Un Dio «in
discesa»
Vincenzo
Paglia, vescovo di Terni
Gioirono al vedere la stella…
Cari amici, come
possiamo aprire questo nostro incontro senza ricordare colui che per primo ci
ha dato l'appuntamento a Colonia, Giovanni Paolo II? Era l'ultimo giorno della
GMG di Toronto e Giovanni Paolo, con la sua flebile eppure fortissima voce ci
diede appuntamento a Colonia. E siamo venuti. E lui c'è. E lo incontriamo. Sta
in mezzo a noi, ancor più di prima, e più felice ancora che in passato. Chi di
noi riesce a togliersi dalla memoria quel nostro grido, "Giovanni Paolo!
Giovanni Paolo!", che ha scandito gli anni delle GMG? Per 26 anni ci ha
fatto alzare lo sguardo verso la stella; potremmo dire che lui stesso era
divenuto una stella, per noi e per il mondo. L'abbiamo seguito da Roma e poi
nelle altre città del mondo sino a giungere qui, a Colonia. E sempre abbiamo
vissuto giornate indimenticabili che ci hanno aiutato a vivere e a lavorare per
un mondo di giustizia, di amore e di pace.
La scomparsa di Giovanni Paolo II ci ha fatto tornare a Roma in tanti: volevamo
stringerci attorno a lui per dirgli tutto il nostro affetto e il nostro grazie.
In quei giorni di aprile la tristezza era tanta, e un senso di vuoto incombeva
su tutti. E tuttavia l'eredità che ci aveva lasciato ci bruciava nel cuore. Non
potevamo e non volevamo fermarci. Abbiamo raccolto il suo sogno e abbiamo
ripreso il cammino. E in quei giorni accadde anche a noi il miracolo dei magi.
Scrive l'evangelista Matteo: "Ecco che la stella, che avevano visto nel
suo sorgere, li precedeva". Sì, anche nel nostro cielo è riapparsa la
stella che ci sembrava scomparsa: è venuto Benedetto XVI e ci ha indicato di
nuovo la stella. E noi "al vederla abbiamo provato una grandissima
gioia". Sì, papa Benedetto – un uomo, un nome che parla di pace e di
Europa - ci ha riproposto lo stesso sogno di Giovanni Paolo II. E siamo
venuti a Colonia seguendo la stessa stella. Non siamo a caso qui: ci ha guidato
un uomo che si chiama Benedetto. E ci ha condotto nel cuore dell'Europa per
ritrovarci attorno a Gesù, per dire a tutti che è Gesù il tesoro deposto nel
cuore del mondo, nel cuore di ogni continente, nel cuore di ogni nazione, nel
cuore di ogni uomo e di ogni donna. È un tesoro che non viene né dalla natura
né dalla cultura e neppure dalla civiltà, ma dall'alto, come sta scritto: il
"Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi"(Gv 1, 14).
Purtroppo il mondo, ancora una volta, non se n'è accorto. Il prologo del
Vangelo di Giovanni nota amaramente: "Venne tra i suoi, ma i suoi non
l'hanno accolto". È un'affermazione che deve farci riflettere e renderci
pensosi. È facile non accorgerci di Gesù che bussa alla porta del cuore; è
facile essere presi da se stessi e non pensare a quel bambino ch'è nato.
Per
incontrare un bambino
Eppure
quel bambino ha cambiato il corso della storia. I cristiani, se ne resero conto
e iniziarono a contare gli anni a partire proprio da quel giorno. E sono tanti
oggi coloro che contano gli anni dividendoli in prima e dopo la nascita di
Gesù, anche se molto magari non sanno più cosa vuol dire. Per noi però è
chiaro; gli anni iniziano a contare da quel gesto incredibile di amore. Senza
quell'amore non conta più nulla, né i giorni, né gli anni, né le ricchezze.
Quante volte anche noi facciamo l'esperienza amara di non essere più voluti
bene e nulla ci sembra più contare. Ma da quel giorno nessuno può più dire di
non essere voluto bene. C'è almeno uno, Gesù, che è pazzo di amore per noi, per
me, per te, per tutti. Egli ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi. Per
questo resta tra noi anche se poche volte pensiamo a lui, e anche se davvero
pochi nel mondo se ne accorgono.
Del resto anche in quel primo Natale furono pochi ad accorgersi di quel
bambino: alcuni pastori, uomini disprezzati da tutti, e i tre magi. Erano un
gruppo di poveracci e tre ricchi stranieri. I pastori e i magi, pur essendo
molto diversi tra loro, avevano una cosa in comune: il cielo. E fu il cielo a
muoverli. I pastori non si mossero verso quella grotta perché erano buoni o
perché avevano capito, ma perché alzando gli occhi al cielo videro l'angelo,
ascoltarono la sua voce e obbedirono. Così pure i magi. Non lasciarono la loro
terra per una nuova avventura o per chissà quale strano gusto; certo, essi
attendevano un mondo diverso, più giusto, e per questo scrutavano il cielo:
videro quindi una "stella" e fedelmente la seguirono. I pastori e i
magi, cari amici, ci suggeriscono che per incontrare Gesù bisogna alzare lo
sguardo da se stessi per non restare prigionieri dei propri piccoli orizzonti,
delle proprie abitudini scontate, della propria pigrizia. L'angelo del Signore
e la stella del Vangelo ci guideranno verso quella grotta per adorare il
Bambino ch'è nato.
E Colonia, in questi giorni, è per noi quel che fu Betlemme per i magi. Anche
noi in questi giorni, come sta scritto, vedremo "il bambino con Maria sua
madre", e assieme ai magi e a tanti fratelli e sorelle venuti da ogni
parte del mondo, "prostrati lo adoriamo". Quei singolari personaggi,
giunti in quel singolare santuario, pur essendo re, si inginocchiarono davanti
a quel bambino. Loro ch'erano abituati a ricevere onori ed ossequi, si prostrarono
davanti ad un bambino. Sembrò un gesto strano; ma in quel bambino, debole e
indifeso, avevano riconosciuto il loro Salvatore.
Ben diversa fu la reazione di Erode e degli abitanti di Gerusalemme. Appena
seppero del bambino non sentirono la gioia dei magi o dei pastori; al
contrario, tutti si turbarono. Il popolo non voleva perdere le abitudini, ed
Erode non voleva perdere il trono. La loro reazione, cari amici, non è estranea
a quella di questo nostro mondo. Quanti vogliono costruire una società ricca,
tranquilla e consumista ove non ci sia spazio mentale per l'altro e per quanto
va oltre se stessi e le proprie preoccupazioni! L'obiettivo di tutti è la
tranquillità e il benessere per sé; e da ottenere subito. L'uomo e la donna,
soprattutto occidentali, i nostri amici che incontriamo a scuola, al mercato,
in ufficio, per strada, sono ripiegati su di sé, concentrati su di sé. Qual è
il problema che li accomuna? Essere soddisfatti, nel senso del piacere della
propria vita, del proprio corpo, dei propri sentimenti. E quale lo scopo della
vita? Stare tranquilli. Ma in questo modo si costruisce un mondo di soli, un
mondo di uomini e di donne soli, di ragazze e di ragazzi soli, di anziani soli…
L'amicizia, quella vera, è rara, davvero rara. Tanto che per attirare un poco
l'attenzione su di sé si debbono fare i salti mortali, tanto più alti quanto è
più duro il cuore di chi ci sta vicino. La preoccupazione costante per noi
stessi ci rende distanti gli uni dagli altri, anzi ci rende competitivi,
concorrenti, potenziali nemici, e quindi porta a non fidarci mai l'uno
dell'altro. Fin da bambini, infatti, ci sentiamo dire: "preoccupati di
te!", "pensa a te!", "se non pensi a te stesso, nessun
altro si preoccuperà di te". E il clima di paura che sta invadendo il
mondo non fa che acuire il ripiegamento su se stessi, sul proprio paese, sulla
propria etnia, o anche sulla propria civiltà. Sì, la paura fa chiudere le
porte, fa sbarrare le finestre, fa serrare le frontiere, fa vedere gli altri
come nemici. E ritorna, più forte ancora che in passato, il terribile
ritornello: "pensa a te stesso", "difendi anzitutto te
stesso". E tanti ormai hanno smesso di sognare un mondo più giusto e più
bello per tutti, un mondo ove nessuno sia escluso dalla vita e tutti possano
vivere con pienezza. È il sogno di Dio sul mondo, un sogno che inizia a partire
da quel Bambino.
Un Dio
in discesa
Egli ci
ha chiamati qui a Colonia perché anche noi fossimo partecipi del sogno del
Bambino di Betlemme. Quel Bambino infatti è l'unico che si preoccupa non di se
stesso, non degli interessi del suo paese, non di quelli di una civiltà, ma del
mondo intero, di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Quel Bambino è Dio che
si è fatto uomo per salvare tutto l'uomo, ogni uomo. È questo il mistero grande
che siamo venuti a contemplare a Colonia, un mistero che anche oggi sembra
nascosto ai sapienti e agli intelligenti, ai potenti e ai ricchi. Ma non è
nascosto ai piccoli, non è nascosto a noi giovani che ci siamo lasciati guidare
dalla stella come i magi. E il mistero è proprio questo: Dio ha scelto di
chinarsi su di noi per salvarci, per renderci liberi, per renderci felici, per
liberarci dalla schiavitù della solitudine e della morte.
Ricordate quel che scrive il libro dell'Esodo a proposito della schiavitù del
popolo d'Israele in Egitto? Dio disse a Mosé: "Ho osservato la miseria del
mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti…e sono
sceso a liberarlo…per farlo uscire da questo paese per un paese più
bello"(Es 3, 8). Ebbene, da quel momento la storia di Dio è la storia di
un amore in discesa; un amore che scende in basso verso di noi, fino al dono
dello stesso Figlio. Il Bambino che siamo venuti ad incontrare è il Figlio di
un Dio che non è voluto più restare in cielo a godersi la sua divinità. E
possiamo immaginare nel paradiso quel colloquio tra il Padre e il Figlio che
bruciavano d'amore, lo Spirito Santo, quando si trattò di decidere
l'incarnazione. Lo so che stiamo balbettando, ma lo stupore di fronte a tale
amore ci spinge a farlo. In quell'attimo eterno, il Figlio, di fronte al Padre
che era sempre più disperato per la tragedia nella quale gli uomini si stavano
cacciando, disse senza indugio: "Ecco, manda me!". "E il Verbo
si fece carne". Ed è venuto anche se gli uomini, anche se noi, gli sbattiamo
la porta in faccia, tanto che deve nascere in una stalla. Quel Bambino, che
siamo venuti ad adorare, è la prima persona al mondo che ama gli altri più di
se stesso. È colui che ha sconfitto la legge ferrea dell'amore per sé che
teneva schiavi gli uomini da sempre. Sì, quel Bambino ha strappato dal principe
di questo mondo il suo punto di appoggio per soggiogare gli uomini al male:
l'amore per se stessi.
Cari amici, Erode e gli abitanti di Gerusalemme lo avevano capito. Per questo,
alla notizia della sua nascita, si preoccuparono. Il grande Erode e il popolo
della capitale avevano paura di un Bambino! Forse avevano ragione: avevano
intuito che il mondo cambiava a partire da quel Bambino, da quell'amore. Era
vero. L'amore di Gesù detronizza ogni violenza, ogni oppressione, ogni
ingiustizia. Lo aveva capito bene Maria, che poco dopo cantò il magnificat: Dio
"disperde i superbi pensieri nei pensieri del loro cuore, rovescia i
potenti dai loro troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda
i ricchi a mani vuote"(Lc 1, 51-53); lo avevano capito poi Giuseppe, i
pastori e i magi.
Ci ha
amati sino alla fine
Quel
bambino visse l'intera vita amando gli altri più di se stesso, dal primo giorno
sino all'ultimo quando fu messo in croce. La pagina del Vangelo di Luca in cui
si narra la crocifissione è segnata da un ritornello: "salva te
stesso!", "salvati e ti crederemo!". Glielo gridavano i
sacerdoti, la gente, i farisei, i due ladroni. Era un coro unico: "salva
te stesso!". Questo grido era, ed è ancora, il vangelo unico di questo
mondo: "salva te stesso!" Ma come poteva salvare se stesso, Gesù, che
era vissuto per salvare gli altri? Lo aveva anche detto: "non sono venuto
per esser servito, ma per servire". Fin dall'inizio della sua vita pubblica
lo ha mostrato, quando si commosse sulle folle stanche e sfinite, come pecore
senza pastore. Lui, buon samaritano, si è fermato lungo le strade degli uomini
per curare i malati, i soli, gli abbandonati, gli esclusi, i poveri, i malati
di AIDS, i carcerati, i condannati a morte. Non manda indietro nessuno. Non si
risparmia in nulla. Dà tutto se stesso. Questa è la ragione profonda della
croce. Gesù non voleva morire. E lo disse: "Padre, se è possibile
allontana da me questo calice". E sudava sangue per la paura e il dolore.
Ma non poteva tradire il Padre, non poteva tradire il Vangelo e quegli amici
che aveva radunato… li amava più della sua stessa vita. Per questo accettò la
croce.
Ebbene, cari amici, non c'era posto per uno come lui nel mondo. Come non c'è
posto in questo nostro mondo per chi pone l'amore al di sopra di tutto. Gesù
poteva fuggire da Gerusalemme, e si sarebbe salvato; poteva fare qualche
piccolo compromesso con Pilato, il quale peraltro glielo fece capire, ma Gesù
non poteva addomesticare il Vangelo, non poteva addolcire la robustezza e la
serietà del vivere per gli altri e per il Padre. Per amore, non fuggì e accolse
anche la croce. L'amore di Gesù per noi è più forte dell'amore che aveva per
sé. Per questo è morto. Quella croce perciò è il segno di uno che ama sino alla
fine, è la manifestazione di una umanità alta, non banale, che ha trasformato
quel patibolo infamante in un segno altezza morale indicibile. La croce era uno
scandalo; potremmo immaginarla come l'odierna sedia elettrica. Chi la
onorerebbe? chi la innalzerebbe? Noi, invece, onoriamo e innalziamo la Croce,
perché indica la vittoria della vita sulla morte, la vittoria dell'amore
sull'egoismo. Da quel venerdì santo, l'egoismo non è più una legge inesorabile;
e amare solo sé stessi non è più un istinto invincibile. Su quella croce ha
trionfato l'amore per gli altri: Gesù sta sulla croce, non perché gli piaceva
soffrire, ma perché ha amato il Vangelo e gli uomini più della sua stessa vita.
In questo senso su quel legno è stato restaurato l'uomo. Sì, dalla croce nasce
un nuovo umanesimo, un nuovo modo di essere uomini e donne, un nuovo modo di
concepire la propria vita, la propria esistenza. E ce lo mostrano subito la
madre di Gesù, Maria, e il giovane discepolo, Giovanni. Scrive l'evangelista:
""da quel momento il discepolo la prese con sé"(Gv 19, 27).
Dalla croce sgorgava una nuova vita, una nuova solidarietà.
L'inizio di questo terzo millennio ha bisogno della Croce di Gesù e dell'amore
che da essa sgorga; questo nostro mondo ha bisogno di uomini e di donne che si
stringano attorno ad essa come facciamo noi in questi giorni. La Croce deve
risplendere nella notte della paura e degli egoismi per indicare la nuova
strada dell'amore: "da quel momento la prese con sé". Questa via non
è solo religiosa, è anche umana, pienamente umana. Il nuovo millennio – e
domani ne parleremo più diffusamente - sembra basarsi sempre più sulla
ragione delle armi e sulla forza della violenza. È sempre più facile parlare di
guerra. Ma noi abbiamo bisogno di un'altra lingua: quella dell'amore, quella
dell'incontro, quella della compassione, quella dell'amicizia. Gesù ha chiamato
amico anche chi stava per tradirlo. E dalla croce ha perdonato anche chi lo
stava crocifiggendo. La croce è la forza dell'amore, è la forza del primato del
voler bene, è la forza di poter legare la propria vita agli altri. È di qui che
inizia la risurrezione, è di qui che nasce la nuova vita. L'apostolo Paolo lo
scrive ai Filippesi: "Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in
Cristo Gesù". E quali erano i sentimenti di Gesù? Paolo continua:
"Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha
esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome"(Fil
2). Paolo dice chiaramente che la risurrezione sgorga da quell'amore che ha
portato Gesù sino alla croce. Dice infatti: "per questo", ossia per
il suo amore che lo ha portato sino alla morte, Dio "l'ha esaltato e gli
ha dato il nome che è al sopra di ogni altro nome". Non è possibile
comprendere la risurrezione senza la croce, ossia senza l'amore di Gesù. E noi
questo amore lo abbiamo ricevuto in dono. Sì, perché è un amore che non si
trova tra gli uomini. Cari amici, non è naturale voler bene agli altri, non è
naturale pensare agli altri prima che a sé, non è normale dare la propria vita
per gli altri. Questo tipo di amore è divino, viene dall'alto non da noi.
Questo amore si chiama Spirito Santo. E viene effuso nei nostri cuori da Dio
stesso. Per questo dobbiamo chiedere a Dio che ci doni il suo Santo Spirito,
che ci riempia del suo amore.
L'Eucarestia, sacramento dell'altare
Questo mistero d'amore ha per noi un nome: l'Eucarestia. Sì, cari amici,
prima di morire sulla croce Gesù ha voluto lasciarci il suo mistero d'amore
racchiudendolo nell'Eucarestia. Ricordiamo le parole dette da Gesù in quella
cena del giovedì santo: "Questo è il mio corpo... Questo è il mio
sangue". Nel linguaggio semitico significano semplicemente: "Questo
sono io stesso". Davvero è un "mistero della fede", come diciamo
nella santa liturgia; ed è un mistero grande! Ma più che di una realtà
misteriosa nel campo intellettivo – come sta Gesù nel pane e nel vino? -
si tratta di un inconcepibile amore e per questo è un mistero. Insomma, chi
avrebbe potuto immaginare una cosa simile? Quel pane e quel vino sono veramente
il corpo di Gesù. Era davvero difficile inventare una cosa più grande di questa
per restare assieme ai discepoli di tutti i tempi! Potremmo dire che Gesù per
restarci accanto ha inventato l'impossibile. L'Eucarestia è il miracolo dell'amore
di Gesù. E' con gli occhi del cuore che dobbiamo contemplare il mistero della
sua reale presenza tra noi.
San Giovanni Crisostomo, questo grande vescovo della prima Chiesa, diceva:
"I Magi hanno adorato questo corpo reclinato nella mangiatoia…Ma tu lo vedi
non più nel presepe, bensì sull'altare". Questa intuizione l'ebbe anche
San Francesco di Assisi. Ricordate tutti l'episodio del presepe a Greccio.
Purtroppo è spesso mal conosciuto. Era il 1223 e Francesco voleva vivere
davvero il Natale. Chiamò l'amico Giovanni Velita e gli disse: "Quest'anno
voglio vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato Gesù nel
nascere". Badate bene, non voleva fare una sacra rappresentazione, come in
genere si pensa. No, Francesco voleva "vedere" con gli occhi l'amore
di Dio che, pur di starci accanto, accettava di nascere nel freddo di una
grotta. E il presepe che fece Francesco non fu una sacra rappresentazione, ma
la celebrazione della Messa su una mangiatoia, nel freddo e nella povertà di
una stalla. E in quella celebrazione eucaristica fatta su una mangiatoia
Francesco cantò il Vangelo, ebbe in visione il Bambino e lo accolse
nell'Eucarestia al momento della comunione. Fu questo il presepe di Francesco.
Un presepe che si ripete in ogni celebrazione eucaristica. E Francesco lo
diceva spesso ai frati: "Vedete, ogni giorno il Figlio di Dio si umilia,
come quando dalla sede regale scese nel grembo della vergine, ogni giorno viene
a noi in umile apparenza; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l'altare
nelle mani del sacerdote. E come ai santi Apostoli apparve in vera carne, così
ora si mostra a noi nel pane consacrato". Sì, il presepe nella grotta di
Betlemme e in chiesa sull'altare. L'altare è la mangiatoia: qui il Signore
nasce ogni volta che si celebra la Messa.
Ma Gesù come è presente nel pane e nel vino consacrati? Non in qualsiasi modo.
Usando il pane e il vino e dicendo che era spezzato e versato per noi, Gesù
voleva intendere che Egli è presente nell'Eucarestia come pane
"spezzato" e come sangue "versato", ossia come uno dona
tutto se stesso, come uno che si spezza per noi, che versa tutto il suo sangue
per noi. Nell'Eucarestia, perciò, Gesù è presente come l'amico che ci ama sino
alla fine, che non risparmia nulla di sé stesso per amarci. Quel pane santo
raccoglie, perciò, in una misteriosa sintesi, tutto l'amore di Gesù per i
discepoli e per le folle di malati e di bisognosi che si accalcavano attorno a
lui. Giovanni Crisostomo, a proposito della presenza del corpo di Gesù
nell'Eucarestia, diceva: "È il corpo che fu insanguinato, colpito dalla
lancia, da cui sgorgano le fonti salutari, quelle dell'acqua e del sangue, per
tutta la terra".
L'Eucarestia rende presente Gesù nella vita di oggi come colui che dona tutto
se stesso. E ce n'è bisogno. Gesù, infatti, è l'unico capace di parlare al
nostro cuore talora triste come quello dei due di Emmaus; è l'unico che sa
accompagnare i nostri passi nel difficile cammino della vita; è l'unico che sa
commuoversi sulle folle di questo mondo abbandonate al loro destino triste; è
l'unico che sa prendersi cura di noi; è l'unico capace di consolare e
confortare. Quel pane "spezzato" non ha bisogno di moltiplicare le
parole. Parla da sé: Gesù, fattosi cibo per tutti, ci mostra sin dove giunge
l'amore di Dio. E quel pane consacrato, con estrema efficacia, contesta il
nostro modo gretto e avaro di vivere, le attenzioni e le cure meticolose per il
nostro corpo, il nostro istinto tutto teso al risparmio della fatica e delle
energie, la nostra abitudine a trattenere tutto per noi. Insomma, ognuno di noi
cerca in ogni modo di risparmiarsi nei confronti degli altri per accentrare
tutto verso se stesso, quell'ostia invece ci manifesta esattamente l'opposto:
"non sono venuto per essere servito, ma per servire".
Cari amici, con l'Eucarestia, questo amore non solo si avvicina a noi per
starci accanto e difenderci, diventa persino nostro cibo e nostra bevanda
perché noi diventiamo il "corpo" stesso di Cristo. L'eucarestia ci è
data perché ciascuno di noi venga trasformato nel corpo di Gesù sino a che
ciascuno di noi possa dire assieme all'apostolo Paolo: "Non sono più io
che vivo, ma è Cristo che vive in me". L'intera tradizione della Chiesa
insiste: non siamo noi ad assimilare il pane eucaristico, ma è il pane
eucaristico che ci assimila a sé: "L'Eucarestia trasforma i fedeli in se
stessa"(Massimo il Confessore). Tutti noi, partecipando all'Eucarestia,
diventiamo ostie viventi per rendere a Dio quel culto spirituale di cui parla
Paolo nella lettera ai Romani (12, 1-11). L'Eucarestia è davvero il culmine e
la fonte dell'intera nostra vita, anzi dell'intera storia umana. La liturgia
eucaristica inserisce in noi e nel creato l'energia stessa della risurrezione.
Per questo il sacramento dell'altare è la fonte da cui tutto sgorga nella vita
del cristiano e il culmine verso cui tende. Gregorio di Nazanzio voleva
intendere questa realtà quando diceva: "Come con un poco di lievito si
mescola a tutta la pasta, così il corpo innalzato da Dio all'immortalità, una
volta introdotto nel nostro, lo cambia e lo tramuta tutto intero nella sua
propria sostanza". Non possiamo ora fermarci a parlare del mistero
dell'Eucarestia che anticipa sulla terra paradiso. Sarebbe necessario ben altro
tempo. E tuttavia dobbiamo sapere che l'Eucarestia è uno spicchio di cielo
sceso sulla terra. Comprendete che le domande a questo punto si fanno
incalzanti: come sono le nostre Messe della domenica? come vi partecipiamo? si
vede che sono un anticipo del paradiso? Ci sentiamo scaldare il cuore nel petto
mentre ascoltiamo la parola di Dio? Si aprono i nostri occhi al momento della
frazione del pane? Certo è che se vivessimo la Messa come i due di Emmaus
vissero il loro incontro con Gesù in quel giorno di Pasqua, saremmo diversi noi
e il mondo. E le nostre città sarebbero spinte verso il cielo dell'amore. I
nuovi cieli e la nuova terra di cui parla l'Apocalisse si realizzano nella
misura in cui l'Eucarestia viene celebrata e vissuta. Sì, l'Eucarestia ci apre
uno spiraglio sul cielo e trasforma la terra verso il Paradiso.
Purtroppo tanto spesso la nostra partecipazione alla messa è scialba e
scontata. Ma in questo modo bistrattiamo la Messa. Ed è una colpa gravissima.
Cari amici, se l'Eucarestia è l'anticipo del Paradiso dovremmo correre verso di
essa come i Magi corsero verso la grotta di Betlemme. E lì, inginocchiarci e
adorare e contemplare e gioire per un amore così grande. E quell'Eucarestia ci
metterà un fuoco dentro, il fuoco di cui parlava Gesù: "Sono venuto a
portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso"(Lc
12,49). E noi saremo persone diverse, uomini e donne non più secondo noi
stessi, ma secondo l'Eucarestia. L'Eucarestia, la Liturgia eucaristica, è
davvero il luogo dove siamo fatti nuovi a immagine di Gesù, morto e risorto.
Accadde la stessa cosa ai due di Emmaus. Nonostante fosse ormai sera, e
nonostante la stanchezza del viaggio, era pieni di gioia per aver visto il
Signore, tornarono a Gerusalemme dai loro fratelli per annunciare che Gesù era
risorto, che il sogno di cui erano stati fatti partecipi non era finito. Anzi,
iniziava in un modo nuovo perché il loro cuore era ormai rinnovato. Una cosa
analoga, cari amici, era accaduta a Betlemme: i magi, dopo aver incontrato quel
Bambino per un'altra strada fecero ritorno al loro paese, non più la strada
dell'egoismo ma quella dell'amore.
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