Come i Magi,
nella notte del mondo
Bruno
Forte, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto
"Siamo
venuti per adorarlo" (Mt 2,2): così affermano i Magi alla vista del
Bambino. Nella notte del mondo, nella notte del cuore, essi si sono fatti
pellegrini, guidati da una stella, per andare alla ricerca di Colui, che dà
senso alla vita e alla storia. Giunti alla Sua presenza – la presenza
tenerissima di un Bambino – hanno fatto l'unica cosa degna dell'incontro con la
Verità in persona: lo hanno adorato. Proprio così, i Magi rappresentano tutti i
cercatori della verità, pronti a vivere l'esistenza come esodo, in cammino
verso l'incontro con la luce che viene dall'alto, a cui aprirsi
nell'adorazione, che cambia il cuore e la vita.
1. Nella
notte del mondo…
I Magi pellegrini nella notte rappresentano tutti i cercatori della verità, non
solo chi crede e credendo ama l'invisibile Amato, attendendo nella speranza
l'incontro della gloria futura, ma anche chi cerca non avendo il dono della
fede. Il cosiddetto ateo, quando lo è non per semplice qualificazione esteriore,
ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in
Lui, vive in una medesima condizione di ricerca, di viva e spesso dolorosa
attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che ti lasci
come ti ha trovato. La non credenza seria - non negligente e banale - è
passione e sofferenza, militanza di una vita che paga di persona l'amaro
coraggio di non credere. Lo mostra il celebre aforisma 125 della Gaia Scienza,
dove Nietzsche racconta del folle che nella chiara luce del mattino andò sulla
piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: «Cerco Dio, cerco
Dio». «Dov'è Dio? Si è addormentato o si è perso come un bambino?» - domandano
gli altri, prendendosi gioco di lui. E lui grida le parole, che segnano il
destino di un'epoca: «Dio è morto... e noi lo abbiamo ucciso!» Ma subito dopo
quelle parole aggiunge: «Saremo noi degni della grandezza di questa azione?» E
denuncia la verità del dolore infinito di non credere, il senso di una notte
che è sempre più notte, di un abbandono, che è percezione di un'infinita
orfananza.
Lo stesso senso di lacerazione profonda si trova nella pagina, che segna
l'inizio del tema della morte di Dio nella coscienza europea, il Sogno del
Cristo morto, scritto sul finire del XVIII secolo da Jean Paul Richter, poeta
romantico tedesco. È un racconto, che parla con la forza della metafora: «In
una sera d'estate me ne stavo disteso su un monte in faccia al sole, finché mi
colse il sonno. Ed ecco che sognai di svegliarmi in un campo di morti. Tutte le
ombre erano disposte intorno all'altare e a tutte, invece del cuore, tremava e
pulsava il petto. Ed ecco che precipitò sull'altare una nobile figura
atteggiata a un dolore senza fine. E tutti i morti gettarono un grido:
"Cristo, Cristo, esiste un Dio?". L'ombra di ogni defunto fu scossa
da un sussulto e a cagione di quel tremito l'uno si trovò disgiunto dall'altro.
Cristo parlò: "Andai per i monti, entrai nei soli e nelle vie lattee,
percorsi i deserti del cielo, ma non esiste alcun Dio. Scesi nell'abisso,
scrutai nella voragine e gridai: Padre dove sei? Ma udii solo l'eterna procella
che nessuno governa e lo sfavillante arcobaleno di esseri che stava lassù senza
un sole che lo avesse creato...tutto, tutto era un grande vuoto". I fanciulli
defunti che si erano destati nel cimitero si gettarono dinanzi all'alta figura
presso l'altare e gridarono: "Gesù, non abbiamo noi un padre?". E lui
prorompendo in lacrime disse: "Noi siamo tutti orfani, io e voi. Non
abbiamo alcun padre". E tutto si fece angusto, tetro angoscioso. Un
battaglio enormemente grande stava per battere l'ultima ora del tempo per
frantumare l'universo, quando mi ridestai. La mia anima piangeva dalla gioia di
poter ancora adorare Dio». Questa pagina mostra come il non credere sia indissociabile
dall'infinito dolore dell'assenza, da un senso di solitudine e d'abbandono,
quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell'uomo, nella storia del
mondo.
Il non credente pensoso, come il credente non negligente, è perciò un uomo in
ricerca, che lotta con Dio: proprio così alla ricerca della verità, pellegrino
nella notte, attratto e inquietato da una misteriosa stella. «Mi religion es
luchar con Dios», dirà di sé Miguel de Unamuno, il testimone del «sentimiento
tragico de la vida»: la mia religione è tutta qui, «lottare con Dio». E poiché
«vivir es anelar la vida eterna», il vivere è inesorabilmente segnato dalla
tragicità di dover sostenere l'impari lotta. È questa l'altissima dignità del
cercare la verità da parte di ciascuno, credente o non credente che sia. E la
sola, vera notte del mondo è quella di chi non si riconosce in esodo,
pellegrino verso una patria desiderata, ricercata e attesa…
2.
L'esodo: la «condition humaine»
La
condizione umana è dunque quella dei Magi, pellegrini nella notte, venuti da
lontano, in cammino verso la meta cui li guida la misteriosa stella. Come
osserva il giovane Heidegger in Essere e tempo, vivere significa essere
«gettati verso la morte». È questa l'immediata evidenza: la vita è un lungo
viaggio verso le tenebre, dove tutto sembra assoluto silenzio. Per questo la
vita è impastata di dolore: e per questo la vera domanda, quella sulla quale
sta o cade la verità di ogni risposta, è e resta la domanda del dolore. Ogni
pensiero nasce dal dolore della lacerazione e della morte. Se non esistesse la
morte non esisterebbe il pensiero, non esisterebbe la vita, cioè la vita del
pensiero che è la dignità del vivere di ciascuno di noi. È il patire, il morire
che suscita in noi la domanda, accende la sete di ricerca, lascia aperto il
bisogno di senso. Senza dolore non ci sarebbe la dignità dell'uomo che si
interroga. Il dolore rivela allora la vita a se stessa più fortemente della
morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei
gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita.
Uno dei grandi pensatori ebrei del Novecento, Franz Rosenzweig, apre la sua
grande opera La stella della redenzione - dal titolo fascinoso che evoca
l'esperienza dei Magi - con le parole: Dalla morte. Al termine di un lungo
cammino, la stessa opera si chiude con le parole: Verso la vita. È questo
l'itinerario del pensare. Dalla morte ci facciamo pellegrini verso la vita. Il
cammino dell'uomo sta tutto in questo prendere sul serio la tragicità della
morte, non fuggendola, non stordendosi rispetto ad essa né nascondendola, come
ha fatto troppo spesso la modernità. Se guardiamo negli occhi la morte, allora
si compie il miracolo: vivere non sarà più soltanto un imparare a morire, ma
sarà un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l'uomo
non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla morte che
vince col suo silenzio tutte le cose, lì si rivela la dignità della vita, il
senso e la bellezza di esistere. Lì l'essere umano capisce di non essere solo
gettato verso la morte, ma chiamato alla vita: lì si riconosce come «un
mendicante del cielo». L'uomo è un cercatore di senso, qualcuno che cerca la
parola che riesca a vincere l'ultimo orizzonte della morte e dia valore alle
opere e ai giorni, offrendo dignità e bellezza alla tragicità del nostro vivere
e del nostro morire. Perciò la condizione dell'essere umano è quella del
pellegrino. L'uomo non è qualcuno che sia arrivato alla meta, ma è un cercatore
della patria lontana, è chi da questo orizzonte si lascia permanentemente
provocare, interrogare, sedurre.
Se l'esodo è la condizione umana, se l'uomo è un pellegrino verso la vita
e un mendicante del cielo, la grande tentazione sarà quella di fermare il
cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori,
dominatori di un oggi che vorrebbe arrestare la fatica del cammino. Una
tradizione ebraica racconta di alcuni giovani, che chiedono a un vecchio
rabbino quando sia cominciato l'esilio di Israele. «L'esilio di Israele - risponde
il rabbino carico di anni e di saggezza - cominciò il giorno in cui Israele non
ha più sofferto del fatto di essere in esilio». Il vero esilio non comincia
quando si lascia la patria, ma quando non c'è più nel cuore la struggente
nostalgia della patria. L'esilio è di chi ha dimenticato il destino, la meta
più grande, il cielo del desiderio e della speranza. Heidegger, parlando della
«notte del mondo» nella quale ci troviamo, dice che essa è l'assenza di patria,
perché il dramma dell'uomo moderno non è la mancanza di Dio, ma il fatto che
egli non soffra più di questa mancanza. Il dramma è di non avvertire più il
bisogno di superare la morte, è di considerare dimora e patria, e non esilio,
questo tempo presente. L'illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi
soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, questa è la malattia mortale. Tu
sei morto non nel giorno in cui morirai, ma quando penserai di essere giunto al
tuo compimento. Tu sei morto quando il tuo cuore non vivrà più l'inquietudine e
la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora, di trovare, per
ancora nuovamente domandare e cercare.
L'uomo che si ferma, l'uomo che si sente padrone e sazio della verità, l'uomo
per il quale la verità non è più Qualcuno da cui essere posseduto sempre più
profondamente, ma qualcosa da possedere, quell'uomo ha ucciso in se stesso non
solo Dio, ma anche la propria dignità di essere umano. La condizione umana è,
insomma, una condizione esodale: l'uomo è in esodo, in quanto è chiamato
permanentemente ad uscire da sé, ad interrogarsi, ad essere in cerca di una
patria. Martin Lutero avrebbe detto sul letto di morte: «Wir sind Bettler: hoc
est verum!» - «Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità». Sono parole
dette da un «homo religiosus» alla sera della vita, quando è ormai sulla soglia
del mistero liberante per inabissarsi in esso e tutto vede nella verità che non
mente: «Siamo dei poveri mendicanti: hoc est verum!». Tale è l'uomo nella
verità del suo cuore e nel cuore della storia: un cercatore della verità, un
mendicante del cielo…
3.
L'Avvento: il Dio che ha tempo per l'uomo
Se
l'uomo è alla ricerca di Dio, Dio non di meno è alla ricerca dell'uomo. È
quanto ci testimonia il Vangelo di Gesù: il Dio che egli annuncia è il Dio
dell'avvento, il Dio che ha tempo per l'uomo. È il Dio che viene: venuto una
volta, egli ha dischiuso un cammino, ha acceso un'attesa, ancora più grande del
compimento realizzato. Perciò, nella tradizione cristiana l'avvento di Dio
nella storia è pensato come revelatio, una rivelazione: è uno svelarsi che
vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi che attira. Negli
ultimi secoli la teologia cristiana ha concepito la rivelazione soprattutto
come Offenbarung, apertura, manifestazione totale. Così, in essa l'avvento di Dio
è stato spesso pensato come esibizione senza riserve. Dio si sarebbe del tutto
consegnato nelle nostre mani: la storia - dirà Hegel - non è che il «curriculum
vitae Dei», il pellegrinaggio di Dio per divenire se stesso. Con feroce parodia
Nietzsche affermerà che questo «Dio è diventato finalmente comprensibile a se
stesso nel cervello hegeliano». È questa presunzione di ridurre Dio al mondo la
pretesa terribile dell'ideologia moderna, in tutte le sue forme. Ma questo è
precisamente l'opposto dell'annuncio cristiano: interpretare la rivelazione
come manifestazione totale, come apertura incondizionata e senza riserve, è il
più grande tradimento che di essa si possa fare.
È allora necessario liberarsi dal fraintendimento radicale del concetto di
rivelazione. Perché revelatio è, sì, un togliere il velo, ma è anche un più
forte nascondere. Re-velare è anche un'intensificazione del velare, un
nuovamente velare. È questo l'avvento di Dio nelle nostre parole, nella nostra
carne: rivelandosi, l'Eterno non solo si è detto, ma si è anche più altamente
taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace.
Maestro del desiderio, Dio è colui che dando se stesso, al tempo stesso si
nasconde allo sguardo. Dio è colui che rapendoti il cuore, si offre a te sempre
nuovo e lontano. Dio! Il Dio rivelato e nascosto, absconditus in revelatione -
revelatus in absconditate! Questo è il Dio dell'avvento. Perciò, la rivelazione
non è ideologia, visione totale, ma è parola che schiude i sentieri abissali
dell'eterno Silenzio. Questa intuizione è presente fin dalle origini della fede
cristiana, che riconosce ben presto il Cristo come «il Verbo procedente dal
Silenzio» (Sant'Ignazio di Antiochia). Essa permane intatta nella tradizione
della fede, specialmente nella testimonianza dei mistici. San Giovanni della
Croce in una delle sue Sentenze d'amore dice: «Il Padre pronunciò la Parola in
un eterno silenzio, ed è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli
uomini». Il luogo e l'origine della Parola è il Silenzio. Questo divino
Silenzio col linguaggio del Nuovo Testamento lo chiamiamo Padre. Il Padre
genera la Parola, il Figlio. E noi accoglieremo la Parola se, ascoltandola, la
trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla
Parola chi "tradisce" la Parola, chi non si ferma alla lettera, ma
ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio.
Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è Silenzio. La
Parola è e resta l'unico accesso al Silenzio della divinità, l'indispensabile
luogo a cui resteremo appesi, come inchiodati alla Croce. Tuttavia, ameremo la
Parola, l'ascolteremo veramente quando l'avremo trascesa per camminare in una
inesausta, perseverante ricerca verso le profondità del Silenzio. Questo ci
hanno insegnato i nostri padri nella fede: la «lectio divina», la «ruminatio
Verbi» non sono che vie per imparare ad ascoltare nella Parola il Silenzio da
cui essa proviene, l'abisso che essa dischiude. Credere nella Parola
dell'avvento sarà allora lasciare che la Parola, schiudendo i sentieri del
Silenzio, ci contagi questo Silenzio e ci apra a dire nello Spirito le parole
della vita. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver
lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Così, la Parola sta fra due
silenzi, il Silenzio dell'origine e il Silenzio del destino o della patria, il
Padre e lo Spirito Santo. Tra questi due Silenzi - gli «altissima silentia Dei»
- è la dimora del Verbo. Ed io accoglierò il Dio dell'avvento, il Dio della
Parola, se in questa Parola troverò l'accesso agli abissi del Silenzio, e se,
camminando in essa e attraverso di essa nei sentieri del Silenzio, lascerò che
questa Parola mi abiti, si ripeta in me, si dica nel mio silenzio, affinché io
stesso divenga il riposo della Parola, il luogo dove la Parola si lascia
custodire e dire, come nel grembo verginale della Donna che ha detto
"sì" al mistero dell'avvento.
4. La
fede: dove l'esodo incontra l'Avvento
Pellegrini
nella notte, guidati dalla stella, i Magi hanno riconosciuto nel Bambino il
dono della verità, la luce che salva. Lo hanno adorato: in questa adorazione il
cercatore è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio,
cioè, che ha tempo per l'uomo. Dio esce dal silenzio perché la nostra storia
entri nel Silenzio della patria e vi dimori. L'incontro dell'umano andare e del
divino venire, l'alleanza dell'esodo e dell'avvento è la fede. Essa è lotta,
agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver
fede senza lottare, non crede. La fede è l'esperienza di Giacobbe. Dio è
l'assalitore notturno. Dio è l'Altro. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te
non è fuoco divorante, se l'incontro con Lui è per te soltanto tranquilla
ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d'amore, il tuo Dio non è
più il Dio vivente, ma il «Deus mortuus», il «Deus otiosus». Perciò Pascal
affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è
l'agonia dei cristiani, è l'agonia del cristianesimo, la lotta di credere, di
sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te,
come tu sei altro da Lui, libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di
questa distanza! Ecco perché il desiderio e l'inquietudine della ricerca
abiteranno sempre la fede: l'aver conosciuto il Signore non esimerà nessuno dal
cercare sempre più la luce del Suo Volto, accenderà anzi sempre più la sete
dell'attesa. Credere è cor-dare, come pernsavano i Medievali, un dare il cuore
che implica la continua lotta con l'Altro, che non viene afferrato, ma sempre
di nuovo ti afferra. Il credente è e resta in questo mondo un cercatore di Dio,
un mendicante del Cielo, sulle cui labbra risuonerà sempre la struggente
invocazione del Salmista: "Il tuo volto, Signore, io cerco. Non
nascondermi il tuo volto" (Salmo 27,8s). Davide, l'amato, cerca il volto
rivelato e nascosto del suo Dio: volto rivelato, perché non potrebbe essere
cercato se in qualche misura non avesse già raggiunto e rapito il suo cuore; e,
tuttavia, volto nascosto, perché resta ardente in quello stesso cuore il
desiderio della visione. Nella notte del tempo la sua anima si mostra ancora
assetata della luce dell'Eterno. Il volto del Signore vuole essere sempre
cercato: lo lascia intendere anche il termine ebraico "panim",
"volto", vocabolo sempre plurale, che dice come il volto sia
continuamente nuovo e diverso, mai uguale a se stesso eppur sempre lo stesso,
com'è l'amore di Dio, fedele in eterno e proprio perciò nuovo in ogni stagione
del cuore.
In questa incessante ricerca del Volto amato, il credente mostra di essere
veramente raggiunto, toccato e trasformato dal divino Altro, rivelato e
nascosto: che cos'è peraltro la sua fede, se non il lasciarsi far prigioniero
dell'invisibile? Perciò, chi crede non ha un pensiero totalizzante, luminoso su
tutto, non è schiavo di un'ideologia, ma vive in una sorta di conoscenza
notturna, carica di attesa, sospesa tra il primo e l'ultimo avvento, già
confortata dalla luce che è venuta a splendere nelle tenebre e tuttavia in una continua
ricerca, assetata di aurora. Come aurora è il mondo della fede, non ancora
pienamente illuminato dal giorno che appartiene ad un altro tempo e ad un'altra
patria, e tuttavia sufficientemente rischiarato per sopportare la fatica di
conservare la fede. Pellegrino verso la luce, già conosciuta e non ancora
pienamente raggiunta, chi crede avanza nella notte, appeso alla Croce del
Figlio, la stella della redenzione.
Ma la fede è anche resa e abbandono: quando tu nella lotta capisci che vince
chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all'assalitore
notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell'incontro,
puoi vivere la fede come abbandono. La fede è consegnarsi ciecamente all'Altro:
«Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto
forza e hai prevalso... Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più
in suo nome!" Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle
mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,7. 9). Nelle
«Confessioni» di Geremia troviamo una altissima testimonianza di questa resa
della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha
saputo conoscere la capitolazione dell'amore al punto da essere pronto a
consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di
bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce. La bellezza che
salverà il mondo non è la seduzione di una verità totale, che ambisca a
spiegare ogni cosa. La sola bellezza che salverà il mondo è la bellezza
dell'Uomo dei dolori, dell'amore crocifisso, della vita donata, dell'offerta
totale di sé al Padre e agli uomini. La pace della fede, la gioia che il mondo
non conosce, non è l'assenza di lotta, di agonia, di passione, ma è il vivere
perdutamente arresi all'Altro, allo Straniero che invita, al Dio vivente.
L'adorazione di cui i Magi sono testimoni non è, allora, assenza di
scandalo, ma presenza di un più forte amore: come quello di cui dà prova la
piccola Teresa di Lisieux, che non a caso ha voluto chiamarsi "del Bambino
Gesù", quasi a stare in adorazione davanti all'Amato come i Magi davanti
al Bambino. Ella non ha paura di descrivere lo scandalo della sua fede
innamorata e fedele: «Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza
fede. Ha permesso che l'anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, che il
pensiero del cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento...
Bisogna aver viaggiato in questa tenebra per capire che cosa essa è. So che il
paese nel quale sono nata non è la mia patria. So che ce n'è un'altra alla
quale devo aspirare incessantemente. Non è una storia inventata, è una realtà
sicura, perché il re della patria luminosa è venuto a vivere 33 anni nel paese
delle tenebre. Ma, ahimè, le tenebre non hanno capito che quel re divino era la
luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina.
Vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi, per quanto tempo
voi vorrete, del pane del dolore, e non vuole alzarsi da questa tavola colma
d'amarezza, alla quale mangiano i poveri peccatori, prima del giorno che voi
avete segnato. Ma anche lei osa dire a nome proprio e dei suoi fratelli,
abbiate pietà di noi, Signore, perché siamo poveri peccatori». La tenebra è il
luogo dell'amore, della pace. È in essa che la fede è scandalo: non risposta
tranquilla alle nostre domande, ma, come lo è Cristo, sovversione di ogni
nostra domanda, ricerca del suo Volto, desiderato, rivelato e nascosto.
Solo dopo che noi lo avremo ciecamente seguito e perdutamente avremo accettato
di amarlo dove e come Lui vorrà, Egli diverrà per noi la sorgente della gioia
che non conosce tramonto. Noi crederemo in Dio se saremo sempre cercatori del
Suo volto, guidati dalla stella venuta nella notte, Gesù. Perciò, il credente
non è in fondo che un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a
credere. Se non fosse tale, la sua fede non sarebbe altro che un dato
sociologico, una rassicurazione mondana, una delle tante ideologie che hanno
illuso il mondo e determinato l'alienazione dell'uomo. La sua luce resterebbe
quella del tramonto: «La terra interamente illuminata risplende di trionfale
sventura» (Horkheimer - Adorno). Diversamente da ogni ideologia, la fede è un
continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni
giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare. La
luce della fede è aurora di chi sa aprirsi all'oltre e al nuovo di Dio nello
stupore e nell'adorazione. Proprio come confessano i Magi davanti al Bambino:
"Siamo venuti per adorarlo".
Una
conclusione che è un inizio…
Da
questa apologia della ricerca, di cui i pellegrini guidati dalla stella sono
modello fino all'approdo pervaso dallo stupore dell'adorazione, viene allora un
grande no: il no alla negligenza della fede, il no ad una fede indolente,
statica ed abitudinaria. E ne viene il sì ad una fede interrogante, anche
dubbiosa, ma capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all'altro,
a vivere l'esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato
nella Sua Parola. Quel no raggiunge però anche il non credente tranquillo,
incapace di aprirsi alla sfida del Mistero, attestato nella presunzione del
"come se Dio non ci fosse", non disposto a rischiare la vita
"come se Dio esistesse". Se c'è una differenza da marcare, allora,
nella ricerca della verità che è la ricerca di Dio, non è anzitutto quella tra
credenti e non credenti, ma l'altra tra pensanti e non pensanti, tra uomini e
donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare
per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta,
che sembrano essersi accontentati dell'orizzonte penultimo e non sanno più
accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell'ultimo orizzonte e
dell'ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è degno di essere
vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera, e il coraggio di
tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine…
Solo allora, quando ci saremo fatti pellegrini nella notte alla luce della
Stella, potremo dire nella verità come hanno detto i Magi: "Dov'è il re
dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per
adorarlo" (Mt 2,2). E sarà la gioia dell'incontro, la bellezza del
riconoscerci amati nell'Amato. E gli Angeli potranno cantare anche per noi la
gloria all'Altissimo e la pace offerta in abbondanza a quanti si lasciano amare
da Lui. E potremo far pienamente nostra la preghiera dell'innamorato di Dio,
che ha incontrato l'Amato e ancor più desidera incontrarLo, la preghiera con
cui Anselmo apre il suo Proslogion, voce della sete del Volto rivelato e
nascosto: "'II Tuo volto, Signore, io cerco' (Sal 26, 8). Signore Dio mio,
insegna al mio cuore dove e come cercarTi, dove e come trovarTi... Che cosa
farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da Te, ma che a Te
appartiene? Che cosa farà il Tuo servo tormentato dall'amore per Te e gettato
lontano dal Tuo volto? Anela a vederTi e il Tuo volto gli è troppo discosto.
Desidera avvicinarTi e la Tua abitazione è inaccessibile... Insegnami a
cercarTi e mostraTi quando Ti cerco: non posso cercarTi se Tu non mi insegni,
né trovarTi se non Ti mostri. Che io Ti cerchi desiderandoTi e Ti desideri
cercandoTi, che io Ti trovi amandoTi e Ti ami trovandoTi".
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