vita è l'integratore dell'individuo? In quell'attimo
egli è perfetto, e gode umanamente della sua perfezione divina, perché nessuna
cosa umana può morire prima d'aver raggiunto la sua meritata divinità.
Ma chi ha detto ciò? Che
verità afferma che per morire bisogna esser perfetti? Questa può essere
l'illusione con cui tu hai tenuto su la tua debole vita. Chi dimostra che c'è
perfezione nell'individuo? Egli può anche morire benissimo essendo imperfetto,
rimanere inespresso nella sua parte ottima, per tutti i tempi inespresso, senza
possibilità di futuro. Con questa eterna, ferma angoscia. La morte non è pace.
La morte è un tormento orribile. Ma lo sente? rimane la coscienza individuale?
Il tormento orribile del tutto attraverso di te. O il tutto patisce senza
riposo?
Il tutto? cos'è? T'hanno
abituato a questa parola. Forse non esiste un tutto, esistono parti staccate
che cercano inanemente di fondersi. Qual Dio t'ha rivelato che la morte sia sola?
Può essere un tuo pensiero d'angoscia. Può essere che neanche il tuo tormento
piú duro tocchi la verità. Non è scritto che ci sia una verità. Perché è
necessario che ci sia? E anche se c'è, al dolore non è dato la grazia speciale
di veggente. Quest'è la rettorica del dolore veggente. Perché il dolore
dovrebbe essere piú profondo della gioia? La cosa pensata da tutti non è
necessario sia vera. Per esempio, cosa parlano di annullamento nella pace
cosmica, di trasformazione organica perché nasca una forma particolare?
Ma può anche essere vero,
chi ha detto di no? La tua superbia di non appagarti in ciò che gli altri
dicono. E che vale la tua superbia davanti al mistero? Tu sei uno che non sa
perché perisce questa pianta adesso che l'hai strappata di terra. Era una
pianta di timo. Sei venuto quassú, portato dal suo profumo. L'accarezzavi
tanto. Le volevi bene. Era una dolce pianta di timo. Snella, con un ciuffo
lieve, odorosa. Tu l'hai strappata perché non hai capito cos'era. Tu non l'hai
capita, perché sei un letterato. L'avresti radicata piú fonda nella terra,
nessuno piú l'avrebbe potuta strappare. Potevi esserle dio. Ora marcisce.
Nascerà nuova vita da essa. Vita? ma mille vermi e mille gramigne valgono la
pianta di timo che hai fatta morire? Dio, perché i buoni, perché anche i buoni?
Ma è dunque necessario alla vita che i suoi scompaiano perché essa possa
continuare? Cosí debole è la vita. Indifferente, senza legge. Muore anche il
buono perché anche il cattivo nasca. Nessuna legge. Non un buono per un cattivo:
sarebbe legge. Buono o cattivo, buono e cattivo: ma queste son distinzioni
nostre! Nell'universo non c'è legge. Regna ancora il caso, anche ora che è nato
l'uomo e la volontà. Tu ti sforzi d'esser buono, ma la natura non ricava niente
da questo tuo sforzo. Ma gli uomini sí, gli uomini! E, signori uomini, dopo gli
uomini? dopo la vostra alta sapienza? L'universo nuovo sarà migliore perché
Dante ha scritto? I Prigioni di Michelangelo terranno sulle loro spalle
la notte eterna perché non fracassi la terra che gira intorno al sole, e il
sole che gira intorno a Ercole, e Ercole che gira intorno - Intorno a che cosa?
- Ma tu uomo, tu che vivi e obbedisci alla tua coscienza, sapendo che non
migliori niente, sei un eroe. Sei il tutto di fronte al niente. Dio tu sei.
Dio? - Ma non potrebbe
anche essere che tu vivi soltanto perché ci sei abituato e ti secca provare
l'ignoto? No, non facciamo storie grandi; vediamo semplicemente come stanno le
cose. La vita è dopo tutto molto comoda per chi non sa arrischiarsi nel largo
mondo. Chi esce dalla casa può smarrirsi, non ti pare? E c'è una persona che
ama assai il suo cervello e il suo largo petto. C'è qualcuno che vive perché è
ambizioso; ma, umile, dovrebbe morire. Costui sogna nella sua superbia di avere
un compito e una strada, ma che conti tu in realtà? senza fede, senza lavoro,
senza amore, carne accasciata! Il tuo spirito è soggetto al caso. Una persona è
morta: e tu non credi piú. Sei una forma qualunque dell'universo che solo in
questo può essere superiore: vincere l'orgogliosa abitudine, e morire. Tu ti
puoi persuadere del mistero. Puoi rinunziare. Essere umile, sereno.
L'abisso non fa orrore. Si
può scivolare giú. Solo bisogna lanciarsi piú in là per non portare con sé i
sassi fragorosi. Andar giú zitti. Non disturbare il freddo silenzioso
dell'universo. Come l'acqua nell'acqua.
O, o! - ma anche può
essere che tu non sai sopportare un dolore, amico. Può essere, non è
assolutamente certo, caro. Può anche essere che ora io ti parli soltanto per
paura di morte. Ma se fosse vero che tu muori perché non sai sopportare un
dolore? Perché sei incerto? Ora viene l'angoscia. La sentite? L'aria è
spasimante sotto le sue grandi mani. Le nuvole serrano la luna. Sangue, nero.
Silenzio. Dio!
Dio muto e fermo sul
trono.
Non voglio! È vigliacco
morire senza una certezza. Per nessuno; ma per me, per me, non posso ancora
morire. No, sincero, sí, sincero: perché bisogna esprimere questo momento.
Esprimere. Tutta la vita è espressione. E dunque osserva la tua morte con la
calma necessaria, e preparati un efficace stato d'animo. Ma perché? Io vado
avanti. Io sono un poeta. Sí, vado avanti, certamente. Il mare è in fiamme. Il
cielo è grande. Notte, buona sorella, un po' di vento va e viene. Come sarebbe
quieto dormire.
Notte! voglio te, mamma!
non venga la luce, non voglio l'alba.
Ho strappato tutte le
peonie di Lipizza, piena la mantella, e le ho versate sulla sua tomba. Mamma,
di' che non facciano strepito, vado a dormire. Arrivederci, mucci, addio. Per
la strada venivano tutti gli asinelli carichi di latte. Erri! erri! Quasi
montavo su uno perché ero stanco. Che effetto fa, tornar di lassú e per le
scale puzza d'olio bruciato, non so che odore. Ma chi sta in questo casamento
enorme? No, no, grazie, non ho fame. A rivederci.
Ora ha vinto la pioggia.
Un respiro caldo di vento fa tremare i fogli sparsi sul tavolo, un respiro
umido, di malato.
Dalle stanche nuvole
s'infiltra la pioggia, giú per l'aria. Tutto s'ingrigia in un languore
d'affanno e la gente cammina senza meta nelle silenziose strade lunghe.
Torniamo alla vita cosí,
rassegnati e muti, perché forse è meglio, e il dolore e la gioia sono vani.
Finiti gli studi, tornerò
a Trieste, e farò il professore. Io non ho molti bisogni, vivo con poco, e il
piú sarà per le sorelle. Alle domeniche andrò dagli amici e passeremo un po' di
tempo insieme, seduti vicini, chiacchierando affettuosamente.
Questa buona figliuola è
cosí felice che sono venuto, dopo tanto tempo!, a trovarla. Mi prende le mani
guardandomi con tanto affetto; e non chiede e non è curiosa. Forse ella sa, ma
mi lascia godere in pace il tepore della stanza riscaldata e la tranquillità
della sua casa.
«Berremo una tazza di tè,
vuole? Aspetti: dico di non essere in casa per nessuno, sono cosí contenta!» Ma
no, perché? Anzi, ho voglia di vedere un po' di gente e discorrere con loro.
Son rimasto qualche giorno lontano. Ho sofferto un poco; ma ora mi son rimesso
quasi completamente. Beviamo il suo buon tè, aspetti, questo biscotto è piú
buono.
E cosí mentre si sta
chiacchierando da buoni amici, viene una signorina, porta nuovi discorsi, si
parla, anche si discute. Poi io saluto affettuosamente e torno a casa e sorrido
ai miei e gioco con loro. Essi sono contenti.
A poco a poco,
meravigliandosi l'un l'altro, tornano a parlare con voce naturale, senza
guardarmi piú di sfuggita e chinare la testa sulla tavola, imbarazzati, non
sapendo che dire. Ora a poco a poco la vita nostra riprenderà l'usato tono,
vedrai mamma; anche lavorerò. Sono un po' cambiato, è vero, ma tornerà anche la
speranza, aspettiamo un poco.
Ma l'anima mia benedetta
ha ancora tanta forza da negare duramente, no, no! cosí, no. Via dagli uomini
finché tu non li ami. Via! rispetta almeno il tuo dolore.
Meglio questa scrosciante
piova sul mio capo, e tornare lassú, magari per sempre.
I cani di notte! Vengo su,
via dalla città, dimenticando per la fatica di metter un piede davanti
all'altro, e non sento frondeggiare gli alberi lungo la mia salita, non vedo
queste piccole case solitarie, serrate e sbarrate come per un assassino
notturno che sempre sia pronto. Cammino. La via è acquitrinosa. Non so della
città che dorme o luccica o impazza dietro le mie spalle. Non so del cielo.
Cammino nella fedele oscurità, svoltando perché il viottolo svolta - e sempre
mi pare che stia per finire e io mi trovi chiuso dove non si può piú andare
avanti. Cammino. La smania dell'incerto, l'ansia dei muscoli hanno ingoiato il
dolore. Penso semplicemente di metter bene il piede per non sdrucciolare. Ah
l'oblio, l'oblio in questo andare anelante, col petto proteso in avanti per
sbilanciare in su tutto lo stanco corpo! Il sangue mi batte rotto nelle tempie.
Piú presto! E d'improvviso, nell'orecchia, qui sul capo, l'urlo vigliacco d'un
cane.
Un urlo rauco, furibondo,
quasi disperato. Un urlo di vendetta per le inutili notti di veglia. L'anima si
riscote e trema. Che cosa faccio qui a quest'ora? All'urlo risponde il cane
vicino che non aveva sentito il mio passo silenzioso, e un altro dirimpetto,
l'altro piú in su, giovane, allegramente. È dato l'allarme. E subito tutto
l'anfiteatro di colli è sveglio, e la notte ulula e ringhia contro questo mio
povero passo che evitava lo stelo secco per non svegliare, per passare via,
andar solo e ignorato. Una finestra s'apre cautamente, io m'allontano impaurito
come colto sul fatto.
Tutto è di nuovo presente.
Torna il dolore e l'angoscia. Ho paura. C'è troppe cose ignote, gravide
d'oscurità, intorno a me. Sono veramente in un bosco? Non fui mai qui. Non
trovo nulla d'amico. Tocco i tronchi umidi e gommosi - è un frassino, certo,
questa scorza liscia come pelle. Non senti? Cade una piova di piccole corolle
bianche, come perle minute. Tutto è riposo. Non muoverti. Non disturbare.
Eppure qualcosa è sveglio.
Scricchiola e crepita leggermente. Che è che anche di notte non dorme? Non fa
vento; l'aria pesante era ostacolo all'andare. Sto fermo e ascolto senza
respiro.
Chi è nascosto nel bosco?
Ma ho il mio coltello qui. "Chi è?"
Nulla. E tremo di questo
mio vagabondare notturno, in posti deserti dove solo chi deve nascondersi cerca
il suo letto! Come se io meditassi qualcosa contro gli uomini. No, no! Ecco,
vedo la bragia della sigaretta, scende un uomo. Mi passa accosto con cautela,
guardandomi di sfuggita. Perché ha paura? Ma io non gli faccio niente! io sento
il suo passo allontanarsi e perdersi... ora è già nella sua casa, accende il
lume e guarda i suoi figlioli che dormono.
Io? Neanch'ella dormiva.
Anch'ella era sola e dolorosa. Io veglio la sua notte. Io batto i boschi e le
macchie come un guardiano notturno in cerca dell'assassino. Io non tollero che
la notte nasconda nessun malfattore nella sua ombra nera. Dalla sera all'alba
io cammino cercando, e alla mattina mi butto sotto un albero e aspetto fino
alla sera. Una volta o l'altra lo devo trovare. Fino allora non ho diritto di
dormire la notte. Anch'ella non dormiva.
La notte ella balzava dal
letto e spalancando la finestra avrebbe voluto star sola col vento nella sua
angoscia. Guardava le scure masse del carso diffondersi davanti a lei, ma
laggiú per le strade camminano, cianciano e si fermano per discutere di
politica e d'affari quelli che camminavano e si fermavano lí, sotto la sua
casa, quelle notti.
Si sdraia accanto alla
moglie grassa. - Sogna che venti giovanotti elegantissimi le si accalcano
intorno ammirati del suo cappello nuovo. - S'inquieta perché non seppe vendere
quelle casse d'agrumi. - Pensa che finalmente le vacanze universitarie sono
finite, e si ritorna a Vienna. - Chissà perché la sorella ha guardato cosí
fisso quell'uomo? - Bisogna che tu sia piú cortese con lui.
Questa è la vita che
esigeva il suo sorriso. Ella doveva esser allegra. Ella aveva tutto. C'era uno
perfino che studiava i segni di lapis sui libri ch'ella leggeva, e sapeva tutte
le strade dove passava ogni giorno. Tutto ella aveva. E si ammazzò.
Ah! - È lucido il mio
coltello, natura! Gli occhi vi si specchiano come in volto fraterno. La sua
lama è pura di macchia come punta di piccone. Acciaio di Solingen, manico di
corno, serramanico durissimo. Fedele e vigile compagno delle mie notti, ficcati
dritto nella terra accanto alla mano destra. Silenzioso e sicuro. Io chiesi un
temperino a un'amica; essa mi portò questo quindici centimetri di acciaio.
Silenzioso s'arrotò sui rami e sui tronchi. Ora ride di freddo e di tormento.
Silenzioso vuoi riscaldarti? Tu mi bruci le labbra dal freddo.
Ricordi quella notte? Era
caldo, no, dentro la faina? Come la infiggemmo! Sussultava torgendosi rotta
come una biscia, e tentava di strattarti dalla terra. Ma io, ridendo
benignamente, le sputavo fra i denti fradici di sangue, e ti aiutavo da buon
fratello affondandoti col pugno, sicché il tuo manico incassava un solco sempre
piú fondo nella schiena stroncata, e la sua pancia s'appiattiva contro il
suolo, il suo strido s'inveleniva come un cantino sempre piú strinto piú
strinto. - Stinc! Hai dimenticato? i suoi bei mostacchi da ratto! Rigido d'ozio
tu sei! o via! Ecco che nel frassino tu fai il tuo netto incasso triangolare, e
ne geme un succo biancastro come sangue marcito. - Come? Eh, eh! tu hai sete di
piú buon liquore, Silenzioso! La vendetta dissecca. Vieni qua: dammi un bacio!
Come tu ridi! Caro. Zitto! La torre municipale batte l'ora. Va bene: è proprio
l'ora. La città schifosa è laggiú, nel fumo e nella luce. Andiamo, Silenzioso.
Natura, io ti ringrazio.
Tu m'hai fatto libero, e ti ringrazio. Io ero pieno di legge e di dovere. Io
sapevo cosa era la bontà e cos'era il male. Ma tu mandi gli uomini cattivi e
poi mandi altri uomini per vendicarti di essi. Li strappi, con un piccolo atto,
dalle preoccupazioni del mondo, e li fai tutti tuoi, per la vendetta. Tu fai
morire i buoni per i tuoi giusti fini. Tu ci fai spremere d'angoscia per i tuoi
giusti fini. Tu ci crei e ci annienti per i tuoi giusti fini. Natura tu sei dal
principio dei tempi giusta, e io ti ringrazio d'avermi fatto nascere. Io
t'obbedisco, o divina e buona natura.
Che vuoi con questo tuo
bimbo sano che fai crescere nell'amore di te? Aspettiamo che cresca, vuoi?
Aspettiamo che venga su e lavori e ami. Ora riposa. Lascialo riposare, natura.
Egli ti vede bella come la sposa e parla con santità di te. Quel piccolo
bambino crede, t'assicuro. Egli crede, e bacia i fiori che incontra per i campi
e saluta gli uomini meravigliandosi della loro bellezza. Egli guarda come
lavora il fabbro e come mettono il lastrico nelle vie. Egli ha voglia di
sedersi insieme ai forti facchini sul carro che corre e aiuta la donna a
mettersi il mastello in testa. Egli ha voglia di aiutare gli uomini. Lasciamolo
crescere. Io ho tempo, molto tempo, aspettiamo. Qui, qui in questa grande casa
verde è nato. Non credete? Perché mi guardate negli occhi? È già l'alba? Presto
rosseggia laggiú. Bisogna far presto. Ma non guardatemi cosí, non temete
affatto! Io sono un bimbo che aspetta, che ha tempo, che ha tanto tempo, e
aspetta di crescere e di amare. Toccate come sono già fredde le mie mani, sono
un pezzo di carne gelata. Ho freddo. Datemi un po' di fuoco e un po' d'acqua,
vi prego. Ma non sentite, non sentite come patisco, fratelli? Lasciatemi
dormire qualche ora sul vostro letto, perché sono assai stanco.
Sto seduto in riva allo
stagno dove le armente vengono a bere, allungo la mano, prendo un sasso e lo
butto nell'acqua. Il sasso fa un tonfo motoso e sparisce.
Cammino a testa bassa,
scoprendo i pezzettini di vetro, il filo di paglia, i batufoletti di capelli
mischiati con la ghiaia.
Rompo uno zolfanello in
due, prendo il temperino, taglio i pezzi per lungo, taglio i nuovi pezzi; poi
butto via tutto.
Avrei voglia di fresche
perline da infilare con l'ago.
Non riposerai. Questo ti prometto.
Lavorerai piangendo dal disgusto, ma lavorerai.
Sei stanco, e forse non
puoi far piú nulla. Le tue mani non sono piú abbastanza forti per il martello;
il tuo cervello è annebbiato. Sei una bestia ferita a morte che cerca un
nascondiglio per crepare. Sta bene. Ma lavorerai.
Tu non sai niente. Un
piccolo atto incomprensibile ha disperso le meschine verità che t'eri
racimolato a schiena curva. Sei solo e nudo. Sei inerte. Sei davanti a un
mistero che ti sarà impenetrabile per sempre. Sta bene. So. Ma lavorerai.
Non sai perché l'erba
cresce e il mondo esista. Non sai se il mondo esiste o no. Non sai cosa tu sei.
Può essere che l'universo sia nato da una maledizione. Il tuo dannato lavoro
sarà, forse, eternamente vano. Ma lavorerai, come se tu fossi l'ultimo dei
rimasti.
Dopo - non so se vi sarà
riposo. Ma ti prometto che qui non avrai riposo. Qui lavorerai. Questo è certo.
Io voglio rifarmi forte e
duro. L'aria del carso ha già sfregato via dal mio viso il color di camera. I
polmoni tiran piú lungo la fiatata. La schiena sente poco i sassi. Io amo il
corpo robusto, capace di patire, di resistere, di lavorare. I deboli mi fanno
schifo, come creature dipendenti dalla pioggia e dal bel tempo. Salute è
condizione di libertà. Le malattie vadano da chi è abituato a stare in letto -
diceva mio zio - e non mi vengano a rompere le scatole.
Mi fa piacere poter
stroncare sul ginocchio un tronco di nocciolo, e buttar venti passi lontano la
pietra che quasi non posso alzar fino alla spalla. Mi fa piacere ricordare che
una volta c'erano uomini che sradicavano un quercione dalla terra per
servirsene di bastone.
Buona cosa è poter
difendere col proprio pugno la propria vita. Non amo il revolver; non saprei,
forse, sparare contro un uomo. Difendermi a coltellate, sí.
Vivrei quassú in carso,
solo.
Forse troverei la mia vera
Vila, Carsina. Lei non doveva morire. Credeva che io fossi tutto forza e bontà.
Io non sono forte. Io ho bisogno d'amare come tutti gli uomini. Io voglio la
vita piena, completa, col suo fango e i suoi fiori. Io non sono fedele alla
morte. Io voglio bene alla carne sana, piena di sangue e di prosperità. Io
voglio bene alla mia carne.
Carsina sarà dritta e avrà
i capelli un po' resinosi come i ciuffi dei ginepri primaverili. Denti bianchi
e aguzzi, per mordere. Elastica alla vita da rovesciarsi in una rossa risata
col capo all'ingiú sotto la mia stretta. Sarà bello svegliarsi alla prima alba
e vedere i piccioli delle foglie e il cielo bianco tra esse.
Baciarci nella rugiada.
Carsina, finché tu sarai giovane io vivrò quassú solo con te.
Io avrei dovuto vigilare
nel suo sonno come un cane nella camera del padrone perché nessuno v'entri.
Avrei dovuto tenermela tutta nelle braccia, e radicarla nella terra. Quando la
baciai non seppi pensare che nel suo cuore poteva essere il pensiero di morte.
Io non l'ho capita. Ora non è dolore, ma punizione. Accetto e non mi lagno. Non
patisco.
Il male sussulta di tratto
in tratto in me anche nel sonno, nel torpore e nella stanchezza fisica. Io
credo anche dopo la morte. C'è un grumo sanguinoso dentro il cervello che non
mi permette di pensare limpidamente.
Creatura, io benedico il
giorno che sei nata e il giorno che hai voluto morire. Non chiedo e non urlo.
Io so che tu sei morta ferma e sicura.
Le piccole parole non
possono spiegare la tua morte. Ma ogni buon atto nostro viene da te, e tu
continui a vivere nel laborioso amore. Cercheremo d'esser degni di te. La
nostra opera è tua, e se possiamo esser contenti di lei, il tuo sorriso ci dà
gioia e pace. Noi ti ringraziamo, sorella, e amiamo la tua morte come abbiamo
amata la tua vita.
Tu non conosci il mistero,
ma anche il dolore che ti fermò gli occhi sul nulla è parte di esso; e se tu lo
esprimi sinceramente, una parte del mistero è svelata. Perché dal fiore tu
conosci le radici, non dalle radici la pianta. Se il tuo dolore è inerte, che
vale il tuo dolore? Allora esso è vano, e tu, la tua vita, e il mondo. Come
nella sacra forma umana tu devi cercare il mistero, cosí il dolore e la gioia
sono lo sformato nulla da cui tu devi estrarre un nuovo mondo. Se tu fai, il
tuo dolore ha preparato agli uomini una piú intensa eternità.
Perché non sai cos'è il
bene, ma senti chiaramente cos'è il meglio. Il patimento è buono, se esige da
te un piú profondo dovere. Cosí tu ti allarghi nel mistero, nutrendoti di lui,
e le sue tenebre diventano sole nella tua anima.
Per questo, che tu devi
essere piú buono, tu sei uomo fra gli uomini. Ora li puoi amare perché hai
sofferto e disperato. Benedici il tuo dolore e scendi, sereno e severo, fra
essi.
Sono disteso nell'erba.
Sugli occhi mi sventola il sole con il tremolio soffuso degli olivi. Giunge
giunge pieno di salute e di gioia il maestrale dell'Adriatico. Abbrividisce il
verde mare di Grignano, e sprazza in innumeri fiamme e scintille dorate, e la
fresca pace mi penetra disciogliendomi come terra di marzo. In bocca balza un
canto ingenuo e scomposto.
Come il corpo s'adagia
avidamente sulla terra! Le braccia si distendono grandi su di essa, e il mio respiro
si fonde come una preghiera nell'infinita aria gioconda.
Madre, madre! s'io ti
maledii, tu m'accogli piú amorosa e serena. I tuoi alberi giovinetti mi
circondano sussurrando in coro e crepita e sciaborda il frumento verso il
ciuffo rosso del giunco, mentre dalla nera verdura i pomi tondeggiano e
s'acquattano all'alitare delle vespe e dei moscerini tramanti a punteggi e
sbalzelli il fondo azzurro. E via, d'uno scatto e un trillo si buttò sul mare
lo scassacodola.
Dolce è riposare cosí,
amando delicatamente questa lunga erba, e palpitare persi con lo sguardo nel
cielo. Io sono una dolce preda desiderosa d'inghiottirsi nella natura.
Carso, che sei duro e
buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e all'agosto, mio carso, rotto e
affannoso verso una linea di montagne per correre a una meta; ma le montagne si
frantumano, la valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo.
Tutta l'acqua s'inabissa
nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla roccia bianca, gli
occhi vacillano nell'inferno d'agosto. Non c'è tregua.
Il mio carso è duro e
buono. Ogni suo filo d'erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore
ha bevuto l'arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e il suo miele
odoroso.
Egli è senza polpa. Ma
ogni autunno un'altra foglia bruna si disvegeta nei suoi incassi, e la sua poca
terra rossastra sa ancora di pietra e di ferro. Egli è nuovo ed eterno. E ogni
tanto s'apre in lui una quieta dolina, ed egli riposa infantilmente fra i
peschi rossi e le pannocchie canneggianti.
Disteso sul tuo grembo io
sento lontanar nel profondo l'acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e
fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città.
L'acqua delle tue grotte
io amo che s'incanala benefica per le strade dritte. Amo queste donne carsoline
che stringendo fra i denti, contro la bora, la cocca del fazzolettone, scendono
a gruppi in città, con in testa il grande vaso nichelato pieno di latte caldo.
E la striscia bianca dell'alba, e il bruciar doloroso dell'aurora fra la caligine
della città.
Qui è ordine e lavoro. In
Puntofranco alle sei di mattina l'infreddito pilota di turno, gli occhi opachi
dalla veglia, saluta il custode delle chiavi che apre il magazzino attrezzi. I
grandi bovi bruni e neri trainano lentamente vagoni vuoti vicino ai piroscafi
arrivati iersera; e quando i vagoni sono al loro posto, alle sei e dieci i
facchini si sparpagliano per gli hangars. Hanno in tasca la pipa e un pezzo di
pane. Il capo d'una ganga monta su un terrazzo di carico, intorno a lui s'accalcano
piú di duecento uomini con i libretti di lavoro levati in alto, e gridano
d'esser ingaggiati. Il capo ganga strappa, scegliendo rapidamente, quanti
libretti gli occorrono, poi va via seguíto dagli ingaggiati. Gli altri stanno
zitti, e si risparpagliano. Pochi minuti prima delle sei e mezzo il meccanico
con la blusa turchina sale sulla scaletta della gru, e apre la pressione
dell'acqua; e infine, ultimi, arrivano i carri, i lunghi scaloni sobbalzanti e
fracassanti. Il sole strabocca aranciato sul rettifilo grigio dei magazzini. Il
sole è chiaro nel mare e nella città. Sulle rive Trieste si sveglia piena di
moto e colori.
E levan l'ancora i grossi
piroscafi nostri verso Salonicco e Bombay. E domani le locomotive rintroneranno
il ponte di ferro sulla Moldava e si cacceranno con l'Elba dentro la Germania.
E anche noi ubbidiremo
alla nostra legge. Viaggeremo incerti e nostalgici, spinti da desiderosi
ricordi che non troveremo nostri in nessun posto. Di dove venimmo? Lontana è la
patria e il nido disfatto. Ma commossi d'amore torneremo alla patria nostra
Trieste, e di qui cominceremo.
Noi vogliamo bene a
Trieste per l'anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri
piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute.
Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere. E se da queste piante d'Africa e
Asia che le sue merci seminano fra i magazzini, se dalla sua Borsa dove il
telegrafo di Turchia e Portorico batte calmo la nuova base di ricchezza, se dal
suo sforzo di vita, dalla sua anima crucciata e rotta s'afferma nel mondo una
nuova volontà, Trieste è benedetta d'averci fatto vivere senza pace né gloria.
Noi ti vogliamo bene e ti benediciamo, perché siamo contenti di magari morire
nel tuo fuoco.
Noi andremo nel mondo
soffrendo con te. Perché noi amiamo la vita nuova che ci aspetta. Essa è forte
e dolorosa. Dobbiamo patire e tacere. Dobbiamo essere nella solitudine in città
straniera, quando s'invidia il carrettiere bestemmiante nella lingua compresa
da tutti attorno, e andando sconsolati di sera fra visi sconosciuti che non si
sognano della nostra esistenza, s'alza lo sguardo oltre le case impenetrabili,
tremando di pianto e di gloria. Noi dobbiamo spasimare sotto la nostra piccola
possibilità umana, incapaci di chetare il singhiozzo d'una sorella e di
rimettere in via il compagno che s'è buttato in disparte e chiede:
"Perché?".
Ah, fratelli come sarebbe
bello poter esser sicuri e superbi, e godere della propria intelligenza,
saccheggiare i grandi campi rigogliosi con la giovane forza, e sapere e
comandare e possedere! Ma noi, tesi di orgoglio, con il cuore che ci scotta di
vergogna, vi tendiamo la mano, e vi preghiamo d'esser giusti con noi, come noi
cerchiamo di esser giusti con voi. Perché noi vi amiamo, fratelli, e speriamo che
ci amerete. Noi vogliamo amare e lavorare.
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