I segni della
fede
Cesare
Nosiglia, arcivescovo di Vicenza
Il verbo vedere
nella Bibbia, e nel Nuovo Testamento in particolare, ha un significato molto
profondo. Non indica solo lo sguardo fisico, ma quello della fede e del cuore.
Proviamo a scorrere velocemente il Vangelo per convincercene:
*Venite e vedrete;
* Vieni e vedi (dice Andrea a Pietro);
*Ti ho visto quando eri sotto il fico;
* Vide Matteo al banco delle imposte e lo chiamò;
* Il Padre lo vide da lontano e gli corse incontro;
* Beati i vostri occhi perché vedono... tanti profeti e re desiderano vedere e
non videro;
* Beati i puri di cuore perché vedranno Dio;
* Parlo in parabole perché vedendo non vedano e udendo non odano;
* Signore chi io riabbia la vista. Vide e seguì Gesù sulla via di Gerusalemme;
* Corse al sepolcro vi entrò, vide e credette;
* Beati coloro che pur non avendo visto crederanno;
* I loro occhi si aprirono e lo riconobbero.
"Videro il bambino" significa che credettero in lui, lo
riconobbero come Dio e lo adorarono prostrandosi davanti a lui. Nessuno può
vedere Dio sulla terra; lo vedremo come egli è solo nell'eternità. Mosé, ci
dice la Bibbia, vide il roveto ardente, non vide Dio, ma ne percepì la presenza
e prostratosi lo adorò con la faccia a terra.
Ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, noi vediamo il Corpo e il Sangue
di Cristo. E' la nostra fede che ci permette di andare oltre le apparenze e di
vedere ed incontrare Gesù, vivo e presente nel segno sacramentale del Pane e
del Vino. Per questo lo adoriamo e confessiamo con gioia la sua morte e
risurrezione in attesa della sua seconda venuta.
Nella stalla di Betlemme il Figlio unigenito di Dio si lasciò adorare, sotto le
spoglie di un bambino, da Maria, Giuseppe, i pastori e i Magi. Ora si lascia
adorare nell'Ostia consacrata dove è presente sacramentalmente in corpo,
sangue, anima e divinità.
Dobbiamo
confessare che spesso l'Eucaristia è vissuta nelle nostre comunità
fondamentalmente come un banchetto, un pane da mangiare più che una presenza da
adorare, da riconoscere sotto le specie del pane e del vino, segni della
presenza reale del Dio con noi, di Gesù Cristo. Bisogna perciò vigilare
affinché l'adorazione dell'Eucaristia non venga sminuita o non adeguatamente testimoniata
nella comunità.
Di fatto, nella Messa non è scomparso quest'atteggiamento adorante, essendo ben
presente nel gesto del sacerdote di inginocchiarsi dopo aver pronunciato le
parole consacratorie sul pane e sul vino e nel silenzio adorante che dovrebbe
seguire la Comunione e che spesso è riempito o dagli avvisi parrocchiali o dal
canto. Quel silenzio, invece, esprime l'atteggiamento della contemplazione
adorante, che dovrebbe caratterizzare il tempo che intercorre tra la Comunione
ed i riti conclusivi della S. Messa.
La tradizione della Chiesa ci ha però offerto un'altra via, che viene anche
oggi vissuta nelle comunità: l'adorazione eucaristica che prolunga
l'accoglienza e l'incontro con il Signore dopo la Messa. Questa prassi va, a
mio avviso, potenziata, qualificata e più ampiamente partecipata da tutti i
fedeli, perché permette di ritrovare la ricchezza del silenzio che a volte è
quasi scomparso nella celebrazione della Messa dove prevalgono parole, canti e
suoni. Il silenzio adorante è invece fonte di serenità e di quiete interiore,
di ricupero di energie spirituali. Nel nostro mondo e dentro la cultura
dell'efficienza e dell'affanno, che tutti assorbe, dominano il chiasso e
l'esteriorità, il fare ed il produrre, causa della perdita del senso vero e
positivo del silenzio, il quale, addirittura, causa spesso nelle persone il
timore di stare da soli in silenzio. Ecco perché si riempiono le notti di suoni
e anche durante il giorno non si ha mai tempo di stare con se stessi e il
silenzio diventa un'eccezione che spaventa. Assordato dai rumori e dalle
parole, l'uomo d'oggi ha perso il gusto e il desiderio del silenzio.
Gesù, ci dice il Vangelo, si ritirava in luoghi deserti, come il monte, a
pregare da solo, di primo mattino o alla sera tardi. In quei momenti ricuperava
il suo rapporto intimo e profondo con il Padre suo ed acquistava forza e vigore
per combattere poi le sue battaglie contro il male, il peccato e vincere con
l'amore l'odio e la violenza.
Non si può adorare Dio, adorare l'Eucaristia, nel chiasso della strada;
occorrono luoghi e momenti appropriati che aiutino a stare davanti al Signore
in silenzio meditativo, un silenzio che non è vuoto, anche se non ci sono
parole e suoni, perché ricco dell'amore e dell'incontro con Dio.
Si racconta che Charles de Foucauld era solito sostare ore e ore davanti al
Santissimo Sacramento esposto nella sua tenda nel deserto. Un giorno un beduino
gli chiese: "Che cosa fai tante ore così inginocchiato a pregare senza
dire una parola davanti a questo che chiami il tuo Dio?". Egli rispose:
"Non dico niente e non faccio niente, guardo. Io guardo lui e lui guarda
me e così ci parliamo anche senza parole".
Lo sguardo d'amore di due innamorati è la parola più intensa, perché penetra
nel cuore della persona amata più d'ogni altra cosa; è la via più profonda che
esprime l'adorazione anche dell'Eucaristia. Lo sguardo nel silenzio nutre la
fede e la consolida, facendone acquistare il senso vero di cui è portatrice.
Credere e amare s'intrecciano in quest'atteggiamento di adorazione e
contemplazione del Signore e della sua divina presenza. La Messa è
quest'appuntamento d'amore dove si intreccia un dialogo e si stabilisce un
incontro fatto non solo di parole, ma di gesti, di sentimenti, di sguardi
profondi e penetranti nel mistero del Signore, che si fa presente in mezzo a
noi.
In che cosa
consiste quest'adorazione dei Magi?
Nell'offrire al bambino i doni: oro, incenso e mirra. Tre doni che
simboleggiano chi è per loro Gesù. L'oro rimanda al Re e dunque alla divina
regalità di Gesù; l'incenso richiama il sacerdote e dunque il ministero di
mediazione della Nuova Alleanza; la mirra ricorda il profeta e dunque colui che
versa il suo sangue per la pace dell'umanità intera.
Il Papa, nel Messaggio per questa Giornata mondiale della gioventù, sottolinea
come in questi tre doni siano rappresentati tre aspetti fondamentali della vita
del giovane necessari per adorare e riconoscere nel Signore il vero ed unico
Dio:
* la sua libertà di seguirlo rispondendo alla sua chiamata. Giocare la propria
libertà sulla sequela del Signore significa non aver timore di prendere in
considerazione anche le chiamate più impegnative al sacerdozio e alla vita
consacrata. Si è pienamente liberi, infatti, quando si fa la volontà di Dio e
si risponde ai suoi inviti aderendovi con il cuore e la vita senza
tentennamenti e con generosità. Perché tante difficoltà nel decidersi a dire di
sì a queste chiamate impegnative, ma anche ricche di fascino che il Signore
continua a rivolgere a tanti giovani e ragazze? Ciò che spaventa di più oggi è
quel "per sempre" che coinvolge ogni vocazione e impedisce di fidarsi
totalmente di Dio. Non ci si fida di se stessi, si ha paura di non farcela a
sostenere gli obblighi di una scelta definitiva ed irreversibile. Ma in questo
caso si mostra di non fidarsi nemmeno di Dio, perché la vocazione è sua e lui è
fedele al suo patto; la sua forza non verrà mai meno e la nostra debolezza
potrà sempre ritrovare vigore appoggiandosi su di lui;
* la preghiera
elevata a Dio ogni giorno come segno della sua gloria che vive in noi. Una
preghiera fatta non solo di parole, ma di gesti, di silenzio, di contemplazione
e di sguardo. La preghiera è come l'aria che respiriamo: non possiamo vivere
senza respirare; non possiamo vivere senza pregare. La preghiera è il respiro
dell'anima; la preghiera è quella cavità in cui possiamo rifugiarci quando
siamo affaticati e oppressi dal fare. E' dunque uno spazio di libertà a cui non
possiamo rinunciare, se non vogliamo rinunciare a noi stessi.
* la gratitudine
per la sua profonda e vera umanità sacrificata per ciascuno sull'altare della
croce. Egli vi ha dato l'esempio, commenta Pietro, perché come ha fatto lui
facciate anche voi: Vivete da uomini veri e liberi, donando la vostra vita per
amore, sicuri che chi muore per Cristo rinasce ad una vita nuova e ha in sé la
pienezza della gioia.
"Siate
riconoscenti": di che cosa? Credo che la lista sarebbe lunga, se ciascuno
dovesse rispondere a questa domanda. Proviamo a farlo personalmente, offrendo,
come i Magi, il nostro dono al Signore.
Da questo
discorso nascono alcuni impegni che credo sia opportuno richiamare alla vostra
realtà di giovani in ricerca e disponibili ad incontrare Cristo nell'Eucaristia
riconoscendolo come Signore, amico e fonte di vita piena e duratura.
1. La fede non è
fatta solo di parole ma anche di segni. L'incontro con una persona diventa
coinvolgente quando, oltre al dialogo, sappiamo esprimere l'amicizia e l'amore
con dei segni, dei gesti, delle esperienze. Gesù incontrava la gente in questo
modo.
Pensiamo a Zaccheo (Lc 19): "Oggi vengo a casa tua", a stare e
a mangiare insieme. Un gesto d'amicizia profonda e sincera; un incontro non
occasionale ma prolungato (uno stare) che permette di comprendere che la
persona di Zaccheo interessa a Gesù più di tante altre.
Pensiamo alla Samaritana (Gv 4): "Dammi da bere": un altro incontro
prolungato e ricco di dialogo ma anche di gesti, quali il bere e il dono
dell'acqua che passa da una mano all'altra. Due persone che s'incontrano
scambiandosi un dono: lei la brocca d'acqua fresca per chi ha sete, lui
un'altra acqua che è la sua stessa persona: "Io sono l'acqua viva, chi ha
sete venga a me e beva e non avrà più sete in eterno".
Nell'Eucaristia avviene lo stesso: alle parole del memoriale della sua Pasqua
Gesù fa seguire un segno, quello del pane spezzato e del sangue versato che è
il suo corpo offerto sulla croce: "Prendete questo è il mio corpo dato per
voi, questo è il mio sangue versato per molti". Il segno accolto nella
fede diventa via efficace per unirci alla sua persona. Lui è veramente presente
in quel pane e in quel vino: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue
dimora in me ed io in lui". Commenta S. Paolo: "Il calice della
benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo?
E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché c'è un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti
infatti partecipiamo dell'unico pane".
L'incontro con Cristo nell'Eucaristia non è dunque un fatto virtuale ma reale,
perché mangiando il pane, che è Cristo, noi siamo trasformati in lui,
diventiamo lui. Cristo viene ad abitare, a prendere possesso della nostra vita
e ci fa vivere un rapporto nuovo con lui e tra noi, quello dell'unità e della
comunione. Tommaso, vi ricordate, disse: "Devo toccare il corpo del
Signore per credere". Toccò e credette. Noi nell'Eucaristia non tocchiamo
soltanto, ma mangiamo addirittura il Corpo del Signore. Mangiamo e crediamo
come Tommaso proclamando: "Mio Signore e mio Dio" (cfr. Gv 20).
Vorrei ora richiamare alla vostra attenzione il fatto che l'Eucaristia è
un pane spezzato, del sangue versato. Dunque, è un incontro con il Signore che
si dona, si offre, spezza la sua vita, versa il sua sangue per la salvezza del
mondo. E' dunque un'esperienza d'incontro pasquale con il Signore che muore e
risorge, che sacrifica la sua vita per amore e la ritrova in pienezza grazie
alla potenza dello Spirito. Non possiamo fare l'Eucaristia senza entrare
dentro, partecipare con la fede a questo sacrificio, a questo dono d'amore
infinito mediante il quale Cristo sacrifica se stesso e riscatta la nostra
umanità, schiava del peccato della morte. E lo possiamo fare solo con la fede:
mistero della fede!
2. La
responsabilità della partecipazione all'Eucaristia. Ne parla con grande forza
l'apostolo Paolo nella prima Lettera ai Corinti (cap. 11, 17-34). Egli
rimprovera la comunità perché, a suo dire, mangia indegnamente il corpo del
Signore in quanto lo fa senza riconoscerne la presenza: "Chi mangia e bene
senza riconoscere il corpo del Signore mangia e beve la propria condanna".
Che cosa intende dire l'apostolo quando afferma che bisogna riconoscere il
corpo del Signore per mangiarlo degnamente? Lo spiega lui stesso nei versetti
precedenti, quando afferma: "Sento dire che quando vi radunate per
l'assemblea eucaristica ci sono divisioni tra voi; voi non mangiate degnamente
la cena del Signore perché ciascuno mangia del proprio che ha portato da casa e
così chi più ha e più è sazio e che non ha resta affamato". In pratica,
l'apostolo vuole dire che la comunità non condivide il pane materiale
illudendosi che basti condividere quello eucaristico. La carità, dunque,
condiziona fortemente anche la sincerità e l'efficacia del pasto eucaristico;
senza la carità l'incontro con Cristo nell'Eucaristia diviene causa di condanna
e non di grazia; è un modo indegno di cibarsi dell'Eucaristia e per questo si
diviene rei del Corpo e del Sangue di Cristo.
Del resto, sappiamo bene che già Giovanni, nell'Ultima Cena, colloca la lavanda
dei piedi al centro, tralasciando l'istituzione dell'Eucaristia, per insegnare
ai cristiani che l'amore del Signore non è fatto di belle parole ma di gesti
concreti. Si tratta di lavarsi i piedi gli uni gli altri, facendo come ha fatto
lui, servendo gli altri fino al dono totale di se stessi.
La lavanda dei piedi ci ricorda sempre che, se nell'Eucaristia incontriamo
veramente Gesù, lo dobbiamo poi riconoscere concretamente presente negli altri,
amandoli con la stessa intensità d'amore con cui Cristo lo fa nel sacrificio
pasquale del suo Corpo donato e del suo Sangue versato. Così facciamo Chiesa,
così si edifica la comunità di coloro che, uniti nello stesso Corpo del
Signore, diventano un solo corpo e un solo spirito, sacramento di unità per
l'intero genere umano. L'Eucaristia che la Chiesa celebra, la edifica nella
carità.
3. L'Eucaristia
richiamo alla vita eterna in Dio. Questo concreto riferimento al corpo di
Cristo presente nella comunità non deve farci dimenticare che l'Eucaristia ci
spinge oltre l'attuale esistenza terrena ed apre un cammino di fede che conduce
alla vita eterna, all'incontro definitivo con il Signore nel suo regno. E'
questo un aspetto decisivo che ci fa guardare ed accogliere l'Eucaristia come
cibo per il grande viaggio di noi pellegrini sulla terra verso la casa del
Padre.
"I vostri padri" ha detto Gesù nel discorso sul pane di vita alla
sinagoga di Cafarnao "hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Il
pane che io vi dò dura per la vita eterna". Di questo pane ne abbiamo
bisogno, dunque, per camminare verso la pienezza della vita, che non è chiusa
nell'orizzonte terreno e storico ma aperta alla stessa vita di Dio, che è per
sempre. Per questo i primi cristiani inviavano l'Eucaristia ai martiri,
affinché avessero la forza di subire il martirio, la perdita della vita
terrena, accogliendo la speranza della vita eterna che è Cristo stesso.
Le nostre speranze umane sono tante e tutte importanti, sia quelle personali,
che di famiglia, di gruppo, di popolo. Il Signore si fa carico di questo e ci
aiuta a realizzarle quando corrispondono alla sua volontà. Ma resta pur sempre
un qualcosa che va oltre e che sfugge ad ogni, anche pur importante
realizzazione. La speranza umana, anche se non delude le attese, resta parziale
e lascia inevase quelle più forti e profonde del cuore. Solo Cristo può colmare
tali attese; solo lui può dissetare il cuore di quell'acqua viva di cui ha
bisogno; solo lui può sfamare la fame di amore del nostro spirito, la gioia
infinta del desiderio di vita e di vita per sempre che c'è in noi. Cristo,
incontrato ed accolto nell'Eucaristia, è fonte di questa vita e speranza che si
realizza. Con lui la speranza è certezza e sbocco sicuro verso cui tendere. I
discepoli di Emmaus sono tristi e senza speranza; poi incontrano Cristo, sotto
le spoglie del viandante misterioso che si affianca al loro cammino, e a poco a
poco il loro cuore arde nell'ascoltarlo e i loro occhi si aprono nel
riconoscerlo allo spezzare il pane. Allora rinasce anche la speranza ed esplode
la gioia e camminano verso Gerusalemme per annunciare a tutti i discepoli che
hanno visto il Signore. Racconto emblematico che richiama l'esperienza storica
dell'Eucaristia come incontro con Cristo, Parola e Pane di vita, e che indica
anche le radici della nostra speranza di vita eterna, che sono insite
nell'esperienza eucaristica. Quella tavola è, infatti, anticipo e segno del
banchetto di cui ci parla tante volte Gesù nel Vangelo per rivelare la meta
della nostra vita di discepoli: "Chi mangia la mio carne e beve il mio
sangue rimane in me ed io in lui ed io lo risusciterò l'ultimo giorno".
Conclusione
Il pensiero
finale lo traggo dall'ultima enciclica di Giovanni Paolo II sull'Eucaristia:
"Nell'Eucaristia abbiamo Gesù, abbiamo il suo sacrificio redentore,
abbiamo la sua risurrezione, abbiamo il dono dello Spirito Santo, abbiamo
l'adorazione, l'obbedienza e l'amore al Padre. Se trascurassimo l'Eucaristia,
come potremmo rimediare alla nostra indigenza?" (n.60); "Non c'è
dunque pericolo di esagerare nella cura di questo Sacramento, perché in esso si
riassume tutto il mistero della salvezza" (n.61) - (cfr. Ecclesia de
Eucharistia).
Il Signore ci dia in questi giorni non solo la grazia di comprendere
tutto ciò, ma di gustarlo e di viverlo con gioia. Amen.
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