Quel mirabile
incontro tra cielo e terra
Angelo
Spinillo, vcovo di Teggiano-Policastro
Introduzione
Abbiamo
iniziato la celebrazione della XX GMG...Forse dovremmo anzitutto salutarci con
un accogliente e fraterno "Benvenuto", o forse, meglio, anche con un
più gioioso "Bentornato". Senza nulla togliere al ruolo di
"padroni di casa" che è proprio dei nostri fratelli tedeschi che ci
ospitano in questi giorni, credo che, almeno per aver partecipato ad altre più
o meno numerose GMG possiamo salutarci come quelli che nella GMG si sentono di
casa. Personalmente io, purtroppo esclusa quella di Buenos Aires del 1987, ho
partecipato a tutte le GMG e, naturalmente, anche a qualcuna delle Giornate
Europee della Gioventù. Se vi venisse spontaneo il fare un po' di conti, …
considerando che nel 1985, quando il Papa Giovanni Paolo II convocò per la
prima volta una GMG, ero sacerdote già da sette anni … forse vi chiederete come
possa pensare, a 55 anni, di partecipare ancora ad una GMG. Credo, però, che se
ci sente di casa nella GMG, non possa essere diversamente. Infatti chi ha
cominciato il cammino delle GMG sembra non saperlo più interrompere: davvero
rimane giovane nel cuore, ovvero sente che la giovinezza è un suo modo di
essere, un modo di essere fatto di ricerca gioiosa e di desiderio di dialogare,
di amicizia e speranza di camminare insieme. Per questo l'invito del Papa,
risuonato costantemente, e con forza, in ciascuno dei messaggi ai giovani in
questi venti anni, ha sempre messo al centro l'annunzio della presenza di Gesù,
del Signore della vita, che viene a dialogare con noi e accoglie ogni nostra
ricerca di verità e di luce, ogni nostra speranza di libertà nel bene, ogni
nostra ansia di fraternità tra gli uomini e ci permette di stare con Lui, nella
sua amicizia… per sempre. Nella lettera Apostolica con cui indisse la prima
GMG, nel 1985, Giovanni Paolo II commentò a lungo l'incontro di Gesù con un
giovane ricco che aveva chiesto al Maestro cosa dovesse fare, avendo già sempre
osservato i comandamenti, "per ottenere la vita eterna". (Mt 19, 16)
E poiché, come ricordate, il giovane non accettò l'invito di Gesù: "Se
vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un
tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi", ed anzi, come raccontano gli
Evangelisti, "se ne andò triste; poiché aveva molti beni" (Mt 19,
22), il Papa si chiedeva cosa potesse aver spinto quel giovane ad avvicinarsi
con tanta speranza a Gesù e poi ad allontanarsene con tanta tristezza nel
cuore. E scriveva: " … sulla decisione del giovane di allontanarsi da
Cristo hanno pesato in definitiva solo le ricchezze esteriori, ciò che quel
giovane possedeva ("i beni"). Non ciò che egli era! Ciò che egli era,
proprio in quanto giovane uomo, cioè la ricchezza interiore che si nasconde
nella giovinezza umana l'aveva condotto a Gesù. E gli aveva anche imposto di
fare quelle domande, in cui si tratta nella maniera più chiara del progetto di
tutta la vita. Che cosa devo fare? "Che cosa devo fare per avere la vita
eterna"? Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e
pieno senso? La giovinezza di ciascuno di voi, cari amici, è una ricchezza che
si manifesta proprio in questi interrogativi. L'uomo se li pone nell'arco di
tutta la vita; tuttavia, nella giovinezza essi si impongono in modo
particolarmente intenso, addirittura insistente. Ed è bene che sia così. Questi
interrogativi provano appunto la dinamica dello sviluppo della personalità
umana, che è propria della vostra età. Queste domande ve le ponete a volte in
modo impaziente, e contemporaneamente voi stessi capite che la risposta ad esse
non può essere frettolosa né superficiale. Essa deve avere un peso specifico e
definitivo. Si tratta qui di una risposta che riguarda tutta la vita, che
racchiude in sé l'insieme dell'esistenza umana". Sono domande che
coinvolgono tutta la nostra esistenza e si pongono e si ripropongono continuamente
in tutte le età dell'uomo che ama la vita e la ricerca nelle sue forme più
intense e più vere. Eccoci, allora, qui, con tanta gratitudine al Signore che
ci ha convocato nella Chiesa, indipendentemente dalle nostre età anagrafiche, a
dialogare in fraternità per cercare la presenza di Colui che è "la luce
del mondo" e per adorare Lui, per immergere la nostra vita in Lui che è
"la luce della vita" (Gv 8,12).
La domanda
Quando si parla dei Magi, o dei Re Magi, come spesso diciamo nella nostra
tradizione, il pensiero va subito al presepe, a quella costruzione spesso ricca
di molte e diverse figure di personaggi che verosimilmente potrebbero aver
popolato l'ambiente e la notte santa della nascita di Gesù. Nel presepe, forse
anche nelle nostre case, da bambini abbiamo sempre messo i Magi, con i loro
doni, con i cammelli e con i loro accompagnatori, nel punto più lontano dal
povero luogo (una grotta o una capanna…) in cui avevamo collocato le immagini
della Natività del Signore, così, avvicinandoli a brevi tratti, un po' per
volta ogni giorno, potevamo riprodurre il loro viaggio guidato dalla stella. Il
Vangelo di Matteo, però, al capitolo 2, non si attarda in particolari per
annunziarci la nascita di Gesù, infatti, con la semplicità delle cose intense, dice:"Gesù
nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode" (Mt 2,1). Poi subito
aggiunge: "Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano:
«Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo
venuti per adorarlo»" (Mt 2, 1-2). Betlemme, in quel tempo, era un modesto
villaggio a non molti chilometri da Gerusalemme. Gesù nacque a Betlemme, i Magi
arrivarono prima a Gerusalemme e lì posero la loro domanda. Considerata la
distanza e la diversa condizione dei due centri, non ci meraviglia che a
Gerusalemme, la capitale del regno, non si sapesse nulla di quel bambino nato a
Betlemme, "così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda" (Mi
5,1), come l'aveva descritta il Profeta, e per giunta in condizioni di grave
povertà e di emarginazione sociale. Ma la domanda dei Magi non fu una semplice
richiesta di informazioni, come di chi potrebbe chiedere indicazioni circa una
direzione da prendere, tant'è che l'evangelista Matteo annota che
"All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta
Gerusalemme" (Mt 2,3). La domanda dei Magi, infatti, aveva il sapore di
un'affermazione sicura: "è nato", c'è il segno, la stella. La domanda
dei Magi somiglia, credo, a quella di tanti uomini e donne, a quella di tanti
giovani che, come spesso è accaduto nel corso della storia, hanno chiesto di
essere aiutati ad incontrare la verità. Tanti uomini e donne hanno chiesto di
essere aiutati ad incontrare la verità che essi sentivano già forte e viva nel
loro cuore come la speranza della loro vita. E lo hanno chiesto a chi forse
avrebbe dovuto saper dare indicazioni vere, sicure: a maestri, a sacerdoti, a
sapienti, a religiosi, a dotti, a governanti, ad amici. Da questi, a volte si
sono avute risposte ricche di un fecondo entusiasmo di condivisione del
cammino. Altre volte, o forse più spesso, la convinzione di chi voleva
proiettare tutto se stesso nella ricerca ha incontrato il balbettio imbarazzato
di chi non è riuscito ad argomentare altro che delle incertezze. Purtroppo,
spesso l'entusiasmo convinto, proprio di un animo giovane, generosamente e
totalmente proteso nella ricerca della verità, della vita, si è come frantumato
davanti alla presunzione o alla sufficiente delusione di chi ha potuto pensare
di dimostrare che la verità in assoluto o è tanto astratta da risultare
irraggiungibile, o non è realizzabile se non attraverso una serie di
compromessi con i limiti delle situazioni e degli interessi di più bassa
levatura dell'umanità.
La
verità non è lontana
Se tanti hanno chiesto, e continuano in ogni epoca del mondo a chiedere, di
essere aiutati ad incontrare la verità, significa che nel loro intimo è già
maturata una certa consapevolezza di ciò che cercano, ma che la ricerca non è
veramente giunta a quella maturità, a quella pienezza di consapevolezza o di
condivisione da diventare la propria vita, l'orizzonte di interpretazione e di
giudizio per ogni scelta, la speranza che muove tutta la propria passione per
il bene. Pensate a quando si avvicinò a Gesù "uno degli scribi" che…
gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Il Vangelo di Marco ci
dice che tra questo scriba e il Maestro si sviluppò un dialogo intenso ed
articolato sull' "Amare Dio con tutto il cuore… ed il prossimo tuo come te
stesso". E Gesù apprezzò quell'uomo tanto che concluse dicendogli:
"Non sei lontano dal regno di Dio" (Mc 12, 34).Non sappiamo se quello
scriba sia poi entrato nel numero dei discepoli del Signore, o se, come il
giovane ricco se ne sia allontanato perché richiamato da altre realtà o da altre
forme di ricchezza. Certo, Gesù, come rimase triste nel vedere il giovane ricco
che si allontanava dopo averne accolto la domanda, così qui sembra riconoscere
che lo scriba ha incrociato la verità, ha intuito la via della perfezione,
della pienezza della vita. Giovanni Paolo II, nella lettera enciclica
"Fides et ratio", nel 1998, scriveva:"Sia in Oriente che in
Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha
portato l'umanità ad incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi
con essa". Come dire che ogni pensiero dell'umanità, ogni sentimento
dell'uomo, le sue conoscenze e le sue tensioni sono un continuo cercare la
verità del suo essere e la verità del suo rapporto con gli altri, con la terra,
con l'universo, con il tempo e con ciò che è oltre il tempo. Quando una persona
si mette con sincera libertà sulla via di questa ricerca, possiamo dire che
"non è lontano" dalla verità, da Dio che è la verità. La domanda di
verità e di vita, allora, è quanto di più vivo emerge e spinge la nostra
giovane persona verso l'incontro con Colui che è l'Altro che viene incontro a
noi e ci accoglie e ci offre la luce della sua sapienza. Nel messaggio per
l'VIII G.M.G. che si tenne a Denver nel 1993, Il Santo Padre Giovanni Paolo II
scrisse: "Per poco che siamo attenti a noi stessi ed agli scacchi a cui
l'esistenza ci espone, noi scopriamo che tutto dentro di noi ci spinge oltre
noi stessi, tutto ci invita a superare la tentazione della superficialità o
della disperazione. E' proprio allora che l'essere umano è chiamato a farsi
discepolo di quell'Altro che infinitamente lo trascende, per entrare finalmente
nella vita vera". Dunque non c'è da temere la difficoltà e nemmeno quelle
forme di insuccesso che sembrano spingere verso il nulla la nostra esistenza:
in tutte le espressioni della nostra vita risuona come una parola che, a volte
con voci di entusiasmo, a volte come smarrita in un grido di dolore, testimonia
la ricerca della presenza di ciò che è altro: della luce oltre le tenebre, della
giustizia oltre la prepotenza, della bontà oltre la meschinità, della libertà
oltre la necessità, della verità oltre l'apparenza, della vita oltre la morte.
L'altro che cerchiamo non è qualcosa, ma è l'Altro uomo, l' uomo nuovo, il
Figlio di Dio, la verità che ci è donata dal Padre della vita, Gesù è il nostro
Maestro e Signore. Il Vangelo è la "buona notizia" perché in ogni sua
pagina leggiamo il racconto del mirabile venire di Dio incontro alla domanda
dell'umanità, alla sua sete di verità. Sono stupendi tutti quei dialoghi che
Gesù intesse con tanti peccatori, con tanti ammalati, con tanti personaggi di
cui anzitutto sembra far emergere la profondità della loro ricerca di vita e di
verità. Ancora più stupendo è il fatto che Gesù non solo accoglie con simpatia
la fatica della ricerca degli uomini, ma in alcuni casi sembra addirittura
commuoversi davanti ai loro sforzi ed alla confusione in cui si dibattono. Gli
uomini e le donne che Gesù incontra sembrano chiedere tante cose, ma il Maestro
riesce a mettere ordine nelle loro domande e riconduce il discorso
all'essenziale, alla loro ricerca di quella verità che è acqua viva per la
quale non si avrà più sete, "… sorgente di acqua che zampilla per la vita
eterna" (Gv 4, 14), come disse alla Samaritana al pozzo di Giacobbe.Una
delle preoccupazioni fondamentali ed un'esortazione costante del Pontificato di
Giovanni Paolo II, espressa con forza anche nelle G.M.G., è stata quella di
richiamare tutti a non perdere la fiducia nella ricerca della verità, ma anzi a
mettersi "sul cammino che conduce alla vera sapienza… per raggiungerla e
trovare in essa riposo alla fatica e gaudio spirituale" (Fides et ratio
6). Questo, per noi, e forse per voi più giovani in particolare, oggi non è
facile. Infatti, in questo nostro tempo, così segnato dal relativismo, c'è il
rischio che anche la più positiva forma di rispetto della soggettività di
ciascuno facilmente scada nell'affermazione che tutte le posizioni si
equivalgono, che tutte le fedi, religiose o non religiose, siano tra loro
simili, che ogni verità è infine verità solo per chi la ritiene tale. "Non
si può negare", scriveva il Papa, "che questo periodo di rapidi e
complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni… alla
sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento". Il
relativismo, che sembra oggi condizionare le scelte ed il pensiero della nostra
società, è un pericolo grave, banalizza ed annulla la domanda di verità che
nasce dal cuore dell'uomo, la strumentalizza, nel senso che la immagina come
una mera necessità da soddisfare per raggiungere una situazione di benessere
individuale. Vi confesso che ho provato veramente grande tristezza quando ho
sentito qualcuno che, magari con un sorriso compiacente, veniva ad accompagnare
in chiesa un proprio bambino, o anche una persona più anziana solo perché
questa ci teneva tanto e dopo… si sarebbe sentita meglio…E' ovvio che questa è
la più subdola e terribile negazione della verità, perché nega la possibilità
dell'esistenza di una verità viva e universale, e usa la domanda propria del
cuore dell'uomo come un banale istinto che chiede una soddisfazione. Di questo,
che già il Concilio Vaticano II chiamò "materialismo pratico" (GS
10), è come impregnata la vita di molti uomini e di ogni epoca. Ne sono esempio
concreto il re Erode e "tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del
popolo" (Mt 2,4). Essi, pur avendo trovato proprio nelle pagine dei loro
Libri Sacri, proprio in quelle parole dei Profeti che erano il fondamento e la
speranza della loro orgogliosa appartenenza al popolo di Dio, la più autorevole
conferma dell'annunzio contenuto nella domanda dei Magi, non parteciparono al
cammino vissuto con determinazione da quegli strani personaggi venuti da un
lontano oriente. Erode ed i suoi consiglieri sembrano essere di quelli che, pur
avendo la possibilità di conoscere la verità, mentre l'affermano sembrano
giudicarla astratta, lontana e non realizzabile nella loro vita. Forse sono tra
coloro che pensano che al mondo troppe cose vanno in senso contrario alla
volontà di Dio per affidarsi veramente alla sua misericordia. Essi sono tra
coloro che sanno che esiste un Dio, ne ascoltano la parola, ma forse non
credono più alla possibilità di vedere realizzata la promessa della sua
presenza redentrice nella storia del mondo, o la sentono tanto lontana che
quasi non li riguarda direttamente. Sono tra coloro che usano il nome di Dio,
ma non cercano e non sentono la novità della sua presenza.
Il
dramma di Babele
Erode ed
i suoi non hanno raccolto l'invito a guardare al cielo, né hanno volto la loro
attenzione alla parola che li chiamava ad un dialogo di vita. Ma nella storia
tanti altri uomini hanno alzato lo sguardo al cielo. E quando non lo hanno
fatto come i Magi per cercare la presenza della verità, hanno immaginato di usare
il cielo per tentare di affermare un loro dominio sulle cose della terra. Le
conseguenze sono state sempre terribili per la vita dell'uomo che è finita
sempre per ripiombare nella miseria della sua drammatica solitudine. E' stato
questo, e per tanti è ancora questo, il dramma di chi ha sentito come scritta
nei movimenti degli astri la propria sorte. Favorevole o sfavorevole che
potesse essere la propria sorte, chi ha guardato ai cieli con questi pensieri
ha sentito la sua vita come un'impietosa condanna scritta da un destino
irragionevole. Quanta rassegnata tristezza in questa umanità che non osa
neppure alzare il capo e si rifiuta di pensare e di coltivare sentimenti propri
sentendosi soffocata dall'ineluttabilità della sorte. Ma: ricordate la storia della
Torre di Babele? E' narrata nel Libro della Genesi (capitolo 11). Racconta di
uomini che si intendevano bene tra loro, infatti parlavano "una sola
lingua" e usavano "le stesse parole". Sono l'immagine di
un'umanità che ha acquisito una certa capacità di fare, un'umanità che ha molta
sicurezza per aver imparato a costruire con la tecnica ciò che ordinariamente
si cerca nella natura. Sono gli uomini che sanno fare i mattoni cuocendoli con
il fuoco, e quindi possono sostituire efficacemente la pietra per le loro
costruzioni. Come dire che possono creare da sé ciò che è utile e serve alle
loro necessità. Sono talmente soddisfatti delle loro capacità che guardano ogni
cosa nell'ottica dell'utilità e non hanno alcun bisogno di un Altro. Fare
qualcosa di grande dovrà servire solo ad affermare la loro presenza:
"costruiamoci una città ed una torre, la cui cima tocchi il cielo e
facciamoci un nome" (Gen 11, 4). Il loro tentativo finì miseramente nella
confusione dei linguaggi e con la dispersione dell'umanità frantumata in una
miriade di identità e caratterizzazioni diverse al posto dell'unico nome che
avevano tentato di costruirsi. Ancora più drammatico, credo il più terribile di
tutti i racconti in cui l'antichità ha sintetizzato l'immagine di un
atteggiamento dell'umanità nei confronti della terra e del cielo è il mito di
Prometeo. Il racconto descrive la miseria dell'umanità che, vivendo su una
terra totalmente e sempre avvolta da una nebbia fitta ed impenetrabile dai
raggi del sole, soffre una condizione di enorme difficoltà per la sua
sopravvivenza. Poiché la mancanza di sole non permette alla terra di produrre i
suoi frutti, l'umanità soffre la fame e subisce tutti i malanni propri di un
ambiente sempre freddo ed umido. Unica speranza di sopravvivenza per gli esseri
umani è il cercare di guadagnarsi i favori della divinità che li concede in
cambio di doni abbondanti e ricchi. Prometeo è l'eroe che si ribella a questa
drammatica condizione e mostrando un coraggio sovrumano attraversa la nebbia e
raggiunge il sole da cui ruba una scintilla del suo fuoco. Diventata capace di
usare il fuoco, l'umanità impara a cucinare i cibi, a riscaldarsi, a fondere i
metalli e a fabbricarsi più efficaci utensili per il suo lavoro, così che non
ha più bisogno di portare doni alla divinità per ottenerne i favori, ma
realizza da se stessa ciò che rende più agevole la sua vita. Ciò, naturalmente
non piacque alla divinità che condannò l'eroe Prometeo ad un supplizio
terribile ed eterno. Anche il racconto di questo mito offre la lettura di tanti
elementi significativi, sicuramente anche molto attuali, ma a noi interessa qui
sottolineare come da esso emerga la tensione di un conflitto insanabile ed
irriducibile tra due realtà che mirano a combattersi per tentare l'una di
sottomettere l'altra e contendersi gli elementi vitali. Prometeo è l'immagine
di quell'umanità che guarda al cielo come ad una presenza prepotente e nemica
contro cui lottare per emancipare la terra da un'ingiustizia mortale. Anche in
questa situazione la conclusione è drammatica nella disperazione di una
rabbiosa solitudine. Da questo racconto escono tutti apparentemente vincitori
ma sostanzialmente sconfitti: è vincitore Prometeo che ha vinto la crudele
prepotenza della divinità portando il fuoco sulla terra, ma rimane sconfitto
nel terrore di un supplizio ingiusto quanto incancellabile; è vincitore la
divinità che sfoga la sua rabbia su Prometeo che le ha rubato il fuoco, ma
rimane sconfitta nel momento in cui non può più fermare il progresso che
l'umanità vive ora in assoluta autonomia, ignorando le sue pretese di
superiorità.
I Magi e
la stella
Ma
torniamo finalmente a i nostri santi Magi. Anch'essi sono un'icona:
rappresentano quella stupenda parte di umanità che non vuole possedere né la
terra né il cielo, ma in ogni cosa della terra e del cielo riconosce un segno,
una parola. I Magi non vogliono possedere le stelle per potervi leggere o per
determinare una loro sorte favorevole, né vogliono innalzarsi sulla terra per
affermare una loro capacità e potenza, nemmeno vogliono strappare ad alcuno ciò
che potrebbe sviluppare energia utile ad una propria necessità. Nemmeno
vogliono pensare di possedere una parola di Dio per trovare in essa il
fondamento ad un sistema di organizzazione sociale. I Magi vedono un segno nel
cielo e si mettono in cammino per andare ad un incontro. Portano dei doni con i
quali, nel linguaggio umano esprimono ciò che cercano e ciò che sanno di
trovare in Colui che "è nato". L'oro esprime la regalità di Gesù, ma
anche la ricchezza che Egli, "uomo nuovo" porta all'umanità;
l'incenso testimonia la fede nella divinità di Gesù, ma anche l'apertura
all'eterno ed all'infinito che Egli viene ad annunziare alla vita ed alla
storia dell'umanità; la mirra è il riconoscimento della passione redentrice di Gesù,
ma anche la presentazione della sofferenza di tutta l'umanità a Colui che solo
l'accoglie con amore che salva e guarisce. Qui si celebra il mirabile incontro
tra la terra ed il cielo, quel dialogo di vita per il quale tutto è segno di
una presenza che si offre ad una comunione generosa. I Magi, diceva S. Pietro
Crisologo nel V secolo: "con grande stupore… vedono … il cielo calato
sulla terra, la terra elevata fino al cielo, l'uomo in Dio, Dio
nell'uomo". Nella ricerca dei Magi, nella loro fedeltà al cammino segnato
dalla stella, nella loro libertà di tensione verso la verità, si riconosce il
dono di Dio all'uomo: la rivelazione della sua presenza di pace, di
riconciliazione, di comunione, di vita. Concludo ancora con le parole di
Giovanni Paolo II: "La Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di
Nazareth, è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i
condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica
tecnocratica; è l'ultima possibilità offerta da Dio per ritrovare in pienezza
il progetto originario di amore iniziato con la creazione" (FeR 15).
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