Ricercare la
verità, senso profondo dell'esistenza umana (17 agosto 2005)
Dio, un dono
da cercare
Giuseppe
Betori, segretario generale della
Cei.
«Dov'è il re
dei Giudei che è nato?
Abbiamo visto sorgere la sua stella» (Mt 2,2)
1. Merita ancora cercare? E che cosa ricercare nella nostra vita, già così
piena di tante cose? La verità? Non sarà forse un obiettivo impossibile
ricercare la verità? Non ho molto tempo per leggere romanzi. Mi devo per lo più
contentare di pagine citate da altri. Nel libro di un filosofo, Luigi Alici – è
intitolato Il terzo escluso ed è davvero un bel libro –, ho trovato citata una
frase che mi ha colpito. È tratta da un romanzo che sembra aver avuto un certo
successo. Il titolo del romanzo è Di noi tre e l'autore è Andrea De Carlo. La
frase è questa: «L'importante è pensare meno, ricordare e immaginare e
aspettare meno. Prendere subito quello che c'è e basta. Vivere il momento» . Mi
ha molto impressionato questa frase, che chiude così: «Il momento è tutto». È
un riassunto efficace di tanta cultura del nostro tempo; un riassunto da
brividi. C'è dentro tutta la disillusione di chi nulla si attende, perché nulla
spera, di nulla ha memoria, ritiene che su nulla meriti andare a fondo. Tutto è
nella superficie delle cose, delle azioni, degli incontri. Nella società dei
consumi nulla può durare troppo, pena la crisi del mercato; quello delle cose,
ma anche quello dei sentimenti e delle idee. La moda ci chiede di cambiare a
ritmo veloce i vestiti; i legami durano giusto il ciclo di una luna; le idee
mutano a seconda degli interessi, degli stati d'animo, degli interlocutori.
Anche su di noi, che abitiamo il saldo edificio della fede o ne siamo appena
sulla soglia, incombe l'offuscamento delle coscienze che caratterizza il nostro
tempo e ci spinge a tacitare le domande, a reprimere gli interrogativi, a
quietarci nella nostra routine quotidiana. È fin troppo diffusa una debolezza
del pensiero che impedisce visioni audaci, come pure una ristrettezza di cuore
che non osa andare oltre i rapporti caldi di un gruppo consolatorio. Tutto il
resto, cioè il mondo intero, con i suoi perché, resta fuori dall'interesse di
molti, forse anche di noi, chiusi nella forzata soddisfazione della situazione
che ci troviamo a vivere. Certo non tutto è così, non mancano slanci e
desideri, Ma occorre riconoscere che è difficile reagire a questo assopimento
generale, nutrito dal pensiero unico divulgato da romanzi, canzoni, spettacoli
televisivi che celebrano la banalità. «Chi te lo fa fare?», ci chiede qualche
amico quando ci avventuriamo in riflessioni appena più impegnative o in
esperienze che chiedono un prezzo più alto della media. È stato detto che il
sonno della ragione – la ragione critica – genera mostri: quelli di ideologie e
di utopie, che massacrano uomini e nazioni. Ma qui il sonno è anche del cuore,
i cui slanci vengono frenati da chi ha paura anche dei sogni. C'è il rischio
che tutta la vita ci scorra addosso senza che noi ce ne accorgiamo.
2. Eppure,
anche in questa cappa di conformismo che ci opprime e ci vorrebbe catturare,
dentro di noi non smettono di risuonare interrogativi, magari appena percepiti,
ma reali, autentici, che ci spingono ad alzare lo sguardo e a chiederci: ma è
tutta qui la mia vita? come posso renderla vera, piena di felicità? come
affrontare i momenti di sofferenza? I problemi non ci riguardano solo come
individui, ma anche insieme: perché tanta ingiustizia nel mondo? perché le diversità
devono esplodere in esclusioni o in conflitti? come portare pace tra i popoli?
Più al fondo stanno le domande essenziali: chi sono? da dove vengo? dove vado?
perché il male? e la morte? Ciò che è in questione è il significato globale
della nostra esistenza. Per trovare una risposta appagante a una domanda così,
non basta la sola ragione scientifica. Da sola, infatti, genera una visione
scientista del mondo: fa della scienza un assoluto; ci conduce a un
riduzionismo che ci vuole far credere che l'uomo non è nulla di più di un
ammasso di cellule. Anche quando ciò non viene teorizzato – nella forma di un
materialismo assoluto –, è tuttavia assai spesso praticato; in particolare
quando si pensa che la soluzione dei problemi materiali sia capace di rispondere
alla globalità degli interrogativi dell'uomo. Lo pensa un'arida ragione
economica, che nella soddisfazione dei bisogni, quelli naturali e assai più
spesso quelli indotti, vuole circoscrivere le esigenze di vita delle persone.
Lo pensa chi scambia le possibilità della tecnica con i desideri dell'uomo,
creando gli orrori degli ordigni nucleari e quelli degli individui clonati,
programmati, modificati secondo il capriccio di chi non accetta imperfezioni e
sofferenze. Non è solo il sonno della ragione a generare mostri: lo è anche una
ragione lasciata a se stessa senza valori di riferimento, senza verità da
riconoscere, senza dignità da rispettare. Ma la risposta all'interrogativo sul
senso della vita non viene neanche da un cuore lasciato a se stesso; un cuore
che va dietro ogni desiderio, che scambia la spontaneità con l'irrazionalità e
crede che ci possa essere libertà solo a prezzo della irresponsabilità. La
constatazione è di un testimone non sospetto del nostro tempo, il filosofo
Nietzsche: «Si vive per l'oggi, si vive in gran fretta – si vive in modo molto
irresponsabile: questo appunto viene chiamato libertà» . Pensando che i legami
– quelli con gli altri, quelli con una norma – siano un peso da cui liberarsi,
si scambia la libertà con l'assenza di riferimenti, con il trionfo di un
individualismo che non tiene conto né degli altri né di Dio. Andando dietro a
un cuore così, si potrà aggiungere ogni giorno emozione a emozione, ma non si
arriverà neanche a scalfire l'involucro della domanda: perché la vita?
3. Proprio nella
separazione tra mente e cuore, tra ragione e affetti, tra verità e libertà sta
la radice dell'incapacità dell'uomo oggi di rispondere alle domande profonde
della sua esistenza. Abbiamo frantumato la nostra vita, la nostra esperienza
personale in tante singole e spesso contrapposte esperienze: pronti a gettare
il cuore oltre l'ostacolo in un servizio di volontariato e incapaci al tempo
stesso di dare ordine alla nostra vita affettiva; aperti allo slancio interiore
di un'esperienza contemplativa e assenti da un concreta assunzione di
responsabilità pubblica nella società. Tutti soffriamo questi contrasti e
vorremmo superarli. Abbiamo soprattutto bisogno di rifare unità nella nostra
vita, così da evitare le opposte derive in cui tutto è permesso: o perché è
fattualmente, tecnologicamente possibile o perché nelle mie scelte personali è
vietato vietare. Questa unità la ritroviamo nell'intimo di noi stessi, in quel
sacrario della nostra persona che sfugge a tutte le possibili manipolazioni e ci
pone nudi di fronte a noi stessi. La Bibbia chiama questo luogo il cuore. Non
il cuore come ne abbiamo parlato finora, cioè come la sede degli affetti, dei
sentimenti e delle emozioni; ma il cuore come il principio ultimo della nostra
identità, là dove ragione e sentimenti si fondono insieme, verità e libertà si
intrecciano nella decisioni supreme. Lì siamo noi stessi, con la nostra
coscienza, la nostra intelligenza, la nostra libertà responsabile. Per questo
cuore la parola di Dio invoca la sapienza: «Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90,12). Già l'invocazione ci dice
che questa sapienza non può essere una nostra costruzione, né il frutto di una
nostra conquista. La sapienza di cui abbiamo bisogno per trovare luce alle
domande di fondo della nostra vita è un dono: «Ogni sapienza viene dal Signore
ed è sempre con lui... Il Signore ha creato la sapienza;... la elargì a quanti
lo amano» (Sir 1,1.7-8). Queste parole aprono il libro del Siracide;
dischiudono una grande speranza davanti a noi: di fronte a quelle domande
ultime, difficili, che toccano il senso della nostra esistenza, non siamo
lasciati a noi stessi, ma nell'unità profonda della nostra persona siamo
raggiunti da un dono, da una rivelazione, che necessita di una sola condizione,
essere accolta nell'amore. «Tu vuoi la sincerità del cuore e nell'intimo
m'insegni la sapienza» (Sal 51,8): al cuore che con sincerità, con verità, con
disponibilità si apre al Signore è donata la luce della sapienza, che illumina ogni
angolo oscuro della nostra esistenza e ne svela il senso compiuto e definitivo.
Dio stesso è questa sapienza, è lui la ragione ultima della nostra vita, il suo
fondamento e la sua meta. Signore, «il nostro cuore è inquieto finché non
riposa in te» , ripetiamo con sant'Agostino. Sono parole che dicono, con
incomparabile efficacia, la consapevolezza che l'insopprimibile inquietudine
del nostro cuore ha un nome: Dio. Dietro le tante forme che assume la nostra
sete di verità, di amore, di novità, di giustizia, di pace, c'è una sola
risposta capace di soddisfarle tutte e di soddisfarle in pienezza: Dio. Per
questo Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce, poteva dire di tutta la
sua vita: «Il mio anelito per la verità era un'unica preghiera». Ascoltiamo il
Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore
dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di
attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità
che cerca senza posa» (CCC, 27). Il salmo traduce questa certezza in una
stupenda invocazione, che dovrebbe aprire ogni nostra giornata: «O Dio, tu sei
il mio Dio, dall'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia» (Sal 63,2). Quando
riusciamo a uscire dall'atmosfera stordente che ci circonda e ci arrendiamo
alla domanda radicale sul senso della nostra vita, lì inevitabilmente
incontriamo Dio, perché – come dice Paolo nell'Aeropago di Atene – non è
«lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo,
come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: "Poiché di lui stirpe noi
siamo"» (At 17,28).
4. Incontriamo
Dio come un dono, ma quello che è un dono nondimeno deve essere cercato.
L'immagine che domina questa nostra Giornata Mondiale della Gioventù è quella
della stella. Al suo sorgere i Magi si interrogarono e ne seguirono il cammino;
la sua luce brillò a indicare la presenza di Dio tra gli uomini. Dio, che è il
senso dell'esistenza dell'uomo, da lui creato a sua immagine – l'uomo che, come
dice il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, «è la sola creatura,
su questa terra, che Dio ha voluto per se stessa e che ha chiamato a
condividere, nella conoscenza e nell'amore, la sua vita divina» (CompCCC, 66)
–, Dio a questo uomo dona se stesso in una condizione di assoluta libertà. Lo
attesta proprio il fatto che il dono viene incontrato all'interno di una
ricerca, fatta di segni da decifrare e di esperienze da discernere. Sono molti
i segni che risvegliano in noi l'attesa di Dio e ce ne indicano la presenza.
Anzitutto la Parola, quella che tramite il popolo d'Israele e poi la Chiesa
raccoglie la memoria dei suoi gesti a favore degli uomini, delle sue parole
rivelate tramite i profeti, della sua presenza nella persona del Figlio fatto
uomo. Questa Parola ci accompagna e ci si offre come alimento quotidiano,
presentato a noi dalla Chiesa che nella sua vita e nella riflessione di fede ne
illumina la comprensione e lo spezza per noi, suoi figli, secondo necessità e
capacità. La Chiesa stessa è segno di Dio e stella che ci guida a lui, non solo
come custode e seminatrice della Parola, ma insieme come luogo in cui si
celebrano i misteri di Dio, i sacramenti che ci rendono presente e ci
comunicano la sua salvezza; essa è segno di Dio nell'intera sua vita di
comunione, come esperienza di amore, nella ricchezza dello scambio dei doni di
cui ciascuno è portatore. Segno di Dio è anche il mondo: la creazione che porta
le tracce della sua potenza e intelligenza nell'ordine e nella bellezza delle
creature. Segno di Dio è l'uomo stesso nella sua apertura a una verità e a una
felicità senza limiti, a partire dalla consapevolezza del proprio limite, di
creatura e di peccatore, che Lutero definiva la «coscienza angosciata» e a
riguardo della quale Sören Kierkegaard – con una provocante espressione
evidenziata dal filosofo Dario Antiseri –così si esprimeva: «La coscienza
angosciata capisce il cristianesimo, come un animale affamato; se gli metti
davanti un pezzo di pane o una pietra, capisce che l'uno è da mangiare e
l'altra no; a questo modo la coscienza angosciata capisce il cristianesimo» .
Su queste strade Dio ci incontra, se sappiamo percorrerle con fedeltà e
disponibilità. Ma la stella che i Magi videro sorgere in oriente dice anche
qualcosa di più. Essa rimanda a una profezia che un indovino pagano aveva
dovuto pronunciare, contro la propria stessa volontà, su Israele. «Abbiamo
visto sorgere la sua stella», dicono i Magi; e la stella del «re dei Giudei» è
quella che vide Balaam sul monte Peor, quando chiamato per maledire Israele, ne
esaltò invece il destino dicendo: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro
sorge da Israele» (Nm 24,17). La stella non indica solo una direzione, ma è
essa stessa il simbolo di qualcuno, di un re che viene ad assumere la signoria
del popolo che Dio si è scelto. Noi siamo quel popolo; il suo Figlio tra noi è
quella stella; così si presenta nell'Apocalisse: «Io, Gesù... sono la radice
della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). La fede cristiana
aspetta che questa stella sorga nell'ultimo giorno, in una manifestazione
gloriosa anticipata ai discepoli sul monte della trasfigurazione, per cui la
seconda lettera di Pietro può esortarci così: «Non per essere andati dietro a
favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la
venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari
della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando
dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: "Questi è il Figlio mio
prediletto, nel quale mi sono compiaciuto". Questa voce noi l'abbiamo
udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo
conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione,
come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la
stella del mattino si levi nei vostri cuori» (2Pt 1,16-19). La stella, dunque,
non è solo un'indicazione verso l'incontro con Dio nella persona di Gesù, ma è
Gesù stesso che per noi diventa la strada su cui raggiungere Dio come risposta
alla nostra sete di verità e di amore. Non ci ha forse detto che è egli la
nostra vita? E non ci ha forse detto che egli è nostra vita perché è lui la
verità? E non ci ha infine detto che egli, che è la vita e la verità, è anche
la via che ci fa giungere a questa meta? «Io sono la via, la verità e la vita.
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete
anche il Padre; fin d'ora lo conoscete e lo avete veduto... Chi ha visto me ha
visto il Padre» (Gv 14,6-7.9).
5. «Solo Dio può
spegnere il desiderio di Dio. "Il tuo volto, Signore, io cerco. Non
nascondermi il tuo volto" (Sal 27,8-9); ognuno di noi può sottoscrivere
questa preghiera. In Gesù il volto del Dio invisibile si rende visibilmente
presente: incontrare Gesù è incontrare Dio» (CdG/2, p. 20). Queste parole del
Catechismo dei giovani della Chiesa italiana possono ben riassumere la tappa
finale della nostra riflessione. Il desiderio di verità, la domanda del cuore e
della mente trova risposta solo in Dio, ma non ci è data altra strada che ci
porti a Dio se non quella che egli stesso a tracciato per noi, donandoci il suo
Figlio, il suo volto tra noi, la stella del mattino che ci conduce al Padre e
ce lo fa incontrare nella sua stessa persona. «Dio nessuno lo ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre ce lo ha rivelato» (Gv
1,18), sono le parole conclusive del prologo del vangelo di Giovanni. Ma è lo
stesso vangelo a dirci che questa rivelazione non è una semplice comunicazione
in parole o in gesti: è piuttosto una presenza, e una presenza personale, una
vicenda umana, un avvenimento che ha segnato per sempre la storia degli uomini:
«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la
sua gloria, gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv
1,14). La ricerca della verità sfocia così nell'incontro con una persona,
quella di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, in cui si fa presente nella
storia degli uomini la pienezza della divinità, la radice e lo scopo del nostro
essere. Solo se incontriamo lui possiamo dire che il nostro cammino ha
raggiunto la meta. Questo non vuol dire mettere da parte la Parola: che altro
essa è se non lui, il Verbo eterno del Padre, che si fa parola di uomini? Né ci
esime dall'incontrare il dono di Dio nei segni sacramentali: non ci li ha forse
donati egli stesso, come sapiente pedagogia di una grazia che genera, nutre e
risana? Né ci permette di fare a meno della concreta compagnia della Chiesa:
che altro essa è se non il suo Corpo, che ne prolunga la visibilità della
presenza nella storia? Né ci separa dalle vicende del mondo: non sono forse i
segni di sé che egli dissemina nel tempo quelli che dobbiamo interpretare per
renderne attuale la voce? E non sono soprattutto i volti dei poveri l'appello
che egli continuamente fa all'esercizio del nostro amore? Ma, proprio a partire
da questi presupposti scaturisce l'esigenza che parole, gesti, comunità, storia
trovino unità e profondità nell'incontro personale con Gesù. Ci ha scritto
Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù dello
scorso anno: «Cari giovani, lasciatevi guardare negli occhi da Gesù, perché
cresca in voi il desiderio di vedere la Luce, di gustare lo splendore della
Verità... Lasciate emergere questo desiderio e farete l'esperienza meravigliosa
dell'incontro con Gesù. Il cristianesimo non è semplicemente una dottrina; è un
incontro nella fede con Dio fattosi presente nella nostra storia con
l'incarnazione di Gesù. Cercate con ogni mezzo di rendere possibile questo
incontro, guardando a Gesù che vi cerca appassionatamente. Cercatelo con gli
occhi di carne attraverso gli avvenimenti della vita e nel volto degli altri;
ma cercatelo anche con gli occhi dell'anima per mezzo della preghiera e della
meditazione della Parola di Dio» . È difficile trovare parole più efficaci per
dire l'urgenza e la bellezza di una vita che si apre all'incontro personale con
Cristo. A questo incontro ci sollecita anche il Santo Padre Benedetto XVI, che
nell'omelia della Messa di inizio del suo servizio come Vescovo di Roma,
riprendendo l'invito del suo predecessore, si è rivolto ai giovani con queste
parole: «Oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire
dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non
abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a
lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete
la vera vita».
6. Un'ultima
cosa ho ancora da dirvi, per concludere. Il Gesù che dobbiamo incontrare, il
Cristo a cui dobbiamo aprire la porta della nostra vita non è un maestro di
sapienza o un dispensatore di prodigi: è il Figlio di Dio fatto uomo, crocifisso
e risorto. Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo sono il senso ultimo
della sua persona. Accogliere lui significa farsi carico con lui di tutto
l'umano, delle attese dei fratelli e delle colpe nostre e di tutti che hanno
bisogno di essere redente. Accogliere lui significa accettare la croce, posta
per questo motivo al centro delle Giornate Mondiali della Gioventù: significa
condividere con lui i limiti e le sofferenze dell'uomo, consapevoli che non c'è
redenzione senza prezzo della vita. Accogliere lui significa ricordarsi però
che quella croce ora è vuota, come vuoto è il sepolcro in cui il corpo di Gesù
fu riposto: significa quindi credere nella potenza di Dio come forza di
risurrezione per il suo Figlio e per noi tutti suoi fratelli, aprendoci a una
speranza senza limiti. «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal
cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine
Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu
sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al
cielo, siede alla destra del Padre». Sono le parole del Credo, le parole della
nostra fede. In esse ci confermiamo, sapendo che nel Figlio di Dio fatto uomo,
morto e risorto per noi c'è la risposta alla sete di verità della nostra vita
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