Nell'orizzonte
del silenzio
Rino
Fisichella, vescovo ausiliare di
Roma e rettore della Pontificia Università Lateranense
Il
coraggio di saper guardare
"Nella vita dell'uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la
felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, piuttosto nel
vivere in salute. Se uno dopo aver celebrato le lodi della salute, prende cibi
che gli causano malattie, a cosa gli possono giovare le lodi sulla salute? Allo
stesso modo, quando il Signore dice che la felicità non consiste nel conoscere
qualche verità su Dio, ma nell'avere Dio in se stessi: "Beati i puri di
cuore, perché vedranno Dio" Mi pare proprio che Dio voglia mostrarsi faccia
a faccia a colui che ha l'occhio dell'anima ben purificato, ma secondo quando
dice Cristo: Il regno di Dio è dentro di voi (cfr Lc 17,21). Chi ha purificato
il suo cuore può contemplare l'immagine della divina natura nella bellezza
della sua stessa anima" (Omelia 6 sulle beatitudini). Le parole di s.
Gregorio di Nissa (335-394), monaco nella Cappadocia del IV secolo, vescovo di
Sebaste e grande artefice a Costantinopoli nel 381, possono essere una buona
introduzione per verificare il passaggio tra la catechesi che abbiamo ascoltato
sulla ricerca della verità e la sua contemplazione. Possiamo ricercare la
verità e certamente la troviamo, ma la felicità consiste nel poterla
contemplare cioè immedesimarsi in essa a tal punto da vederla riflessa in noi.
I giorni di Köln li ricorderemo per diversi aspetti. L'esperienza che si compie
qui non è comune; possiede tratti di eccezionalità che è facile verificare. In
primo luogo, si può porre l'incontro con migliaia di altri giovani che come noi
esprimono la stessa fede, gli stessi ideali e dubbi come pure lo stesso
desiderio di vivere e dare senso alla vita; dall'altra, un tempo più esteso per
l'ascolto di una parola chiarificatrice che possa sostenere la nostra ricerca,
unito a uno spazio per la preghiera che è difficile trovare nel corso
dell'anno. Per molti di noi, questi giorni saranno ricordati anche per le
scelte che saranno compiute a partire proprio da questa esperienza di vita che,
per tanti versi, è unica la mondo. Oggi, il Signore ci pone sotto gli occhi una
delle esperienze più alte della vita cristiana: la via della contemplazione.
Per alcuni versi, ci troviamo nella condizione di rovinare l'oggetto della
nostra catechesi proprio perché ne dobbiamo parlare. La contemplazione,
infatti, manifesta pienamente ciò che esprime nel momento in cui la si pratica.
E' necessario, tuttavia, parlare e riflettere sulla contemplazione per non
rischiare di perdere la grandezza dei suoi contenuti e per non cadere
nell'illusione che possa disintegrarsi in tanti altri frammenti che ne minano
l'essenza e distolgono l'attenzione. Troppe volte assistiamo a presentazioni di
metodi che vorrebbero avvicinarsi alla contemplazione cristiana mentre, al
contrario, la negano perché pongono tutto sullo sforzo personale dell'individuo
e sulle tecniche per entrare in una fase di meditazione, dimenticando poi il
vero oggetto per cui si fa tanta fatica!
Per entrare in punta di piedi in questo tema della nostra catechesi, ci
lasceremo guidare primariamente dalla Parola di Dio per essere sicuri di non
allontanarci troppo dal difficile sentiero che siamo chiamati a percorrere. Il
primo testo che si affaccia alla nostra mente è la parola del Salmo:
"Guardate a lui sarete raggianti. I vostri volti non arrossiranno"
(Sl 34,6). Se volessimo seguire più fedelmente il testo biblico non dovremmo
dire "guardare a lui", ma tradurre direttamente: "Contemplatelo
e sarete raggianti". Come si nota, siamo posti immediatamente dinanzi al
tema della contemplazione. C'è un imperativo che il salmista ci pone e sembra
non lasciare spazio alcuno. Se vogliamo essere raggianti dobbiamo contemplare
il volto di Dio. Per entrare più direttamente nel merito di questo versetto,
comunque, è necessario inserirlo nel suo contesto. Ciò che colpisce, anzitutto,
è il fatto che il suo autore si identifichi subito come un "povero di
Jhwh": "Questo povero grida e il Signore lo ascolta" (v 7). Ciò
che ci viene fatto conoscere è il frutto di un'esperienza personale; l'autore
sacro, insomma, non fa che fornire un dato autobiografico: davanti alla
grandezza di Dio lui si sente povero e misero. La cosa, tuttavia, tocca in
prima persona anche chi recita il salmo, chi è, d'altronde, il
"povero" se non colui che cerca Dio, che lo teme, che a lui si affida
e in lui si rifugia? Come si può osservare tutte queste espressioni che
ricorrono costantemente nella preghiera dei Salmi, non fanno altro che indicare
l'uomo di fede che si affida a Dio e in lui trova riparo. Un ulteriore dato
autobiografico, comunque, emerge dal salmo: egli è un uomo che cerca Dio; il
versetto lo attesta in maniera inequivocabile: "Ho cercato il Signore e mi
ha risposto, da ogni paura mi ha liberato" (v 5).
Come si vede, la contemplazione è posta all'interno di una duplice esperienza:
avere coscienza di essere povero e per questo nasce l'esigenza di cercare il
Signore.
Non ho ancora fatto tutto
Chi vuole giungere a contemplare il volto del Signore deve saper che ha
dinanzi a sé un sentiero lungo, irto e faticoso che deve percorre con molta
pazienza unita a grande costanza. E' un cammino che dura tutta la vita e che
non conosce sosta alcuna. Non sapremo mai fin dove ci potrà condurre; ciò che
riusciamo a comprendere con maggior facilità, però, è il suo punto di partenza.
A volte, questo si esprime in maniera nebulosa e non si riesce a vedere con
chiarezza cosa viene chiesto; altre volte, invece, è chiarissimo, ma proprio
perché tale non sempre suscita l'entusiasmo dovuto. Cosa potrebbe chiedere,
infatti, il Signore quando bussa alla porta e chiede che gli venga aperto? L'espressione
di Apocalisse non è estranea al nostro contesto: "Ecco sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui,
cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). Suscita sentimenti contrastanti
questa scena: da una parte, è triste vedere che il Figlio di Dio sta davanti
alla porta come fosse un viandante qualsiasi e bussa porta a porta in cerca di
qualcuno che gli apra; dall'altra, proprio questo stare alla porta da parte del
Signore evidenzia ancora di più la nostra libertà e l'attivo esprimersi di
essa. Come ogni atto di libertà, tuttavia, bisogna lasciare qualcosa per aprire
e far entrare il Signore. Questa scena, ci riporta a un'altra ben conosciuta
narrata dal Cantico dei Cantici:
"Io dormo, ma il mio cuore veglia.
Un rumore! È il mio diletto che bussa:
«Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».
«Mi sono tolta la veste;
come indossarla ancora?
Mi sono lavata i piedi;
come ancora sporcarli?»…
Mi sono alzata per aprire al mio diletto
e le mie mani stillavano mirra,
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto allora al mio diletto,
ma il mio diletto già se n'era andato, era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa.
L'ho cercato, ma non l'ho trovato,
l'ho chiamato, ma non m'ha risposto" (CdC 5,2-5).
Non è estraneo
al nostro modo di vivere questo racconto del Cantico. Il Signore sta alla
porta, bussa e chiede di entrare… anche noi lo aspettiamo: "Io dormo, ma
il mio cuore veglia"; eppure, quando giunge troviamo tante scusanti per
non aprire subito quella porta: "sono a letto", "mi sono
cambiata la veste", "mi sono lavata i piedi"…! Quando poi ci
decidiamo, diventa troppo tardi… non possiamo essere noi che impediamo al
Signore di entrare in casa nostra con i nostri sotterfugi. La libertà ha un
costo grande, ma si esprime attraverso l'amore per la verità e per questo ogni
rinuncia in nome della libertà diventa possibile: perché è fatta in nome
dell'amore. Se non ci si sente profondamente amati è difficile esprimere la
libertà. Solo l'amore permette che la rinuncia a cui si va incontro possa
essere assunta come un sacrificio che merita di essere vissuto perché fatto per
amore. In ogni caso, è necessario sottolineare che quando ci si trova dinanzi a
Dio, allora la prima reazione dovrebbe essere quella di scoprire la propria
povertà. Lo insegna un maestro della teologia e della spiritualità antica, s.
Anselmo (+1109), quando nel suo Proslogion scrive: "Mai ti ho visto,
Signore Dio mio, non conosco il tuo volto. Che cosa farà, eccelso signore, che
cosa farà questo tuo esule lontano? Che cosa farà il tuo servo, nell'ansia del
tuo amore e gettato lontano dal tuo volto? Anela di vederti,a ma il tuo volto è
troppo lontano da lui. Desidera inoltrarsi fino a te, ma la tua abitazione è
impenetrabile. Brama trovarti, ma non sa dove stai. Fa di tutto per cercarti e
ignora i tuoi lineamenti. Signore, sei il mio Dio e sei il mio Signore; e non
ti ho mai visto. Tu mi hai fatto e rifatto e mi hai fatto avere tutti i beni
che ho e non so ancora chi sei. Sono stato fatto, infine, per vederti e non ho
ancora fatto tutto ciò per cui sono stato fatto… Se tu hai trovato Dio, perché
non "senti" ciò che hai trovato?... Signore mio Dio, tu mio formatore
e riformatore, di' alla mia anima ardente che cosa altro sei ancora oltre a ciò
che essa ha visto, perché essa vede nitidamente ciò che intravede. Essa si
tende per vedere di più, e tuttavia non vede altro che tenebra oltre ciò che
vede; o no: essa non vede tenebra, poiché in te non v'è tenebra, ma vede che
non può vedere di più a causa della propria tenebra" (Proslogion 1.14)
Ciò che ci deve colpire è proprio quel "nondum feci propter quod factus
sum", non ho ancora fatto tutto ciò per cui sono stato pensato da Dio! E'
questa, come si nota, la consapevolezza che siamo chiamati a scoprire nel
momento in cui ci si accosta a Dio e a contemplare quanto egli opera in noi e
mediante noi: la nostra corrispondenza è sempre troppo poca, non riusciamo a
rispondere per quanto ci ha dato e per quanto siamo! La cosa non deve porci in
uno stato di frustrazione, al contrario; è la provocazione a non fermarsi mai,
a saper andare sempre oltre ogni conquista che abbiamo fatto solo per il desiderio
di giungere a quella pienezza –la "perfezione" evangelica - a cui
siamo stati chiamati e che permette di scoprire la nostra spinta continua e
perenne verso la libertà.
Possiamo conoscere, dunque, la chiamata e l'ingresso di Gesù Cristo nella nostra
vita. E' sufficiente fermarsi un momento per scoprire l'attimo in cui egli si è
fatto presente. La Sacra Scrittura, pagina dopo pagina, non fa che narrare
l'ingresso di Dio nella vita delle persone. Una storia che parla di accoglienza
e di rifiuto e che emerge, passo dopo passo, mostrando la felicità per chi gli
apre la porta e la tragedia per chi al contrario la sbarra a doppia mandata. Il
salmista ripropone la stessa tematica; quando uno si affida a lui, sente:
"Gli occhi di Jhwh sui giusti, i suoi orecchi al loro grido di aiuto"
(v 16), mentre per quanti lo rifiutano valgono le parole: "Il volto di
Jhwh sui malfattori per estirparne dalla terra il ricordo" (v 17). Come si
nota, il volto di Dio può essere luce che illumina, ma anche sorgente di ira
che disperde. A noi spetta cercare di comprendere in quale posizione ci
troviamo e come rispondiamo quando il Signore bussa alla porta della nostra
vita. Insomma, siamo chiamati ad assumere la nostra responsabilità. La
contemplazione, pertanto, non allontana da noi stessi, come qualcuno potrebbe
temere, né distoglie dai nostri impegni quotidiani; porsi in contemplazione, al
contrario, implica la riflessione su noi stessi, sulla nostra vita e su tutto
ciò che la compone. In una parola, la contemplazione opera la prima grande
trasformazione nell'inserire ognuno nel più profondo di sé, nella ricerca del
vero bene che chiede di essere perseguito e della verità su noi stessi che
diventa evidente.
La grazia di lasciarsi vedere
In questo spazio, comunque, si apre anche il lungo cammino della ricerca di
Dio, della sua volontà e di dare tranquillità al nostro desiderio di
contemplare il suo volto. "Il tuo volto, Signore, io cerco; non
nascondermi il tuo volto"; è sempre la preghiera che sentiamo sinceramente
di rivolgere a Dio come termine ultimo del nostro ricercare e come scopo
definitivo della nostra vita. Guardare in faccia il volto di Dio. Proprio qui
scopriamo l'originalità della fede cristiana e la sua profonda e radicale
differenza con altre religioni. "Nessuno può vedere Dio e rimanere in
vita", rimane come l'espressione culmine dell'Antico Testamento. La non
visibilità di Dio è la premessa per porre un confine agli uomini nella loro
tentazione di voler diventare come lui. Ne scaturisce l'imposizione a non farsi
nessuna immagine di Dio e perfino a non pronunciare il suo nome. Per noi
cristiani non è così: il mistero dell'incarnazione indica che Dio si può
vedere, toccare, sentire… lui parla, agisce e provoca a prendere posizione
davanti alla sua persona. Gesù Cristo nel mistero della sua vita rende visibile
il volto del Padre e fa sentire le sue stesse parole: "Filippo, chi vede
me vede il Padre" (….). Questo è in un tutt'uno fondamento, principio e
cuore della religione cristiana: Dio si fa presente e in Gesù Cristo decide di
rimanere con noi per sempre, fino alla fine dei tempi. Non rifletteremo mai a
sufficienza su questo punto che costituisce il culmine a cui una religione può
tendere: la vita di comunione con Dio. C'è un'espressione di Giovanni Paolo II
molto significativa in questo contesto; egli accosta la nascita di Gesù
nell'obbedienza di Maria al nostro dire "amen" nel momento in cui lo
riceviamo sacramentalmente: "C'è un'analogia profonda tra il fiat
pronunciato da Maria alle parole dell'Angelo e l'amen che ogni fedele pronuncia
quando riceve il corpo del Signore.
A Maria fu chiesto di credere che colui che Ella concepiva "per opera
dello Spirito Santo" era il "Figlio di Dio". In continuità con
la fede della Vergine, nel mistero eucaristico ci viene chiesto di credere che
quello stesso Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, si rende presente con
l'intero suo essere umano-divino nei segni del pane e del vino" (EdE 55).
Come si può osservare, la contemplazione a cui siamo chiamati ha un percorso da
compiere, ma fin dall'inizio sappiamo verso dove si deve tendere: fissare lo
sguardo sul volto di Cristo.
Comprendiamo, in questo modo, che il cammino inizia con la scelta di fede che
richiede un progressivo abbandonarsi al mistero con la fiducia di ritrovare se
stessi. Più ci si abbandona a Cristo e più comprendiamo chi siamo. Lo ricorda
sempre il concilio quando pone il mistero dell'uomo nel mistero di Cristo e nel
Verbo incarnato ci viene fatta conoscere la nostra altissima vocazione (GS 22).
La fede, comunque, ha bisogno di conoscere. E' questo che emerge in primo piano
e che condiziona fin dal suo sorgere l'esigenza della contemplazione. E'
necessario, quindi, rispettare alcune tappe che segnano i ritmi del nostro
cammino e permettono di discernere il progresso e la maturazione nella vita di
fede. Adorare, quindi, arriva come il culmine della vita di preghiera e di
crescita nella fede; non sarebbe pensabile una contemplazione senza una
corrispondente conoscenza che immette sempre più all'interno del mistero.
La liturgia ci permette di dare fondamento a questa convinzione; proprio nella
preghiera del giorno dell'epifania –che indica tra l'altro l'adorazione dei
magi - fa pregare così: "O Dio, che in questo giorno con la guida della
stella hai rivelato alle genti il tuo unico figlio, conduci benigno anche noi,
che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua
gloria". Ecco, dunque, il punto di partenza: è necessario avere già
conosciuto nella fede. Sorgono spontanee, a questo punto, alcuni interrogativi:
come è possibile vedere in un po' di pane il volto di Cristo se la fede non
muove il cuore, non cambia gli occhi e trasforma la mente per riconoscere là il
volto del Figlio di Dio che ama e consegna se stesso in un sempre rinnovato atto
di amore? Giovanni Paolo II scrivendo la sua ultima enciclica Ecclesia de
Eucharistia disse che aveva voluto ravvivare in noi lo "stupore
eucaristico" (cfr EdE 6). La meraviglia cioè di saper conoscere sempre in
maniera nuova; il coraggio di iniziare sempre da capo, sapendo che la
conoscenza del mistero non si ferma, ma impone di entrare sempre più in
profondità.
Con ragione diceva san Tommaso che contemplatio est actus intellectus!
Contemplare è, in primo luogo, aprire lo spazio della mente per conoscere la
realtà che mi viene incontro. Non ciò che io produco con il mio pensiero, ma
ciò che la mente coglie nel momento in cui si volge all'esterno e si incontra
con ciò che esiste! Non stonano, in questo contesto, le parole di s. Anselmo
quando scriveva: "Entra nell'intimo della tua mente, manda fuori ogni cosa
tranne Dio, tranne tutto ciò che serve a cercarlo e, chiusa la porta, cercalo.
Signore, insegna al mio cuore dove e come ti debba cercare, dove e come ti
possa trovare. Signore, se tu non sei qui, dove ti cercherò assente? Se poi sei
dovunque, perché non ti vedo presente? Ma certamente tu abiti in una luce
inaccessibile. Chi mi condurrà a lei perché io ti possa vedere? E poi, da quali
segni, da quale aspetto ti riconoscerò? Insegnami a cercarti, e mostrati a chi
ti cerca; perché non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se tu non
ti mostri. Che io ti cerchi desiderando, che ti desideri cercando, che ti trovi
amando, che ti ami ritrovandoti… Io infatti non domando di intendere perché
possa credere, ma credo perché possa intendere. Infatti anche questo credo, che
se non avrò creduto, non comprenderò" (Proslogion 1). La contemplazione
non è una scoperta dell'uomo, ma un'azione della grazia che plasma per essere
in grado di comprendere come e dove trovare Dio. A questa scuola dobbiamo
restare assidui senza il timore che la contemplazione possa abbagliare a tal
punto da non farci vedere bene l'oggetto della nostra ricerca e della nostra
adorazione. Può essere d'aiuto, in questo frangente, il senso che gli antichi
hanno dato alla contemplazione.
L'evangelista Luca dice che dopo la morte di Gesù "tutti quelli che
avevano visto questo spettacolo" se ne andavano via battendosi il petto
(Lc 23,48); ebbene, il verbo θεορεω, in greco
vuol dire socchiudere gli occhi per vedere meglio; ebbene davanti allo
"spettacolo" che affascina e potrebbe impedire di vedere nel modo
giusto, abbiamo bisogno di socchiudere gli occhi per concentrarci e mettere a
fuoco la bellezza dello spettacolo che si pone dinanzi a noi: la gloria di
Cristo risorto".
L'orizzonte del silenzio
Un ulteriore passo che ci viene chiesto di compiere è quello che pone il
silenzio come l'orizzonte necessario dell'adorazione. La scena dei magi è,
anche in questo caso, significativa. L'evangelista Matteo dice semplicemente:
"Entrati in casa videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo
adorarono" (Mt 2,11). Nella sua semplicità, viene detto tutto. Non una
parola viene pronunciata, ma solo l'atto della proskynesis; i magi vedono Gesù
e l'unica cosa che fanno è quella di buttarsi a terra e toccare con la fronte
il suolo. In questo atto viene plasticamente riferita la loro fede; si
prostrano perché in quel bambino vedono il Figlio di Dio. E' interessante
osservare che l'evangelista ama molto questo verbo; lo usa in diverse occasioni
soprattutto nei racconti dei miracoli. L'atto di adorazione dei magi, tuttavia,
viene ripresa da Matteo soprattutto in altre circostanze: quando i discepoli
adorano Gesù sulla barca (Mt 14,33) e nei racconti pasquali ("8,9.17).
L'adorazione nel silenzio è riconoscimento di essere dinanzi non a un bambino o
un uomo, ma al Figlio di Dio.
Se non ci si lascia avvolgere dal silenzio non si è capaci di vera
contemplazione. Tra i tanti aspetti che si possono cogliere nel silenzio, due
ci riportano al nostro discorso di fondo: nel silenzio si scopre propria
condizione personale e l'esigenza di un bisogno insaziabile di Dio. Un breve
racconto della saggezza popolare può aiutare a capire quanto il silenzio
permetta di entrare nell'intimo e avvicinare l'uomo a se stesso. "Un uomo
si recò da un monaco di clausura. Gli chiese: che cosa impari mai dalla tua
vita di silenzio? Il monaco stava attingendo acqua da un pozzo e disse al suo
visitatore: Guarda giù nel pozzo! Cosa vedi? L'uomo guardò nel pozzo. Non vedo
niente! Rispose. Dopo un po' di tempo in cui rimase perfettamente immobile, il
monaco disse al visitatore: Guarda ora, che cosa vedi nel pozzo? L'uomo obbedì
e rispose: Ora vedo me stesso, mi specchio nell'acqua! Il monaco gli disse:
Vedi, quando immergo il secchio, l'acqua è agitata. Invece adesso l'acqua è
tranquilla. E' questa l'esperienza del silenzio: l'uomo vede se stesso".
Non è necessario aggiungere altro a questo racconto; dice l'essenziale: il
silenzio non giunge quando ci si è stancati delle parole, ma è all'origine di
ogni parola e la fine di ogni vero parlare.
Kierkegaard in un prezioso frammento dice che:"L'odierno stato del mondo,
la vita intera ‚ malata. Se fossi medico e uno mi domandasse un consiglio
risponderei: crea il silenzio. Porta l'uomo al silenzio". E ancora R.
Guardini, agli inizi di questo secolo osservava: "non abbiamo che da
guardarci intorno nel mondo che ci circonda per vedere in quale terribile
misura il silenzio sia scomparso e scomparirà sempre più per quanto sopravvento
abbiano le chiacchiere"; così pure Jung uno dei padri della psicanalisi:
"il rumore è benvenuto perché sovrasta l'istintivo avvertimento del
pericolo che è in noi. Chi ha paura di se stesso ricerca compagnie chiassose e
rumori strepitosi. Il rumore infonde un senso di sicurezza, come la folla, per
questo la si ama. Il rumore ci protegge da penose riflessioni, distrugge i
sogni inquietanti... è così immediato, così prepotentemente reale che tutto il
resto diventa un pallido fantasma". Valgano per tutte le parole del
vescovo martire di Cartagine, s. Cipriano: "Ama il silenzio come preghiera
del cuore".
Nel silenzio, comunque, si compie anche un passo successivo: si scopre il
bisogno profondo di Dio che niente e nessuno possono sopprimere. Forse, il
profeta Geremia ha trovato le parole più giuste per indicare lo stato d'animo
coerente, quando scrive: "Quando mi vennero incontro, ho divorato con
avidità le tue parole" (Ger 15,16).
La parola di Dio mi viene incontro, ma richiede anche un animo che non sia mai
soddisfatto di essa. L'avidità del profeta indica proprio questa
insoddisfazione frutto di una fame e di un digiuno forzato a cui bisogna porre
rimedio. Sorge qui la via della preghiera. Questa non è fatta, in primo luogo,
di una moltiplicazione delle nostre parole o delle nostre richieste, ma della
coscienza di essere alla presenza di Dio. La prima vera preghiera, consiste
proprio in questo: sapere di essere alla presenza di Dio e ascoltarlo. Solo
successivamente si può essere capaci di rivolgere a lui la nostra supplica,
perché si è scoperto quanto è nel suo cuore e quanto è necessario che stia nel
nostro per poter essere felici. Ci aiuta in questa considerazione un grande
maestro della spiritualità, San Giovanni Crisostomo quando scrive: "La
preghiera è un bene sommo. E', infatti, una comunione intima con Dio… Deve
essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore.
Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente,
notte e giorno… Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene
dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia di divina" (Omelia 6). Ritornano
cariche si significato le parole di Giovanni Paolo II: "E' bello
intrattenersi con lui e, chinati sul suo petto come il discepolo prediletto,
essere toccati dall'amore infinito del suo cuore" (EdE 25). Queste
considerazioni riportano, necessariamente, al punto di partenza. Il cammino
della contemplazione passa attraverso la ricerca, la scelta frutto della libertà,
la scoperta della presenza di Dio. E' un cammino concreto che conduce là dove
Dio abita. Certo, Dio lo si può contemplare nella bellezza del creato,
nell'amore tra le persone, in tutto ciò che la nostra mente riesce a cogliere
come frutto della sua presenza, ma c'è un luogo dove Dio ha posto la sua
dimora. Nella Scrittura, "cercare Jhwh" equivale a recarsi nel suo
"tempio santo" per avere da lui la risposta che si attende. La
contemplazione non è muta; al contrario. Il silenzio in cui si compie è preludio
per ascoltare la risposta di Dio.
La scena del profeta Elia è quanto mai significativa in proposito e merita di
essere ripercorsa. Il modo migliore per rimarcare l'abbandono pieno a Dio da
parte del profeta che soffre per la persecuzione, è quello di andare a cercarlo
dove lui si fa trovare. Il cammino verso l'Oreb è quasi obbligatorio. Elia lo
sa. Non perché Dio abiti su una montagna, ma perché su quel monte egli ha
concluso un'alleanza con il suo popolo. E' necessario, dunque, ritornare alle
origini per percepire in pienezza il senso della rivelazione e il significato
della fede. Come dopo di lui faranno i profeti Amos e Osea, Elia si mette sulle
stesse orme di Mosè e ripercorre la sua stessa esperienza; come dire, la legge
e i profeti sono in piena continuità di insegnamento. Si comprenderà al meglio
questa prospettiva se si ritorna con la mente alla scena della trasfigurazione
sul Tabor quando i tre discepoli vedono accanto a Gesù, Mosè ed Elia (Mc 9,2-8)
e si prostrano davanti a lui. Il cammino verso l'Oreb, tuttavia, richiede la
rinuncia e la capacità a sapersi inoltrare da soli in mezzo al mistero per
lungo tempo. Elia deve lasciare il suo servitore (19,3) e incamminarsi nel
deserto da solo, perché la rivelazione del Signore non può avere altri testimoni
se non quelli che Dio stesso ha scelto. La scena che viene narrata ha echi
molto forti con il racconto dell'Esodo e del Deuteronomio: come Mosè e il
popolo ricevettero la manna nel deserto e l'acqua alle sorgenti di Massa e
Meriba, così Elia riceve pane e acqua per poter sopportare il duro cammino fino
al monte di Dio. Sostenuto miracolosamente nel deserto, così come lo era stato
a Zarepta, Elia scopre che la sua vita è preziosa davanti a Dio come lo era la
vita di Ismaele quando con Agar venne allontanato dalla tende di Abramo (cfr
Gen 21,8-21). Lo scoraggiamento iniziale lascia ora il posto alla speranza di
incontrare il Signore. La fatica del lungo cammino ha realmente bisogno della
sosta finale; questa saprà garantire al profeta la certezza di essere alla
presenza di Dio con la conseguente serenità di avere percorso quanto era
necessario per approdare alla meta finale. Il momento dell'incontro di Elia con
il Signore consente di ripercorrere le tappe di un vero cammino di fede. Quando
l'uomo ricerca Dio vive momenti diversi: delusione, sconforto, entusiasmo,
illusione... Il "vento impetuoso e gagliardo da spaccare le montagne e
spezzare le rocce", il "terremoto" e il "fuoco" sono
segni evidenti di una ricerca umana che pur impellente non riesce a raggiungere
l'obiettivo: "Il Signore non era nel vento" né nel
"terremoto" né nel "fuoco". Dio si fa trovare dove lui ha
stabilito di incontrare ognuno di noi; d'altronde il Dio di Gesù Cristo è
proprio quello che va lui per primo in cerca dell'uomo per non lasciarlo nella
solitudine della morte. Finalmente, Elia ode "il mormorio di un vento
leggero" (19,12) o, forse, come più plasticamente leggono alcuni codici:
"nella voce del silenzio". Quando fu dinanzi al silenzio, Elia
comprese di essere alla presenza di Dio, per questo si coprì il volto, perché
nessuno può vedere Dio e rimanere in vita (cfr Es 34,20) e si prostrò dinanzi
al Signore. Alla presenza di Dio nel silenzio, il profeta compie l'esperienza
più profonda: vivere nell'intimità di Dio. Le parole adesso non servono più;
rimane solo la contemplazione silenziosa che non ha più bisogno di altro che
del silenzio dell'amore. Per Elia tutto potrebbe concludersi a questo punto. Il
lungo cammino, sostenuto da alcune tappe che hanno segnato una vera sosta di riparo
e di sostegno, adesso è terminato. Se così fosse, però, sarebbe ancora l'uomo a
dover determinare se non l'inizio, la fine della sua esperienza di Dio. Non può
essere così; Dio rimane sempre il protagonista principale che segna l'inizio e
la fine di ogni vera rivelazione. Non il profeta, dunque, ma Dio deve dire
stabilire la conclusione del suo farsi conoscere. La parola di Dio, dunque, si
fa sentire di nuovo: "Che fai qui Elia?" (19,13). Il profeta può
finalmente aprire il suo cuore al Signore con fiducia di essere compreso:
"Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli
Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari,
hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di
togliermi la vita" (19,14). Chiunque si aspetterebbe una parola di
conforto; d'altronde, questo povero profeta ha sofferto tutto per una giusta
causa. Il Signore potrebbe dirgli tranquillamente che adesso troverà per lui,
finalmente, un vero posto al riparo di tutto; una nuova abitazione presso il
torrente Kerit… I piani di Dio, invece, sono diversi. A Elia è affidata una
nuova missione, dovrà ritornare sui suoi passi e ungere re altri prescelti
mentre dovrà investire del dono profetico Eliseo (19,15).
Come si può osservare, la scena del profeta Elia può essere vicina alla nostra
esperienza di fede e al nostro desiderio di contemplazione; c'è bisogno di
riconoscere il silenzio profondo come spazio di essere alla presenza di Dio e
c'è bisogno di aprire il cuore per ricevere proprio lì la missione verso cui
siamo inviati. Nella contemplazione, Dio parla e risponde al desiderio del
nostro cuore. I salmi, da questa prospettiva, parlano all'unisono e non fanno
che ribadire l'idea fondamentale: "Al Signore innalzo la mia voce, e mi
risponde dal suo monte santo" (Sl 3,5). Siamo chiamati, insomma, a
penetrare sempre di più all'interno del mistero della fede per giungere al
culmine con la comunione di vita. La contemplazione rieduca lo sguardo, libera
dagli strati delle incrostazioni del nostro vedere sempre e soltanto ciò che
vogliamo ed esige una purificazione del cuore: "Crea in me o Dio un cuore
puro" che sia capace di vedere il mistero: beati i puri di cuore perché
vedranno Dio. La contemplazione si compie nel puntare lo sguardo sul mistero
dell'eucaristia che dice sempre la permanente e costante presenza di Cristo in
mezzo ai suoi fino alla fine dei tempi.
L'azione della contemplazione
Comprendiamo, a questo punto, la conclusione a cui il Salmo ci aveva
preparati invitandoci a contemplare il Signore: "sarete raggianti".
La via della contemplazione ha delle conseguenze nella vita quotidiana e nello
stile che dobbiamo assumere per essere veritieri testimoni del Risorto. Quando
la contemplazione è vera, allora si è avvolti dalla luce. Lo ricorda sempre con
profondità spirituale s. Gregorio di Nissa: "Se tieni fisso lo sguardo su
Cristo sarà felice l'acutezza della tua vista… Fisso in Cristo, potrai
contemplare solo lo splendore della verità, la giustizia, l'integrità e ogni
bene" (Om Ecc 11,215). Una luce che fa comprendere chi siamo, cosa stiamo
facendo, cosa dobbiamo fare e come farlo e dove stiamo andando… "E' in te
la sorgente della luce, alla tua luce vediamo la luce" (Sl 36,10). Come
non andare con la mente al racconto dell'Esodo quando racconta di Mosè
trasfigurato nel volto per il suo stare davanti a Dio fino ad essere costretto
di coprirsi con un velo il volto per non danneggiare il popolo che lo vedeva
(cfr Es 32,16; 39,29-35). E sulla stessa lunghezza d'onda dobbiamo comprendere
le parole di Paolo: "Noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno
specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima
immagine, di gloria in gloria secondo l'azione dello Spirito del Signore"
(2 Cor 3,18). Ancora una volta, viene ribadito dall'apostolo che la nostra
trasformazione non è dovuta primariamente a un nostro impegno, ma è dono del
Signore. C'è una dimensione ricettiva non passiva della contemplazione che
implica il lasciarsi amare e plasmare da Dio; è necessario, anzitutto,
lasciarsi trasformare che implica il nostro non "conformarci a questo
mondo" e ai suoi stili di vita, altrimenti non saremmo più in grado di
percepire i segni della presenza di Dio.
Insomma, posti dinanzi a Dio dobbiamo essere capaci di rendere visibile la sua
azione in noi! Posti nella contemplazione del suo volto veniamo trasformati per
essere noi capaci di mostrarlo agli altri; immersi nel suo amore, diventiamo
noi stessi icona dell'amore di Dio. Se, insomma, afferma Paolo, Mosè rimase irradiato
per essere stato davanti alla gloria di Jwhw, "tanto più" noi
credenti in Cristo dobbiamo essere capaci di far trasparire il frutto della
contemplazione; infatti, a differenza di Mosè noi non copriamo il volto e
mentre per lui il fulgore era temporaneo, per noi è permanente nel corso della
vita. Ecco perché diventiamo liberi, perché agiamo sotto l'azione dello
Spirito. Siamo riportati al nostro essere partecipi del banchetto eucaristico e
comprendere che quella presenza non è passiva, frutto di una poca convinta
partecipazione domenicale, ma domanda e provocazione a cambiare la vita perché
diventa essa stessa "eucaristica"; capacità di cambiare noi stessi
per essere capaci di trasformare con la nostra vita il mondo.
Siamo chiamati, insomma, a rendere evidente la contemplazione come il punto
culminante dell'arte della preghiera; per questo l'esigenza di stare soli con
lui per il tempo necessario, vivere una conversazione spirituale con il
Maestro, stare in adorazione silenziosa, ma carica di amore è quanto ci viene
chiesto per rendere la nostra vita serena e carica di senso. Facciamo nostre le
parole di s. Agostino a commento del Salmo con il quale ci siamo introdotti:
"Seguendo con la fede, anelando con il cuore, correndo con la carità. I
tuoi piedi sono la tua carità. Abbi due piedi, non voler essere zoppo. Quali
sono i due piedi? I due precetti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.
Con questi piedi corri a Dio, avvicinati a lui, perché egli stesso ti esorta a
correre, ed egli stesso in questo modo ha diffuso la sua luce in modo che voi
possiate seguirlo. E i vostri volti non arrossiranno. Avvicinatevi a lui e
sarete illuminati e i vostri volti non arrossiranno" (Esp. In Ps 33,10).
Come dire: la contemplazione non è affatto una condizione inerme e statica, è
dinamica, è una corsa che permette di avvicinarsi a lui per scoprire finalmente
chi siamo
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