Scoprire la
bellezza della fede
Tarcisio
Bertone, arcivescovo di Genova
Cari giovani, la
GMG è diventata dal 1985 un appuntamento che segna ormai la vita dei cristiani,
non tanto come una avventura spensierata per una delle tante occasioni di
aggregazioni giovanili (per incontrare un cantante o un campione sportivo di
motociclismo o di formula uno), ma come un cammino da vivere con tappe e
strumenti impostati in percorsi condivisi. Si tratta di una ricerca sincera e
determinata che porta a scoprire «il tesoro nascosto e la perla preziosa»:
Cristo nostra speranza, e il Suo progetto di vita.
Così possiamo vedere la messa a fuoco del pellegrinaggio per le strade della
storia contemporanea, come prima missione di strada, e la centralità della
persona di Gesù e della sua vita dopo la Giornata di Denver; la gioia di essere
cristiani e la missionarietà ad gentes dopo quella di Manila; il coraggio della
proposta della fede nelle culture moderne con stile laicale dopo Parigi; la
gioia di vivere nella comunità credente e la genialità dell'apporto dei giovani
alla vita della Chiesa e del mondo dopo Roma. Nell'aprile del 2003 si è fatto
il punto sulle GMG, confermando che questi eventi sono momenti che rivelano la
qualità della fede, quella dei giovani e quella degli educatori. «Grazie alle
GMG è cresciuta una nuova generazione di giovani che hanno bisogno di una nuova
generazione di formatori, siano essi sacerdoti, religiosi, religiose, laici o
laiche. Una generazione nuova per i metodi, per i programmi, per l'entusiasmo!
Il settore della pastorale giovanile, forse più di ogni altro settore pastorale
della Chiesa, non solo non consente pause nella testimonianza di Cristo, ma
esige che questa testimonianza sia nella sua autenticità e nella sua stessa
credibilità costantemente all'altezza di aspettative sempre severe. Chi lavora
con i giovani sa bene quanto sia facile deluderli, quanto poco basti per
perderli!» (mons. S. Rylko, presidente del pontificio Consiglio per i laici).
Infatti la maggior parte delle inchieste sui giovani e la religione oggi
confermano che essi sono figli degli adolescenti degli anni 1960 e 1970, che,
ai loro tempi, hanno scelto di non trasmettere sempre quello che essi stessi
avevano ricevuto nella loro educazione.
Hanno lasciato quindi che i figli se la sbrogliassero da soli sul piano morale
e spirituale, senza altra preoccupazione educativa che quella di badare alla
loro realizzazione affettiva. Così in molti casi li hanno lasciati privi di
riferimenti spirituali, abbandonati a se stessi. Questo atteggiamento ha
prodotto giovani che non hanno alcuna formazione e ancor meno cultura
religiosa. La religione li attira e allo stesso tempo li inquieta quando viene
presentata come fonte di radicalità di impegno nel mondo. In una società che,
per diverse ragioni, coltiva il dubbio e il cinismo, la paura e l'impotenza,
l'immaturità e l'infantilismo, alcuni giovani tendono ad aggrapparsi a modalità
di gratificazione primarie e hanno difficoltà a diventare maturi. Invece la
maggior parte di quelli che partecipano alla GMG esprimono benessere e gioia di
vivere, stupiscono per il sorriso e la gentilezza, la cooperazione e
l'apertura. Vivono esperienze e fallimenti, ma hanno sete di qualcosa di
diverso. La società europea, sempre più vecchia, scettica e senza speranza, è
colpita da questi giovani che credono in Dio e cercano di vivere di conseguenza
(Cfr. Testimoni, 14/31 luglio 2005, p.1-3).
1. CON
LA PEDAGOGIA DEL PELLEGRINAGGIO
Una
recente ricerca ci dice che la religiosità giovanile, quale si manifesta nei
giovani delle GMG, è assimilabile al modello del cercatore e del pellegrino, di
colui cioè che è in cammino e che quindi non può mai dire di aver raggiunto una
meta; che tende a considerare ogni esperienza come una tappa del proprio
itinerario di fede. La scelta di questa figura è emblematica di una religiosità
in movimento, che fa della mobilità esteriore il riflesso di quella interiore. Si
è alla ricerca di nuove esperienze religiose come occasioni di arricchimento
del proprio vissuto di fede. I giovani interpretano la fede più come un
processo e un dinamismo che come una conquista già realizzata. In questo senso
la GMG intende dare una risposta esemplare e pedagogica. A fronte di un
atteggiamento critico e selettivo nei confronti dell'appartenenza cristiana, il
vissuto della Giornata conduce a un giudizio positivo nei confronti della
comunità cristiana, di cui si percepisce la vicinanza e l'attenzione ai bisogni
e ai linguaggi della gente e dei giovani. A fronte della sensazione di
isolamento e marginalità collegata alla vita quotidiana, essa consente di
provare l'euforia della condivisione con un gran numero di giovani di
esperienze e contenuti della vita di fede, in una città finalmente accogliente
e "simpatica". A fronte della tentazione di una spiritualità
fai-da-te e intimista, la Giornata ripropone con forza la centralità della
parola di Dio e risveglia il bisogno di formazione in relazione ai contenuti
della fede. La GMG rivela infine il ruolo di "servizio pubblico"
svolto dalla Chiesa in numerosi settori della vita sociale, nella misura in cui
contribuisce a costruire una società più tollerante e più solidale, partecipando
così all'educazione ai valori comuni. Costituisce quindi un mezzo straordinario
di evangelizzazione del pianeta giovani, perché appare come una risposta
adeguata alle loro attese, soprattutto grazie alla pedagogia adottata. Essa
infatti mira a far vivere al maggior numero possibile di giovani un'esperienza
spirituale ed ecclesiale, secondo una proposta kerigmatica, sacramentale e
catechetica della fede, non relegando la dimensione religiosa nel reparto degli
optional della vita, nel campo del nascosto e del privato. A questa
privatizzazione della vita religiosa i giovani hanno già risposto
"no" proprio in occasione delle GMG.
2. IN
RICERCA CON EDITH STEIN (1891-1942)
Venendo
a Colonia, che non è solo la città dei Magi, ma anche la città del Carmelo in
cui entrò Edith Stein nel 1933, dopo un appassionato percorso di ricerca, è
naturale che ci ispiriamo a Edith Stein come a modello di ricerca della verità
e di cammino nella Fede. È proprio la parola «ricerca» che può riassumere la
sua vita: la sua ricerca e un'altra ricerca che si intreccia mirabilmente con
la sua, cioè la ricerca di Dio su di lei, quella che Cristo fa su ogni persona
che viene in questo mondo, su ogni uomo: «fissatolo, lo amò» (Vangelo del
"giovane ricco": Mc 10,21). Sentiamo il racconto autobiografico di
Edith Stein. Fin da piccola volevo sapere: ai miei sei fratelli e sorelle
facevo fare ogni giorno il resoconto di quello che imparavano a scuola.
Pensate, per la scuola ho pianto: nel senso che volevo andarci anche se non
avevo ancora l'età per farlo!
La scuola mi ha dato tanto, come mi dava tanto mia madre, che mi aveva
introdotto alla fede di Israele a cui aderiva con tutta se stessa.
A 14/15 anni sono andata in crisi: mi sembrava di aver già spremuto tutto ciò
che potevo sia dalla scuola che dall'ambiente familiare. Leggevo e studiavo
tantissimo per conto mio, ma ho rischiato di non finire le superiori. La fede,
poi ho proprio deciso di rifiutarla: ho deliberatamente scelto di non pregare
più. Accompagnavo mia madre in sinagoga, ma mi limitavo a osservare la sua
preghiera. Io credevo di dover cercare altrove, fidandomi soltanto della mia
ragione: la mia unica preghiera era la ricerca della verità. Ed è per questo
che mi sono iscritta all'università, prima a psicologia e poi a filosofia: la
mia ricerca di un punto fermo mi appariva, in alcuni periodi, addirittura
angosciante. Ho incontrato sulla mia strada il più grande filosofo europeo di
quel tempo, Edmund Husserl, che personalmente non era credente ma che ha
insegnato un metodo a me e a tanti altri che poi si convertiranno al
cristianesimo: ritornare alle realtà. Essere leali di fronte ai fatti. Cioè
liberarci dai pregiudizi, non scambiare la realtà con le nostre misurazioni,
come fa certa scienza, o con le nostre emozioni. Osservare la realtà è stato,
ad esempio, vedere una donnetta, con la cesta della spesa, entrare nel Duomo di
Francoforte, dove io ero entrata come turista, e soffermarsi per una breve
preghiera. Ciò fu per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e
nelle chiese protestanti, che ho frequentato, i credenti si recavano alle
funzioni. Qui però una persona era entrata nella chiesa deserta, come se si
recasse a un intimo colloquio. Non l'ho mai dimenticato. Poi mi sono laureata e
Husserl mi ha voluto come assistente al posto di Adolf Reinach che era stato
chiamato alle armi. Eravamo nel 1917, in piena guerra mondiale. Qui devo
raccontare un altro episodio che mi ha segnata. Un giorno è arrivata la notizia
che Reinach era caduto sul campo di battaglia. Sua moglie, di cui ero molto
amica, mi aveva chiesto di andare a casa loro per confortarla. Ma quando l'ho
incontrata sono rimasta sconvolta dal suo atteggiamento sereno, nel quale ho
intuito immediatamente la forza della fede cristiana a cui lei e il suo
compagno si erano convertiti poco prima che lui partisse per il fronte. Mi si è
aperta all'improvviso la porta di un regno sconosciuto: il regno della speranza
cristiana. Fu il mio primo incontro con la croce e con la forza divina che essa
comunica a chi la porta. Vidi per la prima volta, tangibile davanti a me, la
Chiesa, nata dal dolore del Redentore, nella sua vittoria sul pugno della
morte. Fu il momento in cui andò in frantumi la mia incredulità e risplendette
la luce di Cristo. Cristo nel mistero della croce. E qui posso cominciare a
parlare di un'altra ricerca, quella che ha fatto Cristo per cercare me.
Ho cominciato a informarmi in modo sistematico su quel grande fatto costituito
dal cristianesimo, accorgendomi che non si trattava più di conquistare un
sapere con lo sforzo personale, ma di ricevere in dono. Davvero la mia vita è
cambiata: dal pretendere di afferrare sono passata al lasciarmi afferrare,
mettendoci soltanto docile disponibilità. È stato così anche nella notte della
decisione definitiva: nell'estate del 1921 ero a casa di Hedwig Conrad-Martius,
una discepola di Husserl, convertita assieme al proprio coniuge alla fede
evangelica. Una sera, sola in casa, ho trovato nella libreria l'autobiografia
di Teresa d'Avila. Ho letto per tutta la notte. Quando ho chiuso il libro mi
sono detta: questa è la verità. All'alba sono andata nella chiesa cattolica ad
assistere alla messa. Mi rendevo conto di comprenderla come se davvero
corrispondesse alla mia realtà più profonda. Alla fine ho chiesto al sacerdote
il battesimo, che mi è stato dato il 1° gennaio del 1922. Chi mi cercava mi
aveva raggiunta. Il cammino della fede ci porta più lontano del cammino
filosofico: ci dona Dio, vicino come Persona, Dio che ama e ci usa
misericordia, e ci dà quella sicurezza che non appartiene a nessuna conoscenza
naturale. Anche se il cammino della fede è oscuro. Perché passa dalla croce.
Sono entrata nel Carmelo di Colonia solo nel 1933, perché il mio direttore
spirituale voleva che facessi fruttare i miei talenti nel mondo: nell'attività
di insegnamento, nelle conferenze, nella ricerca. Sono entrata quando ho capito
che l'essere attirati in Dio è contemporaneamente un uscire da se stessi per
andare verso il mondo, con lo scopo di portarvi la vita divina. E si passa
necessariamente dalla Croce. Il Cristianesimo mi ha restituito alle mie radici:
non si può neanche immaginare quanto sia stato importante, ogni mattina quando
mi recavo in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al crocifisso e all'effige
della Madonna: erano del mio stesso sangue. E con quelli del mio sangue, anche
con mia sorella Rosa, carmelitana come me, ho condiviso la deportazione, ad
Auschwitz e la morte nelle camere a gas. Pochi giorni prima della deportazione
mi avevano parlato di fare qualcosa per salvarmi la vita, ma avevo risposto:
«Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel
fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere
la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso
distrutta». Oggi potrei dire che ero pronta fin dal giorno della mia nascita:
il 12 ottobre 1891, quando sono nata, era lo Yom Kippur, il giorno
dell'espiazione, in cui il sacerdote entrava nel Tempio di Gerusalemme per
domandare perdono a Dio per il suo popolo e offrirgli un sacrificio. E il 9
agosto del 1942, quando sono morta, era il giorno del memoriale per la
distruzione del Tempio. No, nella prospettiva di Dio non c'è spazio per il
caso. L'intera nostra vita, ai suoi occhi, costituisce una progressione logica
perfetta. La cui luce ci sarà donata da Lui, quando lo incontreremo. Perché se
noi cerchiamo la verità, anche senza saperlo, cerchiamo Lui. (Da "Una
stella per strada", Quaderni CEI, n. 24, p. 166-167)
3.
SCOPRIRE LA BELLEZZA DELLA FEDE
Benedetto
XVI, parlando al clero valdostano sulla necessità di attirare alla Chiesa i
giovani, ha detto: «È importante che i giovani possano scoprire la bellezza
della fede, che è bello avere un orientamento, che è bello avere un Dio amico
che ci sa dire realmente le cose essenziali della vita. Questo fattore
intellettuale deve essere accompagnato da un fattore affettivo e sociale, cioè
da una socializzazione della fede. Perché la fede può realizzarsi solo se ha
anche un corpo e ciò implica l'uomo nelle sue modalità di vivere… Dato che la vita
sociale si è allontanata dalla fede, noi dobbiamo offrire modi di una
socializzazione della fede, affinché la fede formi comunità, offra luoghi di
vita e convinca in un insieme di pensiero, di affetto, di amicizia della vita»
(L'OSSERVATORE ROMANO, 27 luglio 2005, p. 5). Possono essere considerate come
comunità di alleanza evangelica improntate ad amicizia i gruppi delle
parrocchie, le associazioni religiose, gli istituti pii, le confraternite e
così via. Si potrebbe leggere la storia della Chiesa anche sotto il profilo di
movimenti di fraternità comunitaria, di amicizia, che riflettono le parole di
Gesù: «Questo è il mio comandamento che vi amiate scambievolmente come io ho
amato voi! Nessuno ha amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per
i suoi amici» (Gv 15, 12-13). L'amicizia si presenta come un bisogno presente
in tutti. Perché mai? Perché essa ha la sua origine suprema in Dio ed è
trasmessa nel creato come un dono divino. Il primo uomo non solo è stato creato
buono, ma è anche stato costituito in amicizia con il suo Creatore, in armonia
con se stesso e con la creazione. Un'amicizia purtroppo deturpata dai
progenitori per una condotta contrastante con l'amore divino, ma che in realtà
Dio stesso, dopo la caduta, ha risollevato avendo costante cura del genere
umano, con la promessa della redenzione «per dare la vita eterna a tutti coloro
i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene».
(CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 3).
Dio Padre, dopo aver parlato «nei tempi antichi molte volte e in diversi modi
per mezzo dei profeti, in questi giorni per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2),
continua a far giungere la sua parola ai singoli interlocutori umani come ad
amici: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che
ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Come dono di
Gesù anche lo Spirito Santo, quale presenza amichevole va ingenerando e
risvegliando in noi sempre nuove capacità d'amare, nuove possibilità di
stabilire rapporti di amicizia con ogni persona, trasformando ognuno in un
prossimo amato. E. Van Broeckhoven, gesuita operaio, pregava: «Grazie, Signore,
per avermi fatto comprendere che ogni uomo che incontro, anche per caso, è da
te chiamato a stabilire dei legami di amicizia celeste con me» (cfr Tullo
Goffi, Amore d'amicizia in Dizionario di spiritualità dei laici, Ed. O.R.,
Milano, 1981, p. 22).
«Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto,
ciascuno di noi è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello
che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo di Cristo. Non vi è niente di più
bello che conoscere e comunicare agli altri l'amicizia con lui» (BENEDETTO XVI,
Omelia durante la Messa per l'inizio del Pontificato, 24 aprile 2005). Un
recente libro di Michele Zanzucchi si snoda nel racconto della storia di due
ragazzi genovesi che hanno coltivato una splendida amicizia, aperta e
alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell'ideale
evangelico, che li aveva affascinati. Carlo Grisolia e Alberto Michelotti hanno
vissuto una storia di amicizia fra di loro e con i loro coetanei, in vista
della santità. Facevano parte dei GEN (Generazione Nuova, emanazione del
Movimento dei Focolari). Il Movimento si caratterizza per la sua composizione
in gruppi più o meno numerosi: le "unità GEN", fondate sulla
fraternità evangelica, sinonimo di una sana amicizia; su una convergenza di
ideali e di progetti, su una "comunione" intesa come apertura alla
presenza di Gesù in mezzo, secondo la promessa evangelica: «Dove due o più sono
uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi» (Mt 18,20).
Un desiderio accomunava questi due giovani: mettere Dio al centro della propria
vita. L'intesa e l'amicizia tra Carlo e Alberto aveva quindi radici profonde.
Il poter affrontare insieme (con Gesù presente fra loro) problemi e difficoltà
di ogni giorno, li aiutava a vivere i momenti difficili e a superare la
tentazione di fermarsi e lasciar perdere. Tante volte hanno ricominciato, tante
volte hanno sperimentato la rinascita sempre nuova della vita in loro e attorno
a loro. «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine - ha detto Joseph
Ratzinger alla vigilia della sua elezione a Sommo Pontefice -: l'inquietudine
di portare a tutti il dono della fede, dell'amicizia con Cristo. In verità,
l'amore, l'amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri.
Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri - siamo sacerdoti per servire
altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono
lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli
edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo,
tutte queste cose scompaiono. L'unica cosa, che rimane in eterno, è l'anima
umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità. Il frutto che rimane è perciò
quanto abbiamo seminato nelle anime umane - l'amore, la conoscenza; il gesto
capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del Signore.
Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un
frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in
giardino di Dio» (Omelia Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005).
4. DIO
SOLO
È questo
l'impulso missionario che ha animato il famoso apostolo del deserto sahariano
P. Charles de Foucauld. «Come monaco che vive solo per Iddio, non posso
parlarti né pensarti senza desiderare ardentemente per te l'unico bene che
desidero per me stesso: Dio. Dio conosciuto, amato e servito, nel tempo e
nell'eternità. Perdonami se ti parlo così intimamente. O piuttosto, non ti
chiedo perdono, essendo certo che mi comprendi e mi approvi. Dio è grande, più
grande di tutte le cose che possiamo enumerare. Lui solo merita i nostri
pensieri e le nostre parole. E se noi parliamo, se tu fai fatica a leggermi e
io per scriverti rompo il silenzio del chiostro, lo faccio per aiutarci
vicendevolmente a meglio conoscerlo e servirlo. Tutto ciò che non porta a
questo, conoscere e servire meglio Dio, è tempo perduto. Appena credetti che ci
fosse un Dio, capii che non potevo fare altrimenti che vivere soltanto per lui.
La mia vocazione religiosa data al momento stesso della mia fede. Dio è così
grande ed esiste una differenza tale tra Dio e tutto ciò che non è lui! Desideravo
essere religioso, non vivere che per Iddio e fare ciò che è più perfetto ad
ogni costo. Il Vangelo mi mostrò che il primo comandamento è di amare Dio con
tutto il cuore e che bisognava racchiudere tutto nell'amore». (Da una lettera
di Charles de Foucauld a Henri de Castries 1938)
Atto di abbandono
(Charles de Foucauld)
Padre mio,
io mi abbandono a te,
fa di me ciò che ti piace;
qualunque cosa tu faccia di me,
ti ringrazio.
Sono pronto a tutto,
accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me,
e in tutte le tue creature;
non desidero niente altro,
mio Dio.
Rimetto la mia volontà nelle tue mani,
te la dono,
con tutto l'amore del mio cuore,
perché ti amo.
5. LA
PROVOCAZIONE DEL MODELLO CRISTIANO
Vorrei
rivolgere anche a voi l'augurio che San Paolo rivolgeva ai cristiani di Efeso:
« Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati
nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia
l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di
Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza
di Dio» (Ef 3,17-18). Generazioni e generazioni di cristiani hanno cercato,
conosciuto, approfondito e amato la figura di Cristo "leva della
storia". Le diverse cristologie che ne sono emerse hanno contribuito a
disegnare la poliedrica figura del Salvatore, quale è stata compresa e
interpretata nelle varie culture e secondo il carisma dei Santi che ne hanno
tentato l'imitazione. È un bagaglio di conoscenze e di esperienze che si offre
a noi, cristiani del terzo millennio.
Riassumiamo alcune affermazioni:
1. Cristo viene confessato come il salvatore dell'uomo e la via alla sua
completa divinizzazione;
2. nella sua croce si compie il mistero della redenzione del dolore e della
morte dell'uomo;
3. la sua umanità è vista come il modello e la sorgente di ogni autentico
umanesimo;
4. la sua persona divina è come il fine e il compimento del processo evolutivo
del cosmo e dell'umanità;
5. la sua storia terrena è come luogo privilegiato di dialogo e di offerta
salvifica;
6. il suo evento come la realizzazione dell'intrinseca aspirazione dell'uomo
«uditore della Parola» e «salvato storicamente dalla Parola di Dio incarnata»;
7. il suo messaggio come autentica liberazione da ogni schiavitù, povertà e
ingiustizia;
8. la sua presenza di Risorto come vicinanza provvidente e continua e come
grande ispiratrice della sapienza di vita del popolo semplice e umile,
fermamente ancorato alla celebrazione partecipata e festosa dei suoi misteri di
salvezza;
9. il suo evento come spinta trasformatrice e rinnovatrice della cultura dei
popoli;
10. il suo mistero come il catalizzatore dei più nobili ideali dei giovani, che
lo considerano unico e vero donatore di gioia, libertà e vita.
Certo, anche nell'esperienza cristiana non mancano zone d'ombra come
l'ignoranza, la trascuratezza catechetica, la tentazione sincretistica, gli
indebiti riduzionismi, le accentuazioni unilaterali e le spinte relativistiche.
Sia i pregi che i limiti di questa sommaria mappa cristologica sono, però,
motivo di «rievangelizzazione».
A tutto ciò si dovrebbe aggiungere la cosiddetta «cristologia dei Santi» e cioè
l'interpretazione vitale che i Santi hanno dato di Gesù nella loro esemplare
esistenza personale: come, ad esempio, il Cristo povero e gioioso di Francesco
di Assisi, il Cristo re e maestro di Ignazio di Lodola, il Cristo buon
Samaritano di Giovanni di Dio, il Cristo pastore ed educatore di Giovanni
Bosco. La conoscenza e l'esperienza che i cristiani hanno di Gesù Cristo costituisce
un patrimonio prezioso da trasmettere e da far ulteriormente fruttificare. È
infatti un'eredità che offre spunti sempre validi per la rimotivazione
dell'esperienza cristiana oggi. Sulla base di questa contemplazione di fede
sgorga dal nostro cuore una gioiosa confessione di speranza: «Tu, o Cristo
risorto e vivo, sei la speranza sempre nuova della Chiesa e della umanità; tu
sei l'unica e vera speranza dell'uomo e della sua storia; tu sei tra noi la
speranza della gloria (Col. 1,27) già in questa nostra vita e oltre la morte.
In Te e con Te noi possiamo raggiungere la Verità, la nostra esistenza ha un
senso, la comunione è possibile, la diversità può diventare ricchezza, la
potenza del Regno è all'opera nella storia e aiuta l'edificazione della città dell'uomo,
la carità dà valore perenne agli sforzi dell'umanità, il dolore può diventare
salvifico, la vita vincerà la morte, il creato parteciperà alla gloria dei
figli di Dio!».
6.
L'AMORE A CRISTO FORTE COME LA MORTE
Un autore medioevale, vescovo di Canterbury, ci offre una appassionata
testimonianza dell'esperienza vissuta, dalla conoscenza all'amore di Cristo:
«L'amore che portiamo a Cristo deve essere una specie di morte, in quanto è
distruzione della vecchia vita, abolizione dei vizi e abbandono delle opere
morte. Sia questo amore una specie di contraccambio a Cristo, anche se dobbiamo
ammettere che sarà sempre impari al suo amore per noi e come una sua sbiadita
immagine. Egli infatti ci ha amato per primo (cfr. 1Gv 4,10) e con l'esempio
del suo amore è diventato per noi come un richiamo per renderci conformi alla
sua immagine, spogliarci dell'uomo terreno e rivestirci dell'uomo celeste. Come
ci ha amati, così dobbiamo amarlo. Ci ha lasciato, infatti, un esempio perché
seguiamo le sue orme (cfr. 1Pt 2,21). Per questo dice: «Mettimi come sigillo
sul tuo cuore» (Ct 8,6). Come se dicesse: Amami come io ti amo. Abbimi nella
tua mente, nei tuoi ricordi, nei tuoi desideri, nei tuoi sospiri, nei tuoi
lamenti, nei tuoi gemiti. Non dimenticarti, o uomo, che da me viene tutto
quello che sei. Ricorda come ti ho preferito a tutte le altre creature, a quale
dignità ti ho innalzato, come ti ho coronato di gloria e di onore, come ti ho
fatto poco meno degli angeli, e tutto ho posto sotto i tuoi piedi (cfr. Sal
8,6-7). Ricordati non solo di quanto ti ho donato, ma quante cose terribili ed
immeritate ho sofferto per te. Solo allora potrai capire quanto sei ingiusto
verso di me privandomi del tuo amore. Chi infatti ti ama come ti amo io? Chi ti
ha creato, se non io? Chi ti ha redento, se non io? Togli via da me, o Signore,
questo cuore di pietra. Strappami questo cuore raggrumato. Distruggi questo
cuore non circonciso. Dammi un cuore nuovo, un cuore di carne, un cuore puro!
Tu, purificatore di cuori e amante di cuori puri, prendi possesso del mio
cuore, prendivi dimora. Abbraccialo e contentalo. Sii tu più alto di ogni mia
sommità, più interiore della mia stessa intimità. Tu, esemplare di ogni
bellezza e modello di ogni santità, scolpisci il mio cuore secondo la tua
immagine; scolpiscilo col martello della tua misericordia, Dio del mio cuore e
mia eredità, o Dio, mia eterna felicità. Amen (cfr. Sal 72,26)» - [Dai
«Trattati» di Baldovino di Canterbury, vescovo (Tratt. 10; PL
204,513-514.516)].
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