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Autori vari
Catechesi proposta dai vescovi ai giovani italiani riuniti a Colonia

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  • Vivere nel mondo come veri adoratori di Dio (19 agosto 2005)
    • Nell'orizzonte del silenzio
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Nell'orizzonte del silenzio

Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma e rettore della Pontificia Università Lateranense

 

Il coraggio di saper guardare
"Nella vita dell'uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, piuttosto nel vivere in salute. Se uno dopo aver celebrato le lodi della salute, prende cibi che gli causano malattie, a cosa gli possono giovare le lodi sulla salute? Allo stesso modo, quando il Signore dice che la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell'avere Dio in se stessi: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" Mi pare proprio che Dio voglia mostrarsi faccia a faccia a colui che ha l'occhio dell'anima ben purificato, ma secondo quando dice Cristo: Il regno di Dio è dentro di voi (cfr Lc 17,21). Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l'immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima" (Omelia 6 sulle beatitudini). Le parole di s. Gregorio di Nissa (335-394), monaco nella Cappadocia del IV secolo, vescovo di Sebaste e grande artefice a Costantinopoli nel 381, possono essere una buona introduzione per verificare il passaggio tra la catechesi che abbiamo ascoltato sulla ricerca della verità e la sua contemplazione. Possiamo ricercare la verità e certamente la troviamo, ma la felicità consiste nel poterla contemplare cioè immedesimarsi in essa a tal punto da vederla riflessa in noi.

I giorni di Köln li ricorderemo per diversi aspetti. L'esperienza che si compie qui non è comune; possiede tratti di eccezionalità che è facile verificare. In primo luogo, si può porre l'incontro con migliaia di altri giovani che come noi esprimono la stessa fede, gli stessi ideali e dubbi come pure lo stesso desiderio di vivere e dare senso alla vita; dall'altra, un tempo più esteso per l'ascolto di una parola chiarificatrice che possa sostenere la nostra ricerca, unito a uno spazio per la preghiera che è difficile trovare nel corso dell'anno. Per molti di noi, questi giorni saranno ricordati anche per le scelte che saranno compiute a partire proprio da questa esperienza di vita che, per tanti versi, è unica la mondo. Oggi, il Signore ci pone sotto gli occhi una delle esperienze più alte della vita cristiana: la via della contemplazione. Per alcuni versi, ci troviamo nella condizione di rovinare l'oggetto della nostra catechesi proprio perché ne dobbiamo parlare. La contemplazione, infatti, manifesta pienamente ciò che esprime nel momento in cui la si pratica. E' necessario, tuttavia, parlare e riflettere sulla contemplazione per non rischiare di perdere la grandezza dei suoi contenuti e per non cadere nell'illusione che possa disintegrarsi in tanti altri frammenti che ne minano l'essenza e distolgono l'attenzione. Troppe volte assistiamo a presentazioni di metodi che vorrebbero avvicinarsi alla contemplazione cristiana mentre, al contrario, la negano perché pongono tutto sullo sforzo personale dell'individuo e sulle tecniche per entrare in una fase di meditazione, dimenticando poi il vero oggetto per cui si fa tanta fatica!

Per entrare in punta di piedi in questo tema della nostra catechesi, ci lasceremo guidare primariamente dalla Parola di Dio per essere sicuri di non allontanarci troppo dal difficile sentiero che siamo chiamati a percorrere. Il primo testo che si affaccia alla nostra mente è la parola del Salmo: "Guardate a lui sarete raggianti. I vostri volti non arrossiranno" (Sl 34,6). Se volessimo seguire più fedelmente il testo biblico non dovremmo dire "guardare a lui", ma tradurre direttamente: "Contemplatelo e sarete raggianti". Come si nota, siamo posti immediatamente dinanzi al tema della contemplazione. C'è un imperativo che il salmista ci pone e sembra non lasciare spazio alcuno. Se vogliamo essere raggianti dobbiamo contemplare il volto di Dio. Per entrare più direttamente nel merito di questo versetto, comunque, è necessario inserirlo nel suo contesto. Ciò che colpisce, anzitutto, è il fatto che il suo autore si identifichi subito come un "povero di Jhwh": "Questo povero grida e il Signore lo ascolta" (v 7). Ciò che ci viene fatto conoscere è il frutto di un'esperienza personale; l'autore sacro, insomma, non fa che fornire un dato autobiografico: davanti alla grandezza di Dio lui si sente povero e misero. La cosa, tuttavia, tocca in prima persona anche chi recita il salmo, chi è, d'altronde, il "povero" se non colui che cerca Dio, che lo teme, che a lui si affida e in lui si rifugia? Come si può osservare tutte queste espressioni che ricorrono costantemente nella preghiera dei Salmi, non fanno altro che indicare l'uomo di fede che si affida a Dio e in lui trova riparo. Un ulteriore dato autobiografico, comunque, emerge dal salmo: egli è un uomo che cerca Dio; il versetto lo attesta in maniera inequivocabile: "Ho cercato il Signore e mi ha risposto, da ogni paura mi ha liberato" (v 5).
Come si vede, la contemplazione è posta all'interno di una duplice esperienza: avere coscienza di essere povero e per questo nasce l'esigenza di cercare il Signore.


Non ho ancora fatto tutto
Chi vuole giungere a contemplare il volto del Signore deve saper che ha dinanzi a sé un sentiero lungo, irto e faticoso che deve percorre con molta pazienza unita a grande costanza. E' un cammino che dura tutta la vita e che non conosce sosta alcuna. Non sapremo mai fin dove ci potrà condurre; ciò che riusciamo a comprendere con maggior facilità, però, è il suo punto di partenza. A volte, questo si esprime in maniera nebulosa e non si riesce a vedere con chiarezza cosa viene chiesto; altre volte, invece, è chiarissimo, ma proprio perché tale non sempre suscita l'entusiasmo dovuto. Cosa potrebbe chiedere, infatti, il Signore quando bussa alla porta e chiede che gli venga aperto? L'espressione di Apocalisse non è estranea al nostro contesto: "Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). Suscita sentimenti contrastanti questa scena: da una parte, è triste vedere che il Figlio di Dio sta davanti alla porta come fosse un viandante qualsiasi e bussa porta a porta in cerca di qualcuno che gli apra; dall'altra, proprio questo stare alla porta da parte del Signore evidenzia ancora di più la nostra libertà e l'attivo esprimersi di essa. Come ogni atto di libertà, tuttavia, bisogna lasciare qualcosa per aprire e far entrare il Signore. Questa scena, ci riporta a un'altra ben conosciuta narrata dal Cantico dei Cantici:
"Io dormo, ma il mio cuore veglia.
 Un rumore! È il mio diletto che bussa:
 «Aprimi, sorella mia,
 mia amica, mia colomba, perfetta mia;
 perché il mio capo è bagnato di rugiada,
 i miei riccioli di gocce notturne».
 «Mi sono tolta la veste;
 come indossarla ancora?
 Mi sono lavata i piedi;
 come ancora sporcarli?»…
Mi sono alzata per aprire al mio diletto
 e le mie mani stillavano mirra,
 fluiva mirra dalle mie dita
 sulla maniglia del chiavistello.
 Ho aperto allora al mio diletto,
 ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso.
 Io venni meno, per la sua scomparsa.
 L'ho cercato, ma non l'ho trovato,
 l'ho chiamato, ma non m'ha risposto" (CdC 5,2-5).

Non è estraneo al nostro modo di vivere questo racconto del Cantico. Il Signore sta alla porta, bussa e chiede di entrare… anche noi lo aspettiamo: "Io dormo, ma il mio cuore veglia"; eppure, quando giunge troviamo tante scusanti per non aprire subito quella porta: "sono a letto", "mi sono cambiata la veste", "mi sono lavata i piedi"…! Quando poi ci decidiamo, diventa troppo tardi… non possiamo essere noi che impediamo al Signore di entrare in casa nostra con i nostri sotterfugi. La libertà ha un costo grande, ma si esprime attraverso l'amore per la verità e per questo ogni rinuncia in nome della libertà diventa possibile: perché è fatta in nome dell'amore. Se non ci si sente profondamente amati è difficile esprimere la libertà. Solo l'amore permette che la rinuncia a cui si va incontro possa essere assunta come un sacrificio che merita di essere vissuto perché fatto per amore. In ogni caso, è necessario sottolineare che quando ci si trova dinanzi a Dio, allora la prima reazione dovrebbe essere quella di scoprire la propria povertà. Lo insegna un maestro della teologia e della spiritualità antica, s. Anselmo (+1109), quando nel suo Proslogion scrive: "Mai ti ho visto, Signore Dio mio, non conosco il tuo volto. Che cosa farà, eccelso signore, che cosa farà questo tuo esule lontano? Che cosa farà il tuo servo, nell'ansia del tuo amore e gettato lontano dal tuo volto? Anela di vederti,a ma il tuo volto è troppo lontano da lui. Desidera inoltrarsi fino a te, ma la tua abitazione è impenetrabile. Brama trovarti, ma non sa dove stai. Fa di tutto per cercarti e ignora i tuoi lineamenti. Signore, sei il mio Dio e sei il mio Signore; e non ti ho mai visto. Tu mi hai fatto e rifatto e mi hai fatto avere tutti i beni che ho e non so ancora chi sei. Sono stato fatto, infine, per vederti e non ho ancora fatto tutto ciò per cui sono stato fatto… Se tu hai trovato Dio, perché non "senti" ciò che hai trovato?... Signore mio Dio, tu mio formatore e riformatore, di' alla mia anima ardente che cosa altro sei ancora oltre a ciò che essa ha visto, perché essa vede nitidamente ciò che intravede. Essa si tende per vedere di più, e tuttavia non vede altro che tenebra oltre ciò che vede; o no: essa non vede tenebra, poiché in te non v'è tenebra, ma vede che non può vedere di più a causa della propria tenebra" (Proslogion 1.14)

Ciò che ci deve colpire è proprio quel "nondum feci propter quod factus sum", non ho ancora fatto tutto ciò per cui sono stato pensato da Dio! E' questa, come si nota, la consapevolezza che siamo chiamati a scoprire nel momento in cui ci si accosta a Dio e a contemplare quanto egli opera in noi e mediante noi: la nostra corrispondenza è sempre troppo poca, non riusciamo a rispondere per quanto ci ha dato e per quanto siamo! La cosa non deve porci in uno stato di frustrazione, al contrario; è la provocazione a non fermarsi mai, a saper andare sempre oltre ogni conquista che abbiamo fatto solo per il desiderio di giungere a quella pienezza –la "perfezione" evangelica - a cui siamo stati chiamati e che permette di scoprire la nostra spinta continua e perenne verso la libertà.

Possiamo conoscere, dunque, la chiamata e l'ingresso di Gesù Cristo nella nostra vita. E' sufficiente fermarsi un momento per scoprire l'attimo in cui egli si è fatto presente. La Sacra Scrittura, pagina dopo pagina, non fa che narrare l'ingresso di Dio nella vita delle persone. Una storia che parla di accoglienza e di rifiuto e che emerge, passo dopo passo, mostrando la felicità per chi gli apre la porta e la tragedia per chi al contrario la sbarra a doppia mandata. Il salmista ripropone la stessa tematica; quando uno si affida a lui, sente: "Gli occhi di Jhwh sui giusti, i suoi orecchi al loro grido di aiuto" (v 16), mentre per quanti lo rifiutano valgono le parole: "Il volto di Jhwh sui malfattori per estirparne dalla terra il ricordo" (v 17). Come si nota, il volto di Dio può essere luce che illumina, ma anche sorgente di ira che disperde. A noi spetta cercare di comprendere in quale posizione ci troviamo e come rispondiamo quando il Signore bussa alla porta della nostra vita. Insomma, siamo chiamati ad assumere la nostra responsabilità. La contemplazione, pertanto, non allontana da noi stessi, come qualcuno potrebbe temere, né distoglie dai nostri impegni quotidiani; porsi in contemplazione, al contrario, implica la riflessione su noi stessi, sulla nostra vita e su tutto ciò che la compone. In una parola, la contemplazione opera la prima grande trasformazione nell'inserire ognuno nel più profondo di sé, nella ricerca del vero bene che chiede di essere perseguito e della verità su noi stessi che diventa evidente.


La grazia di lasciarsi vedere
In questo spazio, comunque, si apre anche il lungo cammino della ricerca di Dio, della sua volontà e di dare tranquillità al nostro desiderio di contemplare il suo volto. "Il tuo volto, Signore, io cerco; non nascondermi il tuo volto"; è sempre la preghiera che sentiamo sinceramente di rivolgere a Dio come termine ultimo del nostro ricercare e come scopo definitivo della nostra vita. Guardare in faccia il volto di Dio. Proprio qui scopriamo l'originalità della fede cristiana e la sua profonda e radicale differenza con altre religioni. "Nessuno può vedere Dio e rimanere in vita", rimane come l'espressione culmine dell'Antico Testamento. La non visibilità di Dio è la premessa per porre un confine agli uomini nella loro tentazione di voler diventare come lui. Ne scaturisce l'imposizione a non farsi nessuna immagine di Dio e perfino a non pronunciare il suo nome. Per noi cristiani non è così: il mistero dell'incarnazione indica che Dio si può vedere, toccare, sentire… lui parla, agisce e provoca a prendere posizione davanti alla sua persona. Gesù Cristo nel mistero della sua vita rende visibile il volto del Padre e fa sentire le sue stesse parole: "Filippo, chi vede me vede il Padre" (….). Questo è in un tutt'uno fondamento, principio e cuore della religione cristiana: Dio si fa presente e in Gesù Cristo decide di rimanere con noi per sempre, fino alla fine dei tempi. Non rifletteremo mai a sufficienza su questo punto che costituisce il culmine a cui una religione può tendere: la vita di comunione con Dio. C'è un'espressione di Giovanni Paolo II molto significativa in questo contesto; egli accosta la nascita di Gesù nell'obbedienza di Maria al nostro dire "amen" nel momento in cui lo riceviamo sacramentalmente: "C'è un'analogia profonda tra il fiat pronunciato da Maria alle parole dell'Angelo e l'amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore.

A Maria fu chiesto di credere che colui che Ella concepiva "per opera dello Spirito Santo" era il "Figlio di Dio". In continuità con la fede della Vergine, nel mistero eucaristico ci viene chiesto di credere che quello stesso Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, si rende presente con l'intero suo essere umano-divino nei segni del pane e del vino" (EdE 55). Come si può osservare, la contemplazione a cui siamo chiamati ha un percorso da compiere, ma fin dall'inizio sappiamo verso dove si deve tendere: fissare lo sguardo sul volto di Cristo.

Comprendiamo, in questo modo, che il cammino inizia con la scelta di fede che richiede un progressivo abbandonarsi al mistero con la fiducia di ritrovare se stessi. Più ci si abbandona a Cristo e più comprendiamo chi siamo. Lo ricorda sempre il concilio quando pone il mistero dell'uomo nel mistero di Cristo e nel Verbo incarnato ci viene fatta conoscere la nostra altissima vocazione (GS 22). La fede, comunque, ha bisogno di conoscere. E' questo che emerge in primo piano e che condiziona fin dal suo sorgere l'esigenza della contemplazione. E' necessario, quindi, rispettare alcune tappe che segnano i ritmi del nostro cammino e permettono di discernere il progresso e la maturazione nella vita di fede. Adorare, quindi, arriva come il culmine della vita di preghiera e di crescita nella fede; non sarebbe pensabile una contemplazione senza una corrispondente conoscenza che immette sempre più all'interno del mistero.
La liturgia ci permette di dare fondamento a questa convinzione; proprio nella preghiera del giorno dell'epifania –che indica tra l'altro l'adorazione dei magi - fa pregare così: "O Dio, che in questo giorno con la guida della stella hai rivelato alle genti il tuo unico figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria". Ecco, dunque, il punto di partenza: è necessario avere già conosciuto nella fede. Sorgono spontanee, a questo punto, alcuni interrogativi: come è possibile vedere in un po' di pane il volto di Cristo se la fede non muove il cuore, non cambia gli occhi e trasforma la mente per riconoscere il volto del Figlio di Dio che ama e consegna se stesso in un sempre rinnovato atto di amore? Giovanni Paolo II scrivendo la sua ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia disse che aveva voluto ravvivare in noi lo "stupore eucaristico" (cfr EdE 6). La meraviglia cioè di saper conoscere sempre in maniera nuova; il coraggio di iniziare sempre da capo, sapendo che la conoscenza del mistero non si ferma, ma impone di entrare sempre più in profondità.
Con ragione diceva san Tommaso che contemplatio est actus intellectus! Contemplare è, in primo luogo, aprire lo spazio della mente per conoscere la realtà che mi viene incontro. Non ciò che io produco con il mio pensiero, ma ciò che la mente coglie nel momento in cui si volge all'esterno e si incontra con ciò che esiste! Non stonano, in questo contesto, le parole di s. Anselmo quando scriveva: "Entra nell'intimo della tua mente, manda fuori ogni cosa tranne Dio, tranne tutto ciò che serve a cercarlo e, chiusa la porta, cercalo. Signore, insegna al mio cuore dove e come ti debba cercare, dove e come ti possa trovare. Signore, se tu non sei qui, dove ti cercherò assente? Se poi sei dovunque, perché non ti vedo presente? Ma certamente tu abiti in una luce inaccessibile. Chi mi condurrà a lei perché io ti possa vedere? E poi, da quali segni, da quale aspetto ti riconoscerò? Insegnami a cercarti, e mostrati a chi ti cerca; perché non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderando, che ti desideri cercando, che ti trovi amando, che ti ami ritrovandoti… Io infatti non domando di intendere perché possa credere, ma credo perché possa intendere. Infatti anche questo credo, che se non avrò creduto, non comprenderò" (Proslogion 1). La contemplazione non è una scoperta dell'uomo, ma un'azione della grazia che plasma per essere in grado di comprendere come e dove trovare Dio. A questa scuola dobbiamo restare assidui senza il timore che la contemplazione possa abbagliare a tal punto da non farci vedere bene l'oggetto della nostra ricerca e della nostra adorazione. Può essere d'aiuto, in questo frangente, il senso che gli antichi hanno dato alla contemplazione.

L'evangelista Luca dice che dopo la morte di Gesù "tutti quelli che avevano visto questo spettacolo" se ne andavano via battendosi il petto (Lc 23,48); ebbene, il verbo θεορεω, in greco vuol dire socchiudere gli occhi per vedere meglio; ebbene davanti allo "spettacolo" che affascina e potrebbe impedire di vedere nel modo giusto, abbiamo bisogno di socchiudere gli occhi per concentrarci e mettere a fuoco la bellezza dello spettacolo che si pone dinanzi a noi: la gloria di Cristo risorto".


L'orizzonte del silenzio
Un ulteriore passo che ci viene chiesto di compiere è quello che pone il silenzio come l'orizzonte necessario dell'adorazione. La scena dei magi è, anche in questo caso, significativa. L'evangelista Matteo dice semplicemente: "Entrati in casa videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono" (Mt 2,11). Nella sua semplicità, viene detto tutto. Non una parola viene pronunciata, ma solo l'atto della proskynesis; i magi vedono Gesù e l'unica cosa che fanno è quella di buttarsi a terra e toccare con la fronte il suolo. In questo atto viene plasticamente riferita la loro fede; si prostrano perché in quel bambino vedono il Figlio di Dio. E' interessante osservare che l'evangelista ama molto questo verbo; lo usa in diverse occasioni soprattutto nei racconti dei miracoli. L'atto di adorazione dei magi, tuttavia, viene ripresa da Matteo soprattutto in altre circostanze: quando i discepoli adorano Gesù sulla barca (Mt 14,33) e nei racconti pasquali ("8,9.17). L'adorazione nel silenzio è riconoscimento di essere dinanzi non a un bambino o un uomo, ma al Figlio di Dio.

Se non ci si lascia avvolgere dal silenzio non si è capaci di vera contemplazione. Tra i tanti aspetti che si possono cogliere nel silenzio, due ci riportano al nostro discorso di fondo: nel silenzio si scopre propria condizione personale e l'esigenza di un bisogno insaziabile di Dio. Un breve racconto della saggezza popolare può aiutare a capire quanto il silenzio permetta di entrare nell'intimo e avvicinare l'uomo a se stesso. "Un uomo si recò da un monaco di clausura. Gli chiese: che cosa impari mai dalla tua vita di silenzio? Il monaco stava attingendo acqua da un pozzo e disse al suo visitatore: Guarda giù nel pozzo! Cosa vedi? L'uomo guardò nel pozzo. Non vedo niente! Rispose. Dopo un po' di tempo in cui rimase perfettamente immobile, il monaco disse al visitatore: Guarda ora, che cosa vedi nel pozzo? L'uomo obbedì e rispose: Ora vedo me stesso, mi specchio nell'acqua! Il monaco gli disse: Vedi, quando immergo il secchio, l'acqua è agitata. Invece adesso l'acqua è tranquilla. E' questa l'esperienza del silenzio: l'uomo vede se stesso". Non è necessario aggiungere altro a questo racconto; dice l'essenziale: il silenzio non giunge quando ci si è stancati delle parole, ma è all'origine di ogni parola e la fine di ogni vero parlare.

Kierkegaard in un prezioso frammento dice che:"L'odierno stato del mondo, la vita interamalata. Se fossi medico e uno mi domandasse un consiglio risponderei: crea il silenzio. Porta l'uomo al silenzio". E ancora R. Guardini, agli inizi di questo secolo osservava: "non abbiamo che da guardarci intorno nel mondo che ci circonda per vedere in quale terribile misura il silenzio sia scomparso e scomparirà sempre più per quanto sopravvento abbiano le chiacchiere"; così pure Jung uno dei padri della psicanalisi: "il rumore è benvenuto perché sovrasta l'istintivo avvertimento del pericolo che è in noi. Chi ha paura di se stesso ricerca compagnie chiassose e rumori strepitosi. Il rumore infonde un senso di sicurezza, come la folla, per questo la si ama. Il rumore ci protegge da penose riflessioni, distrugge i sogni inquietanti... è così immediato, così prepotentemente reale che tutto il resto diventa un pallido fantasma". Valgano per tutte le parole del vescovo martire di Cartagine, s. Cipriano: "Ama il silenzio come preghiera del cuore".
 Nel silenzio, comunque, si compie anche un passo successivo: si scopre il bisogno profondo di Dio che niente e nessuno possono sopprimere. Forse, il profeta Geremia ha trovato le parole più giuste per indicare lo stato d'animo coerente, quando scrive: "Quando mi vennero incontro, ho divorato con avidità le tue parole" (Ger 15,16).

La parola di Dio mi viene incontro, ma richiede anche un animo che non sia mai soddisfatto di essa. L'avidità del profeta indica proprio questa insoddisfazione frutto di una fame e di un digiuno forzato a cui bisogna porre rimedio. Sorge qui la via della preghiera. Questa non è fatta, in primo luogo, di una moltiplicazione delle nostre parole o delle nostre richieste, ma della coscienza di essere alla presenza di Dio. La prima vera preghiera, consiste proprio in questo: sapere di essere alla presenza di Dio e ascoltarlo. Solo successivamente si può essere capaci di rivolgere a lui la nostra supplica, perché si è scoperto quanto è nel suo cuore e quanto è necessario che stia nel nostro per poter essere felici. Ci aiuta in questa considerazione un grande maestro della spiritualità, San Giovanni Crisostomo quando scrive: "La preghiera è un bene sommo. E', infatti, una comunione intima con DioDeve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno… Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia di divina" (Omelia 6). Ritornano cariche si significato le parole di Giovanni Paolo II: "E' bello intrattenersi con lui e, chinati sul suo petto come il discepolo prediletto, essere toccati dall'amore infinito del suo cuore" (EdE 25). Queste considerazioni riportano, necessariamente, al punto di partenza. Il cammino della contemplazione passa attraverso la ricerca, la scelta frutto della libertà, la scoperta della presenza di Dio. E' un cammino concreto che conduce dove Dio abita. Certo, Dio lo si può contemplare nella bellezza del creato, nell'amore tra le persone, in tutto ciò che la nostra mente riesce a cogliere come frutto della sua presenza, ma c'è un luogo dove Dio ha posto la sua dimora. Nella Scrittura, "cercare Jhwh" equivale a recarsi nel suo "tempio santo" per avere da lui la risposta che si attende. La contemplazione non è muta; al contrario. Il silenzio in cui si compie è preludio per ascoltare la risposta di Dio.

La scena del profeta Elia è quanto mai significativa in proposito e merita di essere ripercorsa. Il modo migliore per rimarcare l'abbandono pieno a Dio da parte del profeta che soffre per la persecuzione, è quello di andare a cercarlo dove lui si fa trovare. Il cammino verso l'Oreb è quasi obbligatorio. Elia lo sa. Non perché Dio abiti su una montagna, ma perché su quel monte egli ha concluso un'alleanza con il suo popolo. E' necessario, dunque, ritornare alle origini per percepire in pienezza il senso della rivelazione e il significato della fede. Come dopo di lui faranno i profeti Amos e Osea, Elia si mette sulle stesse orme di Mosè e ripercorre la sua stessa esperienza; come dire, la legge e i profeti sono in piena continuità di insegnamento. Si comprenderà al meglio questa prospettiva se si ritorna con la mente alla scena della trasfigurazione sul Tabor quando i tre discepoli vedono accanto a Gesù, Mosè ed Elia (Mc 9,2-8) e si prostrano davanti a lui. Il cammino verso l'Oreb, tuttavia, richiede la rinuncia e la capacità a sapersi inoltrare da soli in mezzo al mistero per lungo tempo. Elia deve lasciare il suo servitore (19,3) e incamminarsi nel deserto da solo, perché la rivelazione del Signore non può avere altri testimoni se non quelli che Dio stesso ha scelto. La scena che viene narrata ha echi molto forti con il racconto dell'Esodo e del Deuteronomio: come Mosè e il popolo ricevettero la manna nel deserto e l'acqua alle sorgenti di Massa e Meriba, così Elia riceve pane e acqua per poter sopportare il duro cammino fino al monte di Dio. Sostenuto miracolosamente nel deserto, così come lo era stato a Zarepta, Elia scopre che la sua vita è preziosa davanti a Dio come lo era la vita di Ismaele quando con Agar venne allontanato dalla tende di Abramo (cfr Gen 21,8-21). Lo scoraggiamento iniziale lascia ora il posto alla speranza di incontrare il Signore. La fatica del lungo cammino ha realmente bisogno della sosta finale; questa saprà garantire al profeta la certezza di essere alla presenza di Dio con la conseguente serenità di avere percorso quanto era necessario per approdare alla meta finale. Il momento dell'incontro di Elia con il Signore consente di ripercorrere le tappe di un vero cammino di fede. Quando l'uomo ricerca Dio vive momenti diversi: delusione, sconforto, entusiasmo, illusione... Il "vento impetuoso e gagliardo da spaccare le montagne e spezzare le rocce", il "terremoto" e il "fuoco" sono segni evidenti di una ricerca umana che pur impellente non riesce a raggiungere l'obiettivo: "Il Signore non era nel vento" né nel "terremoto" né nel "fuoco". Dio si fa trovare dove lui ha stabilito di incontrare ognuno di noi; d'altronde il Dio di Gesù Cristo è proprio quello che va lui per primo in cerca dell'uomo per non lasciarlo nella solitudine della morte. Finalmente, Elia ode "il mormorio di un vento leggero" (19,12) o, forse, come più plasticamente leggono alcuni codici: "nella voce del silenzio". Quando fu dinanzi al silenzio, Elia comprese di essere alla presenza di Dio, per questo si coprì il volto, perché nessuno può vedere Dio e rimanere in vita (cfr Es 34,20) e si prostrò dinanzi al Signore. Alla presenza di Dio nel silenzio, il profeta compie l'esperienza più profonda: vivere nell'intimità di Dio. Le parole adesso non servono più; rimane solo la contemplazione silenziosa che non ha più bisogno di altro che del silenzio dell'amore. Per Elia tutto potrebbe concludersi a questo punto. Il lungo cammino, sostenuto da alcune tappe che hanno segnato una vera sosta di riparo e di sostegno, adesso è terminato. Se così fosse, però, sarebbe ancora l'uomo a dover determinare se non l'inizio, la fine della sua esperienza di Dio. Non può essere così; Dio rimane sempre il protagonista principale che segna l'inizio e la fine di ogni vera rivelazione. Non il profeta, dunque, ma Dio deve dire stabilire la conclusione del suo farsi conoscere. La parola di Dio, dunque, si fa sentire di nuovo: "Che fai qui Elia?" (19,13). Il profeta può finalmente aprire il suo cuore al Signore con fiducia di essere compreso: "Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita" (19,14). Chiunque si aspetterebbe una parola di conforto; d'altronde, questo povero profeta ha sofferto tutto per una giusta causa. Il Signore potrebbe dirgli tranquillamente che adesso troverà per lui, finalmente, un vero posto al riparo di tutto; una nuova abitazione presso il torrente Kerit… I piani di Dio, invece, sono diversi. A Elia è affidata una nuova missione, dovrà ritornare sui suoi passi e ungere re altri prescelti mentre dovrà investire del dono profetico Eliseo (19,15).

Come si può osservare, la scena del profeta Elia può essere vicina alla nostra esperienza di fede e al nostro desiderio di contemplazione; c'è bisogno di riconoscere il silenzio profondo come spazio di essere alla presenza di Dio e c'è bisogno di aprire il cuore per ricevere proprio la missione verso cui siamo inviati. Nella contemplazione, Dio parla e risponde al desiderio del nostro cuore. I salmi, da questa prospettiva, parlano all'unisono e non fanno che ribadire l'idea fondamentale: "Al Signore innalzo la mia voce, e mi risponde dal suo monte santo" (Sl 3,5). Siamo chiamati, insomma, a penetrare sempre di più all'interno del mistero della fede per giungere al culmine con la comunione di vita. La contemplazione rieduca lo sguardo, libera dagli strati delle incrostazioni del nostro vedere sempre e soltanto ciò che vogliamo ed esige una purificazione del cuore: "Crea in me o Dio un cuore puro" che sia capace di vedere il mistero: beati i puri di cuore perché vedranno Dio. La contemplazione si compie nel puntare lo sguardo sul mistero dell'eucaristia che dice sempre la permanente e costante presenza di Cristo in mezzo ai suoi fino alla fine dei tempi.


L'azione della contemplazione
Comprendiamo, a questo punto, la conclusione a cui il Salmo ci aveva preparati invitandoci a contemplare il Signore: "sarete raggianti". La via della contemplazione ha delle conseguenze nella vita quotidiana e nello stile che dobbiamo assumere per essere veritieri testimoni del Risorto. Quando la contemplazione è vera, allora si è avvolti dalla luce. Lo ricorda sempre con profondità spirituale s. Gregorio di Nissa: "Se tieni fisso lo sguardo su Cristo sarà felice l'acutezza della tua vistaFisso in Cristo, potrai contemplare solo lo splendore della verità, la giustizia, l'integrità e ogni bene" (Om Ecc 11,215). Una luce che fa comprendere chi siamo, cosa stiamo facendo, cosa dobbiamo fare e come farlo e dove stiamo andando… "E' in te la sorgente della luce, alla tua luce vediamo la luce" (Sl 36,10). Come non andare con la mente al racconto dell'Esodo quando racconta di Mosè trasfigurato nel volto per il suo stare davanti a Dio fino ad essere costretto di coprirsi con un velo il volto per non danneggiare il popolo che lo vedeva (cfr Es 32,16; 39,29-35). E sulla stessa lunghezza d'onda dobbiamo comprendere le parole di Paolo: "Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria secondo l'azione dello Spirito del Signore" (2 Cor 3,18). Ancora una volta, viene ribadito dall'apostolo che la nostra trasformazione non è dovuta primariamente a un nostro impegno, ma è dono del Signore. C'è una dimensione ricettiva non passiva della contemplazione che implica il lasciarsi amare e plasmare da Dio; è necessario, anzitutto, lasciarsi trasformare che implica il nostro non "conformarci a questo mondo" e ai suoi stili di vita, altrimenti non saremmo più in grado di percepire i segni della presenza di Dio.

Insomma, posti dinanzi a Dio dobbiamo essere capaci di rendere visibile la sua azione in noi! Posti nella contemplazione del suo volto veniamo trasformati per essere noi capaci di mostrarlo agli altri; immersi nel suo amore, diventiamo noi stessi icona dell'amore di Dio. Se, insomma, afferma Paolo, Mosè rimase irradiato per essere stato davanti alla gloria di Jwhw, "tanto più" noi credenti in Cristo dobbiamo essere capaci di far trasparire il frutto della contemplazione; infatti, a differenza di Mosè noi non copriamo il volto e mentre per lui il fulgore era temporaneo, per noi è permanente nel corso della vita. Ecco perché diventiamo liberi, perché agiamo sotto l'azione dello Spirito. Siamo riportati al nostro essere partecipi del banchetto eucaristico e comprendere che quella presenza non è passiva, frutto di una poca convinta partecipazione domenicale, ma domanda e provocazione a cambiare la vita perché diventa essa stessa "eucaristica"; capacità di cambiare noi stessi per essere capaci di trasformare con la nostra vita il mondo.

Siamo chiamati, insomma, a rendere evidente la contemplazione come il punto culminante dell'arte della preghiera; per questo l'esigenza di stare soli con lui per il tempo necessario, vivere una conversazione spirituale con il Maestro, stare in adorazione silenziosa, ma carica di amore è quanto ci viene chiesto per rendere la nostra vita serena e carica di senso. Facciamo nostre le parole di s. Agostino a commento del Salmo con il quale ci siamo introdotti: "Seguendo con la fede, anelando con il cuore, correndo con la carità. I tuoi piedi sono la tua carità. Abbi due piedi, non voler essere zoppo. Quali sono i due piedi? I due precetti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Con questi piedi corri a Dio, avvicinati a lui, perché egli stesso ti esorta a correre, ed egli stesso in questo modo ha diffuso la sua luce in modo che voi possiate seguirlo. E i vostri volti non arrossiranno. Avvicinatevi a lui e sarete illuminati e i vostri volti non arrossiranno" (Esp. In Ps 33,10). Come dire: la contemplazione non è affatto una condizione inerme e statica, è dinamica, è una corsa che permette di avvicinarsi a lui per scoprire finalmente chi siamo




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