La chiamata a
una vita spesa nell'Amore
Oscar
Cantoni, vescovo di Crema
1. I
Magi prostrati in adorazione: nell'umiltà di un Bambino rifulge la gloria di
Dio
Incominciamo
la nostra riflessione a partire dalla contemplazione dell'icona dei magi in adorazione,
così spesso presente in molte chiese d'Europa. Al termine del racconto di
Matteo (cap. 2), i nostri personaggi – che la sapienza della tradizione
popolare ha sempre rappresentato come appartenenti a tutte le età (il giovane,
l'adulto, il vecchio) e a tutte le razze discendenti da Noè – li vediamo curvi,
"prostrati" verso terra, singolari modelli di ricercatori di Cristo,
davanti al quale piegare le ginocchia in adorazione: "Videro il bambino e…
prostratisi lo adorarono". I Magi adorarono il Bambino di Betlemme,
riconoscendo in lui il Messia promesso, il Figlio unigenito del Padre, in cui,
come afferma s.Paolo, "abita corporalmente tutta la pienezza della
verità" (Col 2,9).
Ci vuole un grande coraggio, da parte di maestri della scienza, ad adorare un
bambino, e per di più, non in una reggia, ma in un'umile dimora. E' il coraggio
di chi è capace di dimenticare le proprie certezze, di farsi piccolo, di
spogliarsi di tutte le presunzioni del sapere, dell'avere, del fare,
dell'apparire, per ubbidire unicamente alla legge del cuore, che intuisce come
il divino ami rivelarsi attraverso il puro linguaggio dell'amore.
In questa luce vanno letti e compresi anche i doni preziosi che i Magi, offrono
al Bambino. Essi accompagnano l' atto di fede e di adorazione nei confronti di
quel Bambino: sono gli stessi doni che Dio attende da ciascuno di noi, quale
attestazione della accoglienza di Lui come Signore della nostra vita: non già
oro, incenso e mirra, ma ciò che essi significano, cioè la nostra intelligenza,
la nostra libertà, il nostro amore.
Poi i Magi, pieni di gioia, ritornano al loro paese, riempiti della gloria di
Dio, che essi hanno saputo riconoscere, per grazia, dentro il volto umile di un
Bambino. Dio, per rivelarsi, non ha bisogni di momenti straordinari, né di
strumenti troppo appariscenti. Egli agisce sempre così: nell'umiltà di una vita
ordinaria, in piena fedeltà alla sua volontà, risplende la gloria di Dio, così
come anche oggi, dentro un semplice e umile pezzo di pane, vivificato dalla
invisibile potenza dello Spirito Santo, rifulge nell'Eucaristia la presenza di
Dio che nutre il suo popolo, e lo sostiene sulle strade del mondo.
2. Gesù: il grande adoratore del Padre
Vivere per la gloria del Padre è l'unico, grande progetto di Gesù. Egli ha
dedicato tutta la sua esistenza terrena nel rivelare il volto del Padre
attraverso le sue parole, i suoi gesti di salvezza aperti a tutti: i malati, i
peccatori, i poveri, i piccoli, in piena e totale obbedienza al Padre.
I suoi pensieri e i suoi progetti sono i pensieri e i progetti del Padre; non
compie opere personali, ma le opere del Padre; non fa la propria volontà, ma la
volontà di Colui che l'ha mandato: la volontà del Figlio è identica a quella
del Padre, per questo può affermare: "Io e il Padre siamo una cosa
sola" (Gv 10,30). I discepoli di Gesù hanno compreso il senso profondo di
questo atteggiamento filiale, che ha caratterizzato l'intera esistenza di Gesù,
solo dopo gli eventi della sua morte e risurrezione, quando lo hanno incontrato
Risorto. Lo Spirito Santo ha dato loro la capacità di interpretare il
significato profondo della sua vita come un'esistenza interamente donata al
Padre e ai fratelli, espressione di un'intima comunione col Padre e con la sua
volontà. Un atto di adorazione, appunto.
Il segno più alto di questa 'glorificazione' del Padre è proprio la morte in
croce di Gesù, perché essa è adempimento di una volontà nel segno dell'amore.
A soffrire è un innocente che si consegna alla morte per portare a compimento
la donazione di tutta la sua vita.
Gesù ha scelto liberamente di dire attraverso la sua vita la verità di Dio e
questo comporta il rischio della condanna. Egli non ha scelto di morire sulla
croce, però ha accettato che la sua vita includesse tale eventualità, perché
caratterizzata dall'obbedienza e dalla fiducia nel Padre e dal dono di sé agli
uomini. Nella meditazione della lettera ai Filippesi (cap 2), s.Paolo ci
ricorda come il Signore Gesù ha percorso la strada della sua esistenza non
tanto come decisione propria, ma come adorazione del Padre. E così l'evento
della croce non è soltanto gesto di solidarietà, ma gesto religioso, atto di
fede, che manifesta in che modo e fino a che punto l'uomo può sottomettersi al
Padre. La croce appare allora non come un episodio tra i tanti della vita di
Gesù, ma come l'estremo segno di una logica di vita che ha caratterizzato tutta
la sua esistenza e, prima ancora, come il modo più opportuno per presentare il
Padre. Svuotarsi delle proprie prerogative divine fino al limite massimo della
croce non è contro Dio o negazione di Dio, ma rivelazione di un Dio che è Altro
da come l'uomo è solito immaginarlo con la sola ragione umana. Emerge allora
non un Dio di potenza, ma un Dio che è condivisione e solidarietà. E neppure un
Dio sconfitto: la croce, come espressione suprema di amore, si apre alla
esaltazione. La croce manifesta la solidarietà di Dio e l'esaltazione manifesta
che questa solidarietà è vittoriosa, nonostante le apparenze. Per cui la croce
è insieme rivelazione e appello di conversione. Manifesta un Dio del tutto
inatteso, che esige, per essere accolto, un totale capovolgimento dei nostri
modi di pensarLo e di rapportarci con Lui.
C'è un'espressione nel Vangelo di Giovanni che risulta molto chiarificatrice in
merito. L'evangelista la pone sulla bocca di Gesù proprio per guidarci nella
comprensione della croce e svelarci il suo significato di adorazione:
"Quando sarò innalzato attirerò tutti a me" (Gv 12,32).
Fermiamoci per un attimo su questo innalzamento. Dice visivamente la modalità
della morte di Gesù (innalzato sulla croce) e il significato del suo morire
(posto in alto, verso Dio). Ma soprattutto chiarisce che il Crocifisso è già il
Risorto: se lo guardi dal basso vedi già nel Crocifisso i tratti del Risorto;
se lo guardi dall'alto vedi nel Risorto i tratti del Crocifisso.
E poi la forza di attrazione del Crocifisso. Egli "attrae" non con la
forza della violenza esteriore, della costrizione, ma con l'attrazione
interiore, affascinando. Ciò che attira in questo modo è solitamente la bellezza
o l'amore o lo splendore di una grande verità o una novità inattesa e che
sorprende. Il Crocifisso innalzato è la rivelazione delle insospettate
profondità, della bellezza e della novità del volto di Dio: un volto che ha i
tratti del dono di sé e della gratuità e della fedeltà dell'amore.
Un Dio che è glorificato, capovolgendo tutte le attese umane: non è l'uomo che
muore per Dio, ma è Dio che muore per l'uomo, anche per chi gli è avverso. Un
capovolgimento che lascia incantati. Anche perché il Cristo innalzato svela che
l'amore, il libero dono di sé, che tante volte appare sconfitto, è, invece,
vittorioso; è l'unica forza che neppure la morte riesce a sconfiggere. E quanto
abbiamo bisogno, noi, oggi e sempre, di sentirci dire questa novità.
Per questo il Crocifisso ci 'attrae', perché mostra con evidenza che la
debolezza del nostro amore – che è anche la debolezza del Suo amore – è più
forte della morte. E Cristo ha adorato il Padre proprio attraverso un cammino
di amore che può essere il nostro.
3. La gloria della Chiesa: amare e servire come Gesù
Segno di amore e forza che attrae, il Crocifisso innalzato è anche punto
dell'incontro. La croce, infatti, è il punto dove gli uomini dispersi e lontani
si incontrano. Una volta innalzata e compresa, la croce riunisce. Si tratta
dell'unità degli uomini fra loro e con Cristo. Gli uomini dispersi si ritrovano
insieme perché ciascuno guarda nella stessa direzione, attratti tutti dalla
stessa Persona. E' così che Gesù fa la Chiesa.
Dunque la comunità cristiana, che nasce da questo innalzamento, ha come unico
compito, nel mondo, quello di 'innalzare', a sua volta, il Crocifisso,
rendendolo visibile e pubblicamente trasparente.
Per glorificare il Crocifisso innalzato questi deve essere raccontato,
annunciato, celebrato e spiegato. Ma occorre anche testimoniarlo, ripetendo le
modalità della sua vita e dei suoi gesti.
E proprio per illustrare il 'come' mostrarlo, ci viene ancora in aiuto il
Vangelo di Giovanni.
Nella cena di addio, l'ultima prima della morte, Gesù compie un gesto
sconvolgente, del tutto inatteso: lava i piedi ai suoi discepoli, perfino a
Giuda, che stava per consegnarlo ai suoi nemici, e anche a Pietro, che poi lo
avrebbe tradito. E' un gesto che rivela il senso della passione imminente, e,
al tempo stesso, traccia la strada della Chiesa nel mondo: "Vi ho dato
l'esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi" (Gv 13,15). Non è
un gesto facile da comprendere. Ma certamente va nella direzione dell'immagine
di Dio che Gesù intende rivelare e che ogni discepolo deve annunciare: cioè di
un Dio che serve ostinatamente l'uomo, anche chi gli è nemico. Inoltre, con il
suo gesto, Gesù manifesta ancora di più la logica di amore, di servizio e di
dono che ha guidato tutta la sua esistenza e che esprime la sua dignità e la
sua natura di Figlio di Dio. E' servendo e donandosi che Gesù diventa
l'immagine viva e fedele del volto umile del Padre e la sua trasparenza.La
gloria di Dio risplende nel suo amore onnipotente, nella sua piccolezza e
umiltà, nel suo profondo rispetto per ciascuno di noi.
Se vuole annunciare al mondo il Dio di Gesù Cristo, se vuole rivelare la sua
vera immagine, la Chiesa non ha altra strada che quella indicata da Gesù: farsi
serva dell'umanità. Il servizio, il dono gratuito di sé, diventa la strada per
ogni discepolo di Gesù. Questa è la sua missione, questa è la sua gloria.
Sempre nel contesto dell'ultima cena, Gesù dona ai discepoli il comandamento
che esprime tutta la novità cristiana: "Vi do un comandamento nuovo: che
vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi gli uni gli
altri" (Gv 13,34). La novità di tale comandamento è indicata soprattutto
dal 'come io vi ho amato'. Gesù chiama i suoi discepoli non solo ad amare gli
altri come amano se stessi, ma ad amare come lui –Gesù - ama. Questa è la
novità. L'amore di Cristo è il modello e la misura, la radice e l'orizzonte
dell'amore reciproco. La Chiesa deve diventare sempre più una comunità che ama
con la stessa intensità e con la stessa passione con cui Cristo ama: una
comunità in cui sia possibile sperimentare, in modo palpabile, l'amore di Dio
per tutti, non solo un esempio dell'amore di Dio per noi. E questo attraverso
una esperienza di comunione gratuita e universale, in cui nessuno si senta
escluso o ignorato; dove il primo non è colui che conta di più, ma colui che
serve, ossia che ama di più.
Sempre nella cena d'addio, Gesù ci riserva un'altra indicazione preziosa:
"Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo" (Gv 17,15). Se
vuole annunciare il Signore Gesù, la comunità cristiana deve essere diversa dal
mondo, dalla sua logica fondata sulla contrapposizione, sul potere del più
forte o del più astuto, ma con la stessa stile usato da Gesù. Cioè non una
diversità che allontana, rende assenti, fa estranei e pone 'contro' il mondo.
Al contrario, il mondo è al centro degli interessi di Gesù; è la ragione per
cui è venuto: per amarlo e salvarlo. Ecco la diversità: Gesù non è "di
questo mondo" proprio perché ama veramente e disinteressatamente il mondo.
Mentre il mondo conosce solo l'amore interessato e di parte; il mondo sceglie
chi preferire e chi vuole escludere. Il mondo privilegia quelli che contano,
mentre separa quelli che non rendono, che non producono. Tutto il contrario
dell'amore di Dio. La Chiesa è chiamata dentro questo mondo a proclamare la
gloria di Dio mediante un'amicizia aperta a tutti e particolarmente ai poveri,
i quali sono chiamati ad essere i primi nella comunità dei cristiani. I poveri
sono quelli che non hanno niente da dare in contraccambio. Chi si occupa di
loro non riceve niente in contraccambio. Il servizio a loro e il rapporto con
loro sono la vera prova che la compassione non ha limiti. E la compassione, la
misericordia, la tenerezza sono il vero volto del Dio di Gesù Cristo.
4. Il cristiano rende gloria a Dio mediante il "culto
spirituale" (Rom. 12)
Siamo in grado ora di comprendere il significato del "segno"
compiuto da Gesù –secondo il racconto dell'evangelista Giovanni, al cap.2,vv13
e ss – quando ha cacciato i mercanti dal tempio di Gerusalemme. In quel gesto
c'è tutta l'indignazione di Gesù contro tutto un sistema religioso organizzato
attorno al tempio, perché vede come questo sistema, invece di essere al
servizio di Dio, lo vuole tenere prigioniero. Così anche tutto il culto fatto
di riti, di sacrifici e di osservanze esteriori che possono correre il rischio
di dare un carattere mercantile alle nostre relazioni con Dio, vanificando il
carattere della pura gratuità. Dio non si può negoziare o comperare, né con
pecore, né con buoi, né con offerte di denaro, né con devozioni che poi
pretendono una ricompensa. Questo non è il vero culto, la vera adorazione del
Padre. E' un traffico religioso che non piace ad un Dio, la cui unica logica è
quella di essere dono.
Naturalmente i presenti chiedono una spiegazione dell'accaduto. E Gesù:
"Distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere".
Giovanni si premura subito di darci la chiave per capire queste parole: Gesù
non intendeva parlare del tempio di pietra, ma del tempio del proprio corpo. Il
suo corpo crocifisso e risorto è il vero luogo della presenza e dell'incontro
con Dio; il suo corpo "spezzato" è la vera adorazione del Padre, il
vero e unico atto di culto.
L'apostolo Paolo ha compreso molto bene questo insegnamento, lo ha vissuto in
prima persona. Scrivendo ai cristiani di Corinto, a proposito di tempio, dice
loro: "Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita
in voi?" (1Cor 3,16), evocando ed esortando chiaramente ad un culto con la
vita. E ormai al termine della sua missione scrive ai cristiani di Roma:
"Vi esorto… ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio: questo è il vostro culto spirituale" (Rom 12,1).
Il modo con cui glorificare Dio non passa più attraverso i sacrifici e gli
olocausti, ma attraverso la nostra vita interamente sottomessa a Dio, simile a
quella di Gesù. La gloria di Dio si manifesta attraverso la nostra libertà, non
più in balìa delle passioni che ci dominano, ma interamente trasfigurata, che
accetta di compiere tutto il bene che Dio ci mette in grado di operare. Anche
noi diamo gloria a Dio quando facciamo conoscere il Dio umile e compassionevole
attraverso le nostre parole, i nostri gesti e le nostre vite insieme. La gloria
di Dio si manifesta attraverso di noi quando decidiamo di fare di tutta la
nostra vita un grande atto d'amore, quando usiamo le nostre competenze non come
mezzo di affermazione personale, ma come una occasione per servire. La gloria
di Dio si manifesta in noi mediante la nostra testimonianza di credenti,
presenza che diventa come un lievito nella pasta, dentro i più disparati
ambienti di vita professionale, nel mondo della cultura, dell'economia, della
politica, dove è urgente il servizio all'uomo e la difesa della sua dignità. Ogni
luogo diventa occasione per amare e servire purché il discepolo di Gesù si
impegni a vivere coerentemente la logica del dono di sé.
Espressiva del desiderio di vivere per la gloria di Dio nella totale donazione
di tutto se stesso è la celebre preghiera di s.Ignazio di Lojola: "Prendi,
Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e
tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo: tu me lo hai dato, a te,
Signore, lo ridono, tutto è tuo, disponine a tuo piacimento, dammi il tuo amore
e la tua grazia, chè questa mi basta" (E.S. 234)
Il culto vero a cui siamo chiamati non consiste perciò in un atto particolare,
circoscritto dentro uno spazio sacro delimitato: è piuttosto un modo di essere
che riguarda e coinvolge l'intera nostra esistenza, che accetta anche il
sacrificio e la fatica di una vita spesa nell'amore.
Non a caso la forma essenziale del culto cristiano si chiama
"eucaristia", cioè rendimento di grazie. Per cui il rendimento di
grazie deve caratterizzare l'intera vita del credente. Attraverso l'Eucaristia
il cristiano impara a "non vivere più per se stesso" ma per amore del
proprio Signore e Maestro e in ottemperanza al suo mandato: "fate questo
in memoria di me". Non si tratta solo di compiere di tanto in tanto delle
prestazioni, dei servizi, pur buoni che siano, ma, più in profondità, scegliere
di divenire servi, acquisire liberamente e per amore le qualità del Servo del
Signore. Nell'offerta di sé il cristiano svolge il più alto ringraziamento, la
più vera adorazione a Dio Padre che noi possiamo realizzare.
Segno particolarmente eloquente di questa dimensione di offerta sacrificale è
la vicenda di p. Christian de Chergé, priore del monastero di Notre-Dame de
l'Atlas, ucciso insieme a sei suoi confratelli, in Algeria nel 1996. La morte
di questi giovani monaci trappisti ha scosso il mondo, e soprattutto la
Francia, loro terra d'origine. Molti si sono domandati quale fosse il
significato del loro morire e della loro permanenza in terra d'Algeria, un
territorio a larga misura mussulmano. Tre anni prima di essere sgozzato,
p.Christian aveva redatto un "testamento spirituale" in cui prevedeva
anche la possibilità di una morte cruenta.Nello stesso tempo si rivolgeva con
uno stile lucido, ma fraterno, al suo ignoto uccisore, offrendogli fin da
subito il suo perdono: atto supremo di un amore che è simile a quello di Gesù.
Ci fa bene riascoltarne dei passaggi.
"Se piace a Dio, potrò immergere il mio sguardo in quello del Padre, per
contemplare con lui i suoi figli dell'Islam come lui li vede, totalmente
illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del
dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione
e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Di questa vita
perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra
averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto. In
questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente
voi, amici di ieri e di oggi… E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non
avrai saputo quel che facevi. Si, anche per te voglio questo grazie e questo
ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in
paradiso, se piace a Dio, Padre nostro e di tutti e due. Amen. (Più forti
dell'odio, pp. 182-183).
Nessuno può
giungere al dono supremo di sé senza una necessaria preparazione previa, le cui
radici risalgono da molto lontano, senza aver acquisito una mentalità di dono
tale da accettare di morire come suprema testimonianza di fedeltà e di amore.
Ma è proprio attraverso questo gesto radicale e definitivo che risplende, al di
là di ogni fallimento umano, la rivelazione della gloria di Dio, che usa da
sempre i piccoli e i poveri come strumento per manifestare la sua potenza. Una
potenza fondata sull'amore e sul perdono.
Concludo con un racconto che appartiene alla tradizione della Chiesa ortodossa
e che ci ricongiunge ai re magi di cui abbiamo parlato all'inizio. Parla di un
quarto re magio, di un quarto saggio che vede anche lui la stella, la segue, ma
non arriva né a Betlemme né altrove per adorare il re che la stella aveva
annunciato.
Lungo il viaggio incontra tanti poveri che hanno bisogno del suo aiuto e si
ferma a soccorrerli, spendendo per essi tutto quello che era destinato al nuovo
re.
La fede, quella adorante, non è qualcosa di diverso dall'amore e l'amore non è
separabile dall'umiltà. Ecco la stupenda lezione dei Magi. I "veri
adoratori in spirito e verità", sono coloro che, pur venendo come i Magi
da molto lontano, sono capaci di compiere i gesti essenziali dello spirito
religioso: la ricerca, il dono e l'adorazione.
E ancora loro ci ricordano che il cammino più breve tra l'uomo e Dio è la carne
segnata dalla debolezza, quella di Gesù e quella di tutti coloro che, come Lui,
sono deboli e indifesi: una carne da onorare, da proteggere, da amare:
"quello che avete fatto al più piccolo… lo avete fatto a me" (Mt
25,45).
È l' "altra strada" percorsa dai Magi per raggiungere la loro meta.
E' l'altra strada che possiamo percorrere anche noi nel nostro impegno di
servizio ai fratelli, più poveri, malati o soli, spazio privilegiato in cui
risplende la gloria di Dio.
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