La verità si
esprime con l'Amore
Rino
Fisichella, vescovo ausiliare di
Roma e rettore della Pontificia Università Lateranense
"Dove
dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che
ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di
me? Lì non v'è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v'è
spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano
e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose
diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno
ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo
tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere
piuttosto ciò che da te ode. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova,
tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo.
Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero
con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non
esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità;
balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua
fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti,
e arsi di desiderio della tua pace" (Agostino, Confessioni,
IX,26,37;27,38).
Questo testo di s. Agostino può creare lo scenario significativo su cui porre
alcune riflessioni che emergono dal tema della nostra prima catechesi:
"Ricercare la verità, senso profondo dell'esistenza". Non dovrà
passare inosservato che il nostro testo inizia con una domanda. Interrogare,
infatti, è il primo atto di chi cerca qualcosa. La nostra conoscenza è sempre
segnata nel suo inizio da una domanda che chiede non solo il "che
cos'è", ma anche "che senso ha?". E' così per la conoscenza
naturale che sorge in noi quando incontriamo qualcosa di cui prima non avevamo
conoscenza, è lo stesso per la conoscenza scientifica che pone domande cercando
di verificare la coerenza delle proprie teorie, è così anche per la conoscenza
di fede quando non cessa di interrogare ciò in cui crede per avere
un'intelligenza che permetta di compiere un atto di libertà. Porre domande è
sempre indice del desiderio di conoscere e richiede una sorte di stupore e
meraviglia perenne che distrugge l'apatia dell'ovvietà e provoca ad andare
sempre oltre quanto abbiamo conquistato.
Come si nota, nel titolo della nostra catechesi ci sono due termini
fondamentali con cui dobbiamo confrontarci: verità e senso; scopriremo,
comunque, che alla fine i termini saranno almeno quattro. E' necessario,
infatti, aggiungere la fede e l'amore come espressioni che sono interne alla
verità e al senso e senza dei quali è impensabile che si possa raggiungere un
significato vero, genuino e coerente. E' bene chiarificare fin dall'inizio che
la verità di cui vogliamo parlare, non è quella dell'evidenza matematica;
sarebbe troppo facile per noi nasconderci dietro una formula numerica che tutto
ingloba, ma lascia passivi per l'impossibilità di poterla modificare. Ciò su
cui vogliamo riflettere non è una teoria, fosse anche la più acuta e profonda
formulata dai filosofi; ciò di cui desideriamo parlare, al contrario, è della
nostra vita quotidiana che chiede di avere un senso per essere vera. Senza di
esso, infatti, sembra mancare qualcosa e tutto diventa approssimativo, frutto
dell'improvvisazione. Può piacere per un po' di tempo, ma poi lascia l'amaro in
bocca, perché si rimane sempre insoddisfatti e la ricerca non può essere
portata all'infinito. Sì, aveva ragione Giovanni Paolo II quando scriveva:
"L'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta
la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa.
In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo,
oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi
ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti
il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria
esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più
sottoposta al dubbio" (FR 27).
La verità, nella concezione del cristianesimo, permane come una domanda
continua che attraversa delle tappe fondamentali fino a sfociare nella sua
pienezza alla fine della storia (cfr. Gv 16). Senza verità, d'altronde, la vita
sarebbe relegata in uno spazio effimero e il rischio di un sopruso del violento
sul debole sarebbe sempre all'erta. La verità, invece, per sua stessa natura
inserisce all'interno di uno spazio di umanizzazione che crea progresso e
permette lo svolgimento coerente dell'esistenza personale. Ma di questi tempi,
è proprio necessario parlare di verità? Non cadiamo nel rischio di farci
classificare come fondamentalisti, solo perché crediamo che alla fine ci sia
una sola verità e questa ha il volto di Gesù di Nazareth? In un clima di
appiattimento che mentre rinchiude nella solitudine dell'individualismo,
relativizza ogni cosa, è davvero necessario parlare di ricerca della verità?
Non diventerebbe forse più facile parlare di verità al plurale e lasciare tutti
contenti di quella piccola verità che hanno raggiunto senza pretendere di
andare oltre?
Come si nota, siamo posti dinanzi a un problema reale che tocca, comunque, in
prima istanza la nostra esistenza storica, quella quotidiana fatta di incontri
e di malintesi, di amore e di incomprensione e tradimenti, di desideri e di
illusioni, di aspirazioni e di incognite, di fede e di speranza… la vita come
la viviamo ogni giorno nel suo fuggire continuo, senza che venga data alcuna
possibilità di fermare il tempo e di ritornare sui propri passi. Dilemma che ci
attanaglia, perché tante volte vorremmo poter tornare indietro e non ripetere
più gli sbagli compiuti oppure avere più tempo per fare con calma le cose che
ci appassionano… invece, no; c'è l'inesorabilità del tempo che ti inchioda alle
tue responsabilità, alle scelte che sei chiamato a compiere senza poterle
rimandare a domani, agli obblighi a cui devi adempiere anche se non vorresti.
Questa vita è oggetto della nostra riflessione nel momento in cui desideriamo
scoprirne la verità profonda. Qui, probabilmente, nasce il paradosso che si
apre dinanzi ai nostri occhi e che provoca la mente a riflettere sul senso di
tutte queste cose. Qui si inserisce anche il nostro essere presenti a Koln per
la GMG; chi per la prima volta e chi per tradizione, chi per convinzione e chi
perché ha seguito gli amici; per qualsiasi motivo siamo qui oggi, questo deve
avere un senso che ci interpella e chiede di essere portato alla luce per
approdare a una scelta di libertà e non lasciare nulla al caso o al destino!
Vogliamo, pertanto, metterci in cammino per verificare personalmente il
sentiero che siamo chiamati a percorrere e scoprire se la bellezza antica e
sempre nuova, di cui Agostino parla, trova risconto anche nella nostra vita di
oggi.
La domanda tra le domande
La vita possiede forme di inesorabilità che tutti conosciamo, perché ne
facciamo esperienza diretta. Una colpisce in modo particolare, perché è
impressa in ciò che possediamo di più personale: il nostro volto. In pochi
centimetri, la natura impegna ognuno a verificare le diverse tappe della vita.
Implacabile come non mai, quella stessa natura che affascina nel momento in cui
ne ammiriamo la possenza delle montagne o l'estensione dei mari, sembra
diventare nemica quando obbliga ogni giorno a verificare chi siamo. Nessuna
illusione sul tempo che passa; il volto lo dimostra e non rimane che prenderne
atto. Con il passare degli anni gravitano sulle nostre spalle anche una somma
di esperienze, positive e negative, che segnano lo sviluppo della nostra
personalità. Il volto che si specchia coglie in un istante il dramma della
vita. Se la certezza accompagna il tempo passato, il futuro è carico di incognite.
Forse, il progresso compiuto dalla scienza non permetterà più che ci si ponga
la domanda: "da dove vengo?"; nonostante tutto, però, rimane immutata
la domanda: "dove sto andando?". Il miracolo dell'inizio della vita
non è ancora stato scoperto, ma già sono poste le premesse per un intervento
sempre più dominate della tecnica sulla natura; eppure, la stessa conquista che
promette di estendere oltre il limite biblico la durata dell'esistenza, non è
in grado di rispondere alla domanda: "cosa sarà di me dopo questa
vita?". Da ogni parte si volge lo sguardo, sembra che le domande sulla
propria esistenza invece di diminuire si accrescono e questo uomo sempre più
potente, si scopre ancora più debole di prima. Paradosso ed enigma a se stesso,
chiede insistentemente che gli venga data una risposta al perché della
sofferenza, della solitudine e del dover lasciare le persone che ama per il
sopraggiungere di una morte di cui non sa il come né il quando. Non possiamo
nascondere che dinanzi a questi interrogativi, diverse tendenze culturali
spingano al cinismo. Perché cercare una risposta se non esiste? Meglio vivere
la vita ogni giorno per quello che concede, senza chiedere troppo al domani. Il
carpe diem di Orazio non è solo dei tempi passati, è di oggi. Basti mettere a
confronto alcuni testi per verificare le stesse posizioni ieri e oggi. È
espressivo il frammento dell'epopea di Gilgamesh conosciuto già 1600 anni prima
di Cristo: «Dove vanno i tuoi passi, Gilgamesh? Non troverai la vita che
cerchi; quando gli dei crearono l'uomo gli diedero in sorte la morte. La vita
trattennero in mano. Gilgamesh, riempiti il ventre, sii felice giorno e notte
fa'che i giorni trabocchino di gioia, balla e fai musica giorno e notte.
Indossa abiti nuovi, lavati il capo e goditi il bagno. Guarda il fanciullo che
ti tiene per mano. Fa' che tua moglie goda del tuo abbraccio. Solo queste cose
riguardano l'uomo». Non dovrebbe essere molto differente la risposta che
migliaia di persone potrebbero dare il venerdì o il sabato notte dopo essersi inebriati,
non solo di decibel, nelle varie discoteche fino alle prime ore dell'alba!
Pascal, secoli più tardi, poneva lo stesso problema con una lucidità tale che
pochi nella storia del pensiero hanno saputo esprimere allo stesso modo:
"Quale chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos,
quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose,
debole verme della terra; depositario della verità, cloaca di incertezza e di
errori; gloria e rifiuto dell'universo. Chi districherà questo groviglio? Che
sarà di voi, uomini che cercate con la vostra ragione naturale qual'è la vostra
vera condizione? Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei dinnanzi a te
stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura inferma: sappi che l'uomo
sorpassa infinitamente l'uomo e apprendi dal tuo Signore la tua vera
condizione, che tu ignori. Ascolta Dio" (Pensieri, 434). Per ritornare ai
nostri giorni, è interessante l'iniziativa editoriale presa dal settimanale Die
Zeit nei mesi scorsi. Il periodico ha pubblicato stralci di lettere che nel
1962 due ragazzi del tutto sconosciuti, Ditmar Gottschall e Silke Siegel,
ricevettero dopo aver scritto una breve lettera a diversi scrittori, chiedendo
loro di aiutarli a scoprire il senso della vita. I due giovani avevano scritto:
"Lei incontra una persona per strada e legge nei suoi occhi una grande e
tormentosa domanda. Si fermerebbe per darle una risposta, pur avendo poco
tempo? Credo fermamente di sì, dal momento che lei è una persona in grado di comunicare
i suoi pensieri agli altri. Io sono quella persona che lei incontra per la
strada, sono giovane e la mia domanda vive in ciascuno dei miei gesti. Lei
pensa che la vita abbia un senso? E se sì, quale senso? So che lei non mancherà
di rispondermi. La verità mi appare ancora inarrivabile, ma è un bene e quindi
io la cercherò. Vuole aiutarmi un po'?". Le risposte arrivarono alla
diciassettenne Silke; questi brevi stralci permettono di comprendere le diverse
posizioni di rinomati scrittori. Max Frisch rispondeva: "Si tratta di una
domanda che tutti ci poniamo almeno una volta nella vita… Faccia conto che la
vita abbia un senso e poi lo cerchi mentre la sta vivendo, oppure osservi le
vite delle altre persone e vedrà che molte di esse valgono la pena di essere vissute…
Se ne faccia una ragione: nella sua vita continuerà a fare esperienze in cui la
domanda si riproporrà, e in cui la vita in se stessa sarà sufficiente e non
avrà uno scopo". Allo scetticismo di Frisch, faceva da eco in maniera
ancora più cinica Raoul Haussmann, pittore e scrittore avanguardista:
"Secondo quanto ho potuto constatare finora, la vita non ha NESSUN senso.
Sarà strano e triste, ma bisogna accontentarsi". Con un marcato accento
positivista, rispondeva l'autore di Congetture su Jacob, Uwe Johnson: "La
vita sulla terra, in merito al suo esistere non ha bisogno di giustificazioni
né di pretesti, ma comprende tutto quanto e molto più di quanto possano
apprendere su di essa quanti la vivono… Alla fine, non abbiamo bisogno di altro
senso se non quello della morte. E fino a quel momento il tempo è a
disposizione di ogni persona". Con pacata serietà l'austriaco Gregor von
Rezzori, autore di Un ermellino a Cernopol, scriveva: "Se lo sapessi,
figliola mia –ma non è così - l'avrei già detto. Ma dal momento che non lo so,
mi tornano alla mente tutte le risposte che ho tentato di dare a me stesso al
tempo in cui avevo l'età che lei ha adesso. E una di queste risposte dice
qualcosa di diverso dalla disposizione in cui si è posta lei. Voglio
proporgliela perché deriva da uno stato d'animo più fiducioso: la vita non ha
alcun altro senso (e non ha nemmeno bisogno di averne) se non quello di vivere…
Non mi chieda un commento: o la risposta le arriva come una verità semplice e
ovvia –e allora lei si trova nello stato d'animo giusto per accogliere il mondo
per quello che è, ma in questo caso avrebbe trovato la risposta anche da sola,
oppure la fa molto tormentare e ciò porterebbe a una rassegnazione che non
lascia alcuna speranza". L'orizzonte, comunque, non è sempre così
impregnato di cinismo. La capacità ad allargare lo sguardo per andare oltre i
soliti gettonati maestri dell'effimero, permette di incontrare molte
espressioni, non solo letterarie, che spingono a rientrare in se stessi e porsi
con serietà le domande che condizionano l'esistenza. Il problema del senso,
d'altronde, non è un'invenzione per dare sollievo ai pochi solitari della
speculazione; è un impegno e un obbligo a cui nessuno può sottrarsi, perché ne
va della propria vita. È vero, un sano realismo chiede di aprire gli occhi e
guardare con attenzione a quanto avviene intorno a noi. È sufficiente camminare
per la strada o salire su un qualsiasi vagone della metropolitana e osservare
il comportamento del nostro contemporaneo per concludere che, fin dall'abbigliamento,
qualcosa di veramente grande è cambiato. Chi dovesse porsi la domanda sul
senso, probabilmente, rischierebbe di essere considerato un marziano dai suoi
coetanei. Non si è solo modificato il modo di vestirsi, ciò che è cambiato è il
modo di pensare e di affrontare i problemi. Il pierceing potrà piacermi o dare
fastidio, un tatuaggio potrà attirare l'ammirazione o il disgusto, ma questi
sono solo segni che chiedono di essere letti se si vuole approdare a una
lettura sul momento culturale che si vive. Inutile nascondere che un
generalizzato senso di narcisismo si è accoppiato con una marcata assenza di
gusto, generando uno squallore che rende evidente la mancanza di una
progettualità capace di coinvolgere soprattutto le giovani generazioni. In
questa "era del vuoto", che sembra estendersi oltre misura, non è
frutto del pessimismo affermare che intere generazioni si stanno bruciando solo
per evitare di chiedere un impegno radicale. Non è lontano il tempo in cui
questi stessi giovani si ergeranno a nostri giudici e, rimproverandoci,
chiederanno il perché di queste scelte fallimentari nei loro confronti. Sarà
difficile in quel momento trovare i veri colpevoli; avranno di nuovo cambiato
gli abiti e con rapidità si saranno trasformati in nuovi analisti e
opinionisti, sempre pronti a scrollarsi di dosso ogni responsabilità. Cedere a
questa voce delle sirene, tuttavia, equivarrebbe per noi ad allontanarsi dalla
missione ricevuta. È importante che ci siano sempre sentinelle capaci di
vegliare e mantenere viva l'attenzione per il futuro.
La
risposta di amore
È estremamente difficile parlare del senso e, soprattutto, dire qualcosa di
sensato in proposito. Per poterlo fare bisognerebbe entrare nell'intimo e
trovare il linguaggio coerente per esprimere quanto in esso vi è depositato. La
gabbia che racchiude il linguaggio, tuttavia, impedisce di esprimere tutto ciò
che è frutto del pensiero e del sentimento. Il mondo in cui viviamo, inoltre, è
già carico di significati; l'uomo, spesso, non pone la domanda sul senso delle
cose, la ritrova già in atto e l'acquisisce perché appartiene al contesto
culturale in cui è inserito. Ci sono evidenze tali che sfociano in un sentire
comune quasi naturale, che impedisce di fornire un senso personale oltre a
quello che è patrimonio di tutti. Parlare di senso, tuttavia, equivale a porre
una questione che per sua stessa natura ha un carattere universale. Non si può
affrontare il problema del senso della vita relegandolo al sentire di una sola
persona; questa domanda se ha senso, deve avere senso per tutti. La stessa cosa
vale nel momento in cui si affronta la vita. Il senso della vita non può essere
frantumato in diversi atti che compongono l'esistenza quotidiana; deve, in
primo luogo, toccare tutta la vita e non unicamente un suo singolo atto. Non
potremmo in pochi minuti rispondere con soddisfazione alla domanda posta dalla
nostra catechesi; la ricerca della verità, d'altronde ha bisogno di un'intera
vita e non solo di un momento; ciò che preme tentare, al massimo, è formulare
una prima risposta che sappia coniugare l'esigenza della ricerca della verità
con il ritrovamento del senso e la possibilità di credere. Sono diversi gli
ambiti in cui sorge la questione del senso in riferimento alla verità della
propria vita. Troppo spesso essa viene posta sotto la provocazione del dolore e
della sofferenza; la domanda sul senso, tuttavia, non dovrebbe nascere in prima
istanza dall'incontro con l'assurdo. Certo, ci sono momenti in cui più
direttamente si percepisce la contraddizione della vita e l'uomo diventa più
sensibile a queste domande, ma il senso dell'esistenza ha una valenza positiva
e deve incontrare ognuno primariamente in ciò che viene sperimentato come
frutto e fine della propria felicità. Bisogna, quindi, puntare lo sguardo
primariamente sui momenti più positivi dell'esistenza per cogliere in essi il
significato che possiedono e quel senso globale che sarà in grado di dare
risposta anche ai momenti più drammatici che la vita comporta.
È in forza di questa considerazione che desideriamo porre la domanda sul senso
dinanzi all'amore. Questo non sarebbe pieno se non portasse con sé la domanda
sul senso. Che senso ha, infatti, amare ed essere amato? Per l'uomo di oggi,
che spesso confonde l'amore con la passione o che sperimenta i fallimenti di
ciò che chiama amore, diventa difficile porsi una simile domanda; eppure, solo
nella misura in cui è capace di dare una risposta all'amore, sarà in grado di
affrontare la domanda sul senso del dolore e della morte. Contrariamente, la
questione del senso sarà sempre sottoposta al ricatto dell'assurdo e non potrà
incontrare l'uomo nell'istanza più personale che è quella della vita e non
della morte. In questo contesto, merita riprendere tra le mani un testo
significativo del Cantico dei Cantici. "Forte come la morte è
l'amore" (8,6) è la conclusione a cui arriva l'ignoto autore sacro.
Dinanzi al masso granitico della morte, che esprime il non senso della vita,
viene a porsi una forza così intima all'uomo, che è in grado di frantumare e
disperdere l'assurdo della morte. Questa è certamente il termine ultimo verso
cui tutto sembra muoversi nell'esistenza personale; qui l'assurdo trova
l'espressione più coerente, soprattutto quando la morte si presenta avvolgendo
tra le sue braccia la vita innocente e indifesa. Se, tuttavia, si trova
qualcosa che è forte e totale tanto quanto la morte, allora ciò significa che
può essere vinta e, quindi, anche distrutta. Qui sorge il volto dell'amore come
forma definitiva in grado di dare senso a tutto. Il testo del Cantico dei
Cantici è un inno all'amore tra l'uomo e la donna. Esso esprime al meglio la
natura dell'amore che proviene dal creato e che trova il suo spazio nella
relazionalità interpersonale. Con diverse immagini e simboli, l'autore sacro
sembra voler portare il lettore proprio a questo versetto conclusivo del suo
libro, che inneggia alla grandezza dell'amore in grado di distruggere la morte
stessa. Il contesto immediato dell'espressione non può essere tralasciato:
"Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo
braccio". La funzione del sigillo, come si sa, è quella di impedire che
qualcosa di intimo e riservato possa essere aperto da mani straniere; esso
serve ad attestare la piena e integra relazione tra i due amanti. È
interessante osservare, in proposito, che le culture antiche –quella
mesopotamica in particolare - ritenevano che questo tipo di sigillo
accompagnasse nella tomba il defunto a testimonianza di un legame talmente
intimo che continuava dopo la morte. Il sigillo, insomma, è tra le cose più
care che una persona possiede e da cui difficilmente ci si separa. Il simbolo
del sigillo, pertanto, porta ad affermare che l'amore tra l'uomo e la donna
possiede il carattere della continuità e della perennità; insomma, è un amore
che non si scioglie, esso dura per sempre e vuole andare oltre la morte. Il
termine "amore", nel nostro testo, non ha l'articolo; è indice di una
sua personificazione. Viene descritto come "forte"; vale a dire, in
grado di affrontare la lotta con la morte. L'immagine che ne proviene, mostra
l'amore nelle vesti di un guerriero e non di una dolce fanciulla, come
l'iconografia è solita rappresentarlo. L'altro guerriero è la morte. Dinanzi a
lei chiunque capitola; non sembra esistere potere, intelligenza, furbizia né
potenza fisica che le si possa contrapporre in maniera adeguata. L'intenzione
dell'autore sacro, tuttavia, sposta lo sguardo altrove. Se è vero che non si
può resistere alla morte, è altrettanto vero che non si può resistere all'amore.
La letteratura, dai greci ai nostri giorni, fornisce un'immensa produzione del
rapporto eros-thanatos; estasi, rapimento, liberazione, sconfitta… sono termini
che ritornano costantemente in questo binomio che sembra destinato a vivere e
perire insieme. Eppure, la Sacra Scrittura permette di andare al di là di
questa semplificazione. Se, infatti, è vero che morte e amore sono legati, è
altrettanto vero che sono nemici e rivali e, quindi, in lotta tra di loro. Ciò
che viene rivelato, tuttavia, è che la vittoria spetta all'amore e non alla
morte. Il cuore del Cantico dei Cantici, che da questa prospettiva prepara
l'intero annuncio della teologia di s. Giovanni e s. Paolo, sta tutto qui: la
vittoria e il trionfo appartengono all'amore e alla vita che sconfiggono la
morte. Insomma, se c'è qualcuno che può vincere il vero, unico e ultimo nemico
dell'uomo, questo è l'amore. Il problema del senso ritrova qui un'ulteriore
tappa da raggiungere; viene chiesto, infatti, di non puntare sulle proprie
sicurezze, ma di affidarsi solo al richiamo dell'amore. Un amore genuino
scaturisce dalla fede e porta la fede alla perfezione; se si vuole, è lo stesso
cammino percorso da Abramo: lasciare tutto per mettersi su una strada che
conduce a un paese di cui non si conosce nulla. In una parola, amore e fede
vivono della stessa natura e puntano allo stesso fine; ciò che viene richiesto
è l'abbandonarsi per raggiungere più facilmente la certezza che esiste qualcosa
e questa non potrà mai essere distrutta né dissolta. Con un'espressione sintetica,
il grande vescovo e martire Ignazio ripete lo stesso concetto: "Quando
queste due cose sono congiunte in unità, lì c'è Dio" (Ad Eph, 14).
L'amore, insomma, deve essere presente fin dall'inizio nella fede e non può
divenire una sua appendice per indicare il fondamento dell'amore al prossimo.
Senza l'amore, la fede soffocherebbe perché si troverebbe costantemente sotto
il ricatto del dubbio, mentre inserita nell'amore vive della sua certezza e
della sua verità. L'atto con il quale si crede, dunque, è già mosso dall'amore
che muove per ricercare il volto della persona amata; anzi, è provocato a
ricercarne le ragioni per cui ama. È in questo legame, pertanto, che interviene
l'atto più significativo e impegnativo per l'uomo: credere. La fede, infatti, si
pone all'origine dell'amore come la condizione previa in grado di accogliere il
mistero che l'amore esprime. Senza la fede, l'amore non potrebbe essere
riconosciuto e nessuno potrebbe abbandonarsi nell'altro in un atto che chiede
di consegnare pienamente la propria vita. Se qualcuno dovesse trattenere per sé
parte della propria vita, l'amore non potrebbe neppure nascere; il sospetto
regnerebbe nel rapporto e il dubbio non permetterebbe di costruire una nuova
esistenza. Solo la fede sa riconoscere l'amore e solo l'amore si affida alla
fede; la reciprocità è condizione di esistenza per l'uno e per l'altro. Non è
vero, quindi, che "tutto termina con la morte"; l'amore spinge a
uscire da sé, a cercare un senso e a trovarlo; proprio come la donna del
Cantico che non si lascia spaventare dall' "inverno" (2, 11) e dalla
"notte" (3, 1), ma va incontro alla "primavera" (cfr 2, 12)
e in cerca dello "sposo" (3, 4) perché è "malata d'amore"
(2, 5). La vittoria della vita sulla morte trova nel mistero pasquale di Cristo
l'espressione culminante e la risposta alla domanda di senso raggiunge il
culmine oltre il quale non si può andare per avere un'ulteriore certezza. Chi
ama veramente, sa che deve perdere la propria singola verità, che deve
rinunciare alla sua libertà e, alla fine, poter donare la sua stessa vita; è in
questo senso che diventano chiare le parole di Gesù: "Chi ama la sua vita,
la perderà e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà" (Mt
10, 39), come pure: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la
vita per i propri amici" (Gv 15, 13). La chiamata a realizzare questo
amore vale per chiunque intende dare senso pieno e duraturo alla vita. Si
scopre in questa dimensione la novità del cristianesimo e la sua originalità
nei confronti delle culture e delle altre religioni. Questa "natura"
dell'amore porta con sé una verità talmente universale che si è imposta nelle
diverse culture, mostrando il suo vero volto e il fine verso cui tende. Ogni
altra espressione impallidisce dinanzi a questa e mostra evidente il suo
limite. L'amore che proviene dalla natura, insomma, non può trovare compimento
rimanendo in se stesso. Ciò non significa che sia negativo e che debba essere
rifiutato solo perché limitato, al contrario. Tutte le diverse forme dell'amore
umano esprimono ognuna una via propedeutica che, comunque, deve sfociare
nell'amore cristiano; esso permane come ultima e soddisfacente risposta di
senso capace di andare oltre il limite della morte. Espressiva, in proposito,
una considerazione del filosofo G. Marcel che sembra scritta sulla lunghezza
d'onda del Cantico: "Se c'è in me una certezza incrollabile, essa è quella
che un mondo che viene abbandonato dall'amore deve sprofondare nella morte, ma
che là dove l'amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che lo vorrebbe
avvilire, la morte è definitivamente vinta" (Homo viator, 189). Si
potrebbe concludere facilmente sostenendo che quando a una persona si dice:
"ti amo", ciò equivale a dirle: "tu non morirai mai". Il
sigillo posto tra i due non ha più possibilità di essere rimosso, permane oltre
la morte mostrando il vero volto dell'amore. L'apostolo Paolo non si allontana
da questa prospettiva quando scrive: "Chi ci separerà dunque dall'amore di
Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a
morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte
queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io
sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né
presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra
creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro
Signore" (Rm 8,35-39). Attenzione, però, per l'apostolo, condizione di
crescita e di autonomia reale dati dall'amore sono resi possibili nel
"dire la verità" e nel viverla reciprocamente nei rapporti
interpersonali. Interessante, in proposito una particolarità grammaticale.
Paolo usa il participio αληθεύοντες,
il termine verità è diventato un verbo per indicare il "dire", il
"fare", l' "essere" la verità, ma in relazione con l'amore
(cfr Ef 4,14 ss). Insomma, il concetto sotteso potrebbe essere facilmente
espresso così: perché la verità possa vivere, deve avere in sé l'amore. La
verità, pertanto, non è solo in relazione all'amore, ma è interno all'amore e
si esprime come amore. La verità, così come viene percepita, appare sempre
frammentaria; essa si concretizza nel frammento che prende corpo nelle singole
proposizioni e giudizi, dando vita a una particolare prospettiva. Sappiamo che
ognuna di queste ha la sua parte di verità e solo nell'insieme e nella
complementarità con altre l'uomo può raggiungere una verità più globale e
completa. Nessuna verità colta dall'esperienza, senza nulla togliere al suo
peculiare tratto di concreta verità, ha in sé la pretesa di completezza e di
assolutezza. Essa è verità solo nella misura in cui si collega con la verità
intera e con le caratteristiche che questa possiede. E' in questo spazio che si
coglie più facilmente il rapporto con l'amore. Per sua stessa natura, infatti,
l'amore può darsi solo nella sua globalità. Non è permesso amare solamente per
un po' di tempo o in un determinato contesto; l'amore è per sua stessa definizione
"per sempre". Un "sempre" temporale e spaziale che non
conosce confini; per questo tutto deve essere permesso perché a questo amore
sia concesso di esprimersi in pienezza. Ciò comporta che mentre l'esperienza
umana della verità è frammentaria quella dell'amore per sua natura è totale. La
verità può essere parcellizzata, l'amore no. In questo modo, la verità
nell'amore implica che sia questo a decidere del modo in cui la si deve
esprimere. Ci saranno spazi e momenti in cui essa dovrà avere la caratteristiche
della pienezza e altri in cui è bene che sia data nei frammenti; sempre,
comunque, la verità riposerà nell'amore e sarà chiamata a corrispondere alla
natura di questo.
Una verità nell'amore è la vera sfida che si pone dinanzi a questo cambiamento
epocale. Essa riveste i tratti di una condivisione e di un'accoglienza che si
fanno promotrice di autentico progresso. In questo senso, si deve comprendere
la relazione tra i due come il superamento della testardaggine, caratteristica
propria di chi vuole avere sempre ragione in forza della pretesa del proprio
frammento ad essere verità assoluta. Nell'amore, la verità sa quali sono le
verità che meritano di essere accolte e quelle che preannunciano un futuro
carico di novità; nell'amore, infatti, la verità vince con la donazione di sé
più che con l'acume del ragionamento. Una simile comprensione della verità
rende lungimiranti e permette di accedere a una visione della vita e del mondo
che si fa carica del mistero. Mistero, in questo contesto, assume un valore
particolare. Mai come dinanzi alla verità e all'amore, il termine ha bisogno di
essere riproposto nella sua intangibilità. Il mistero cresce tanto più si
manifesta. E' questa la logica sottesa al mistero. Non ha avuto ragione chi ha
voluto relegarlo nello spazio dell'irrazionalità. Il mistero lo si comprende;
la sua verità viene percepita e nell'amore viene accolto. Più la verità si
affaccia come mistero e più la persona è posta nella condizione di entrare in
esso e di comprendere la propria esistenza e quanto vi è ad essa sottesa. La
verità del mistero può essere solo accolta nell'amore; al contrario, rimane
solo l'irrazionalità del rifiuto. L'esistenza personale, le relazioni con gli
altri, il mondo… tutto ciò che si osserva, si esamina e si giudica, tutto è
sottoposto al mistero. Il dilemma corre tra la sua accettazione o il suo
rifiuto. Solo la verità, alla fine, permette di avere solidità e fermezza. La
vita non presenta solo aspetti positivi; in essa, spesso, quelli negativi
sembrano avere la meglio. Porsi dinanzi al mistero, sapendo che è una verità
che mi viene fatta conoscere e che nell'amore mi incontra e mi progetta il
futuro, permette di fondare la vita sulla solidità della roccia e non
sull'effimero della sabbia. Niente come il mistero, d'altronde, consente di
avere uno spazio infinito che si apre alla pienezza della verità; chi lo vive
ha certezza che la verità sperimentata e vissuta è sempre molto più grande e
onnicomprensiva di quanto riesce a balbettare. La verità del mistero non
appesantisce né schiaccia l'esistenza, ma le permette quel necessario scatto di
reni per avere accesso a Dio, verità prima e per questo ultima, che nell'amore
rivela se stesso e il senso del suo amore, origine di ogni verità e paradigma
di ogni amore. La verità non è manipolabile a seconda delle proprie simpatie;
essa richiede uomini liberi che siano capaci di sostenere scelte responsabili.
In questo senso siamo chiamati a verificare la nostra scelta per Gesù Cristo
come una libertà che rende liberi. Non una libertà appariscente ed effimera che
rende ancora più schiavi, ma una libertà che libera perché immette sempre più
verso una ulteriore verità di sé e del mondo in quanto relaziona con la verità
stessa rivelata da Dio su di sé e su ognuno di noi. Questa verità non abbaglia,
pur essendo evidente; di questo, comunque, tratteremo nella prossima catechesi
sulla contemplazione. Come si nota, non è nell'ordine della matematica che si
confronta la verità della fede, ma in quella del senso all'esistenza. Per
questo motivo, questa verità è sempre data in un chiaroscuro: mentre rende
manifesto, nello stesso tempo, provoca ad andare oltre perché il mistero è
sempre più profondo. Permane, per ognuno che sinceramente tende verso la
verità, lo stato di ricerca che non può essere senza fine. Ritorna con la sua
carica di portata esistenziale il cor inquietum di Agostino, che si erge a
icona dell'uomo contemporaneo: "Una volta stabilitomi in Italia, mi misi a
riflettere dentro di me e ad esaminare seriamente non già se restare in quella
setta nella quale mi pentivo di essere capitato, ma in quale modo si dovesse
cercare il vero, per il cui amore i miei sospiri a nessuno meglio che a te sono
noti. Spesso mi sembrava che fosse impossibile trovarlo e le grandi onde dei
miei pensieri mi inducevano a favorire gli accademici. Spesso invece, vedendo,
per quanto potevo, la mente umana così vivace, così sagace, così perspicace
ritenevo che la verità le rimanesse nascosta soltanto perché non conosceva il
modo secondo cui cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche
autorità divina. Restava da cercare quale mai fosse questa autorità, dal
momento che, pur tra tanti dissensi, ciascuno prometteva di darla. Dinanzi a
me, dunque, si apriva una inestricabile selva in cui appunto mi dispiaceva
molto essermi cacciato; e la mia anima si agitava senza alcuna quiete in mezzo
a queste cose, spinta dal desiderio di trovare il vero… Se, dunque, scopri che
anche tu da tempo ti trovi in questa condizione e provi la stessa sollecitudine
per la tua anima, e se ti sembra di essere stato abbastanza sbattuto qua e là e
vuoi porre fine a questo genere di fatiche, segui la via dell'insegnamento
cattolico, che da Cristo stesso, per mezzo degli apostoli, si è diffusa fino a
noi e da qui si estenderà alle generazioni future" ( De utilitate
credendi, 8,20)
Per concludere
Siamo giunti alla conclusione di questa breve riflessione, ci rimangono come
parole di profonda attualità quelle di R. Guardini che hanno provocato la mia
riflessione e, spero, possano essere anche per tutti voi una consequenziale
scelta di vita: "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende.
Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può
essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e
pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha
qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la
puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi
dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi
dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione ti indurrebbe a tacere,
o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda" (Le virtù, 21) C'è
un imperativo, dunque, a cui non si può né si deve sfuggire: attestare che la
verità deve riprendere il suo posto nella nostra vita perché possiamo approdare
a un'esistenza carica di senso.
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