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Catechesi proposta dai vescovi ai giovani italiani riuniti a Colonia

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  • Ricercare la verità, senso profondo dell'esistenza umana (17 agosto 2005)
    • Scoprire la bellezza della fede
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Scoprire la bellezza della fede

Tarcisio Bertone, arcivescovo di Genova

 

Cari giovani, la GMG è diventata dal 1985 un appuntamento che segna ormai la vita dei cristiani, non tanto come una avventura spensierata per una delle tante occasioni di aggregazioni giovanili (per incontrare un cantante o un campione sportivo di motociclismo o di formula uno), ma come un cammino da vivere con tappe e strumenti impostati in percorsi condivisi. Si tratta di una ricerca sincera e determinata che porta a scoprire «il tesoro nascosto e la perla preziosa»: Cristo nostra speranza, e il Suo progetto di vita.
Così possiamo vedere la messa a fuoco del pellegrinaggio per le strade della storia contemporanea, come prima missione di strada, e la centralità della persona di Gesù e della sua vita dopo la Giornata di Denver; la gioia di essere cristiani e la missionarietà ad gentes dopo quella di Manila; il coraggio della proposta della fede nelle culture moderne con stile laicale dopo Parigi; la gioia di vivere nella comunità credente e la genialità dell'apporto dei giovani alla vita della Chiesa e del mondo dopo Roma. Nell'aprile del 2003 si è fatto il punto sulle GMG, confermando che questi eventi sono momenti che rivelano la qualità della fede, quella dei giovani e quella degli educatori. «Grazie alle GMG è cresciuta una nuova generazione di giovani che hanno bisogno di una nuova generazione di formatori, siano essi sacerdoti, religiosi, religiose, laici o laiche. Una generazione nuova per i metodi, per i programmi, per l'entusiasmo! Il settore della pastorale giovanile, forse più di ogni altro settore pastorale della Chiesa, non solo non consente pause nella testimonianza di Cristo, ma esige che questa testimonianza sia nella sua autenticità e nella sua stessa credibilità costantemente all'altezza di aspettative sempre severe. Chi lavora con i giovani sa bene quanto sia facile deluderli, quanto poco basti per perderli!» (mons. S. Rylko, presidente del pontificio Consiglio per i laici). Infatti la maggior parte delle inchieste sui giovani e la religione oggi confermano che essi sono figli degli adolescenti degli anni 1960 e 1970, che, ai loro tempi, hanno scelto di non trasmettere sempre quello che essi stessi avevano ricevuto nella loro educazione.
Hanno lasciato quindi che i figli se la sbrogliassero da soli sul piano morale e spirituale, senza altra preoccupazione educativa che quella di badare alla loro realizzazione affettiva. Così in molti casi li hanno lasciati privi di riferimenti spirituali, abbandonati a se stessi. Questo atteggiamento ha prodotto giovani che non hanno alcuna formazione e ancor meno cultura religiosa. La religione li attira e allo stesso tempo li inquieta quando viene presentata come fonte di radicalità di impegno nel mondo. In una società che, per diverse ragioni, coltiva il dubbio e il cinismo, la paura e l'impotenza, l'immaturità e l'infantilismo, alcuni giovani tendono ad aggrapparsi a modalità di gratificazione primarie e hanno difficoltà a diventare maturi. Invece la maggior parte di quelli che partecipano alla GMG esprimono benessere e gioia di vivere, stupiscono per il sorriso e la gentilezza, la cooperazione e l'apertura. Vivono esperienze e fallimenti, ma hanno sete di qualcosa di diverso. La società europea, sempre più vecchia, scettica e senza speranza, è colpita da questi giovani che credono in Dio e cercano di vivere di conseguenza (Cfr. Testimoni, 14/31 luglio 2005, p.1-3).

 

1. CON LA PEDAGOGIA DEL PELLEGRINAGGIO
Una recente ricerca ci dice che la religiosità giovanile, quale si manifesta nei giovani delle GMG, è assimilabile al modello del cercatore e del pellegrino, di colui cioè che è in cammino e che quindi non può mai dire di aver raggiunto una meta; che tende a considerare ogni esperienza come una tappa del proprio itinerario di fede. La scelta di questa figura è emblematica di una religiosità in movimento, che fa della mobilità esteriore il riflesso di quella interiore. Si è alla ricerca di nuove esperienze religiose come occasioni di arricchimento del proprio vissuto di fede. I giovani interpretano la fede più come un processo e un dinamismo che come una conquista già realizzata. In questo senso la GMG intende dare una risposta esemplare e pedagogica. A fronte di un atteggiamento critico e selettivo nei confronti dell'appartenenza cristiana, il vissuto della Giornata conduce a un giudizio positivo nei confronti della comunità cristiana, di cui si percepisce la vicinanza e l'attenzione ai bisogni e ai linguaggi della gente e dei giovani. A fronte della sensazione di isolamento e marginalità collegata alla vita quotidiana, essa consente di provare l'euforia della condivisione con un gran numero di giovani di esperienze e contenuti della vita di fede, in una città finalmente accogliente e "simpatica". A fronte della tentazione di una spiritualità fai-da-te e intimista, la Giornata ripropone con forza la centralità della parola di Dio e risveglia il bisogno di formazione in relazione ai contenuti della fede. La GMG rivela infine il ruolo di "servizio pubblico" svolto dalla Chiesa in numerosi settori della vita sociale, nella misura in cui contribuisce a costruire una società più tollerante e più solidale, partecipando così all'educazione ai valori comuni. Costituisce quindi un mezzo straordinario di evangelizzazione del pianeta giovani, perché appare come una risposta adeguata alle loro attese, soprattutto grazie alla pedagogia adottata. Essa infatti mira a far vivere al maggior numero possibile di giovani un'esperienza spirituale ed ecclesiale, secondo una proposta kerigmatica, sacramentale e catechetica della fede, non relegando la dimensione religiosa nel reparto degli optional della vita, nel campo del nascosto e del privato. A questa privatizzazione della vita religiosa i giovani hanno già risposto "no" proprio in occasione delle GMG.

 

2. IN RICERCA CON EDITH STEIN (1891-1942)
Venendo a Colonia, che non è solo la città dei Magi, ma anche la città del Carmelo in cui entrò Edith Stein nel 1933, dopo un appassionato percorso di ricerca, è naturale che ci ispiriamo a Edith Stein come a modello di ricerca della verità e di cammino nella Fede. È proprio la parola «ricerca» che può riassumere la sua vita: la sua ricerca e un'altra ricerca che si intreccia mirabilmente con la sua, cioè la ricerca di Dio su di lei, quella che Cristo fa su ogni persona che viene in questo mondo, su ogni uomo: «fissatolo, lo amò» (Vangelo del "giovane ricco": Mc 10,21). Sentiamo il racconto autobiografico di Edith Stein. Fin da piccola volevo sapere: ai miei sei fratelli e sorelle facevo fare ogni giorno il resoconto di quello che imparavano a scuola. Pensate, per la scuola ho pianto: nel senso che volevo andarci anche se non avevo ancora l'età per farlo!
La scuola mi ha dato tanto, come mi dava tanto mia madre, che mi aveva introdotto alla fede di Israele a cui aderiva con tutta se stessa.
A 14/15 anni sono andata in crisi: mi sembrava di aver già spremuto tutto ciò che potevo sia dalla scuola che dall'ambiente familiare. Leggevo e studiavo tantissimo per conto mio, ma ho rischiato di non finire le superiori. La fede, poi ho proprio deciso di rifiutarla: ho deliberatamente scelto di non pregare più. Accompagnavo mia madre in sinagoga, ma mi limitavo a osservare la sua preghiera. Io credevo di dover cercare altrove, fidandomi soltanto della mia ragione: la mia unica preghiera era la ricerca della verità. Ed è per questo che mi sono iscritta all'università, prima a psicologia e poi a filosofia: la mia ricerca di un punto fermo mi appariva, in alcuni periodi, addirittura angosciante. Ho incontrato sulla mia strada il più grande filosofo europeo di quel tempo, Edmund Husserl, che personalmente non era credente ma che ha insegnato un metodo a me e a tanti altri che poi si convertiranno al cristianesimo: ritornare alle realtà. Essere leali di fronte ai fatti. Cioè liberarci dai pregiudizi, non scambiare la realtà con le nostre misurazioni, come fa certa scienza, o con le nostre emozioni. Osservare la realtà è stato, ad esempio, vedere una donnetta, con la cesta della spesa, entrare nel Duomo di Francoforte, dove io ero entrata come turista, e soffermarsi per una breve preghiera. Ciò fu per me qualcosa di completamente nuovo. Nelle sinagoghe e nelle chiese protestanti, che ho frequentato, i credenti si recavano alle funzioni. Qui però una persona era entrata nella chiesa deserta, come se si recasse a un intimo colloquio. Non l'ho mai dimenticato. Poi mi sono laureata e Husserl mi ha voluto come assistente al posto di Adolf Reinach che era stato chiamato alle armi. Eravamo nel 1917, in piena guerra mondiale. Qui devo raccontare un altro episodio che mi ha segnata. Un giorno è arrivata la notizia che Reinach era caduto sul campo di battaglia. Sua moglie, di cui ero molto amica, mi aveva chiesto di andare a casa loro per confortarla. Ma quando l'ho incontrata sono rimasta sconvolta dal suo atteggiamento sereno, nel quale ho intuito immediatamente la forza della fede cristiana a cui lei e il suo compagno si erano convertiti poco prima che lui partisse per il fronte. Mi si è aperta all'improvviso la porta di un regno sconosciuto: il regno della speranza cristiana. Fu il mio primo incontro con la croce e con la forza divina che essa comunica a chi la porta. Vidi per la prima volta, tangibile davanti a me, la Chiesa, nata dal dolore del Redentore, nella sua vittoria sul pugno della morte. Fu il momento in cui andò in frantumi la mia incredulità e risplendette la luce di Cristo. Cristo nel mistero della croce. E qui posso cominciare a parlare di un'altra ricerca, quella che ha fatto Cristo per cercare me.
Ho cominciato a informarmi in modo sistematico su quel grande fatto costituito dal cristianesimo, accorgendomi che non si trattava più di conquistare un sapere con lo sforzo personale, ma di ricevere in dono. Davvero la mia vita è cambiata: dal pretendere di afferrare sono passata al lasciarmi afferrare, mettendoci soltanto docile disponibilità. È stato così anche nella notte della decisione definitiva: nell'estate del 1921 ero a casa di Hedwig Conrad-Martius, una discepola di Husserl, convertita assieme al proprio coniuge alla fede evangelica. Una sera, sola in casa, ho trovato nella libreria l'autobiografia di Teresa d'Avila. Ho letto per tutta la notte. Quando ho chiuso il libro mi sono detta: questa è la verità. All'alba sono andata nella chiesa cattolica ad assistere alla messa. Mi rendevo conto di comprenderla come se davvero corrispondesse alla mia realtà più profonda. Alla fine ho chiesto al sacerdote il battesimo, che mi è stato dato il 1° gennaio del 1922. Chi mi cercava mi aveva raggiunta. Il cammino della fede ci porta più lontano del cammino filosofico: ci dona Dio, vicino come Persona, Dio che ama e ci usa misericordia, e ci dà quella sicurezza che non appartiene a nessuna conoscenza naturale. Anche se il cammino della fede è oscuro. Perché passa dalla croce. Sono entrata nel Carmelo di Colonia solo nel 1933, perché il mio direttore spirituale voleva che facessi fruttare i miei talenti nel mondo: nell'attività di insegnamento, nelle conferenze, nella ricerca. Sono entrata quando ho capito che l'essere attirati in Dio è contemporaneamente un uscire da se stessi per andare verso il mondo, con lo scopo di portarvi la vita divina. E si passa necessariamente dalla Croce. Il Cristianesimo mi ha restituito alle mie radici: non si può neanche immaginare quanto sia stato importante, ogni mattina quando mi recavo in cappella, ripetermi, alzando lo sguardo al crocifisso e all'effige della Madonna: erano del mio stesso sangue. E con quelli del mio sangue, anche con mia sorella Rosa, carmelitana come me, ho condiviso la deportazione, ad Auschwitz e la morte nelle camere a gas. Pochi giorni prima della deportazione mi avevano parlato di fare qualcosa per salvarmi la vita, ma avevo risposto: «Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta». Oggi potrei dire che ero pronta fin dal giorno della mia nascita: il 12 ottobre 1891, quando sono nata, era lo Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, in cui il sacerdote entrava nel Tempio di Gerusalemme per domandare perdono a Dio per il suo popolo e offrirgli un sacrificio. E il 9 agosto del 1942, quando sono morta, era il giorno del memoriale per la distruzione del Tempio. No, nella prospettiva di Dio non c'è spazio per il caso. L'intera nostra vita, ai suoi occhi, costituisce una progressione logica perfetta. La cui luce ci sarà donata da Lui, quando lo incontreremo. Perché se noi cerchiamo la verità, anche senza saperlo, cerchiamo Lui. (Da "Una stella per strada", Quaderni CEI, n. 24, p. 166-167)

 

3. SCOPRIRE LA BELLEZZA DELLA FEDE
Benedetto XVI, parlando al clero valdostano sulla necessità di attirare alla Chiesa i giovani, ha detto: «È importante che i giovani possano scoprire la bellezza della fede, che è bello avere un orientamento, che è bello avere un Dio amico che ci sa dire realmente le cose essenziali della vita. Questo fattore intellettuale deve essere accompagnato da un fattore affettivo e sociale, cioè da una socializzazione della fede. Perché la fede può realizzarsi solo se ha anche un corpo e ciò implica l'uomo nelle sue modalità di vivere… Dato che la vita sociale si è allontanata dalla fede, noi dobbiamo offrire modi di una socializzazione della fede, affinché la fede formi comunità, offra luoghi di vita e convinca in un insieme di pensiero, di affetto, di amicizia della vita» (L'OSSERVATORE ROMANO, 27 luglio 2005, p. 5). Possono essere considerate come comunità di alleanza evangelica improntate ad amicizia i gruppi delle parrocchie, le associazioni religiose, gli istituti pii, le confraternite e così via. Si potrebbe leggere la storia della Chiesa anche sotto il profilo di movimenti di fraternità comunitaria, di amicizia, che riflettono le parole di Gesù: «Questo è il mio comandamento che vi amiate scambievolmente come io ho amato voi! Nessuno ha amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici» (Gv 15, 12-13). L'amicizia si presenta come un bisogno presente in tutti. Perché mai? Perché essa ha la sua origine suprema in Dio ed è trasmessa nel creato come un dono divino. Il primo uomo non solo è stato creato buono, ma è anche stato costituito in amicizia con il suo Creatore, in armonia con se stesso e con la creazione. Un'amicizia purtroppo deturpata dai progenitori per una condotta contrastante con l'amore divino, ma che in realtà Dio stesso, dopo la caduta, ha risollevato avendo costante cura del genere umano, con la promessa della redenzione «per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene». (CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei Verbum, 3).
Dio Padre, dopo aver parlato «nei tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, in questi giorni per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2), continua a far giungere la sua parola ai singoli interlocutori umani come ad amici: «Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Come dono di Gesù anche lo Spirito Santo, quale presenza amichevole va ingenerando e risvegliando in noi sempre nuove capacità d'amare, nuove possibilità di stabilire rapporti di amicizia con ogni persona, trasformando ognuno in un prossimo amato. E. Van Broeckhoven, gesuita operaio, pregava: «Grazie, Signore, per avermi fatto comprendere che ogni uomo che incontro, anche per caso, è da te chiamato a stabilire dei legami di amicizia celeste con me» (cfr Tullo Goffi, Amore d'amicizia in Dizionario di spiritualità dei laici, Ed. O.R., Milano, 1981, p. 22).
«Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno di noi è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo di Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere e comunicare agli altri l'amicizia con lui» (BENEDETTO XVI, Omelia durante la Messa per l'inizio del Pontificato, 24 aprile 2005). Un recente libro di Michele Zanzucchi si snoda nel racconto della storia di due ragazzi genovesi che hanno coltivato una splendida amicizia, aperta e alimentata da un obiettivo comune: portare a tutti il dono dell'ideale evangelico, che li aveva affascinati. Carlo Grisolia e Alberto Michelotti hanno vissuto una storia di amicizia fra di loro e con i loro coetanei, in vista della santità. Facevano parte dei GEN (Generazione Nuova, emanazione del Movimento dei Focolari). Il Movimento si caratterizza per la sua composizione in gruppi più o meno numerosi: le "unità GEN", fondate sulla fraternità evangelica, sinonimo di una sana amicizia; su una convergenza di ideali e di progetti, su una "comunione" intesa come apertura alla presenza di Gesù in mezzo, secondo la promessa evangelica: «Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo ad essi» (Mt 18,20).
Un desiderio accomunava questi due giovani: mettere Dio al centro della propria vita. L'intesa e l'amicizia tra Carlo e Alberto aveva quindi radici profonde. Il poter affrontare insieme (con Gesù presente fra loro) problemi e difficoltà di ogni giorno, li aiutava a vivere i momenti difficili e a superare la tentazione di fermarsi e lasciar perdere. Tante volte hanno ricominciato, tante volte hanno sperimentato la rinascita sempre nuova della vita in loro e attorno a loro. «Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine - ha detto Joseph Ratzinger alla vigilia della sua elezione a Sommo Pontefice -: l'inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell'amicizia con Cristo. In verità, l'amore, l'amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri - siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L'unica cosa, che rimane in eterno, è l'anima umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane - l'amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio» (Omelia Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005).

 

4. DIO SOLO
È questo l'impulso missionario che ha animato il famoso apostolo del deserto sahariano P. Charles de Foucauld. «Come monaco che vive solo per Iddio, non posso parlarti né pensarti senza desiderare ardentemente per te l'unico bene che desidero per me stesso: Dio. Dio conosciuto, amato e servito, nel tempo e nell'eternità. Perdonami se ti parlo così intimamente. O piuttosto, non ti chiedo perdono, essendo certo che mi comprendi e mi approvi. Dio è grande, più grande di tutte le cose che possiamo enumerare. Lui solo merita i nostri pensieri e le nostre parole. E se noi parliamo, se tu fai fatica a leggermi e io per scriverti rompo il silenzio del chiostro, lo faccio per aiutarci vicendevolmente a meglio conoscerlo e servirlo. Tutto ciò che non porta a questo, conoscere e servire meglio Dio, è tempo perduto. Appena credetti che ci fosse un Dio, capii che non potevo fare altrimenti che vivere soltanto per lui. La mia vocazione religiosa data al momento stesso della mia fede. Dio è così grande ed esiste una differenza tale tra Dio e tutto ciò che non è lui! Desideravo essere religioso, non vivere che per Iddio e fare ciò che è più perfetto ad ogni costo. Il Vangelo mi mostrò che il primo comandamento è di amare Dio con tutto il cuore e che bisognava racchiudere tutto nell'amore». (Da una lettera di Charles de Foucauld a Henri de Castries 1938)


Atto di abbandono
(Charles de Foucauld)

Padre mio,
io mi abbandono a te,
fa di me ciò che ti piace;
qualunque cosa tu faccia di me,
ti ringrazio.
Sono pronto a tutto,
accetto tutto,
purché la tua volontà si compia in me,
e in tutte le tue creature;
non desidero niente altro,
mio Dio.
Rimetto la mia volontà nelle tue mani,
te la dono,
con tutto l'amore del mio cuore,
perché ti amo.

 

5. LA PROVOCAZIONE DEL MODELLO CRISTIANO
Vorrei rivolgere anche a voi l'augurio che San Paolo rivolgeva ai cristiani di Efeso: « Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-18). Generazioni e generazioni di cristiani hanno cercato, conosciuto, approfondito e amato la figura di Cristo "leva della storia". Le diverse cristologie che ne sono emerse hanno contribuito a disegnare la poliedrica figura del Salvatore, quale è stata compresa e interpretata nelle varie culture e secondo il carisma dei Santi che ne hanno tentato l'imitazione. È un bagaglio di conoscenze e di esperienze che si offre a noi, cristiani del terzo millennio.
Riassumiamo alcune affermazioni:
1. Cristo viene confessato come il salvatore dell'uomo e la via alla sua completa divinizzazione;
2. nella sua croce si compie il mistero della redenzione del dolore e della morte dell'uomo;
3. la sua umanità è vista come il modello e la sorgente di ogni autentico umanesimo;
4. la sua persona divina è come il fine e il compimento del processo evolutivo del cosmo e dell'umanità;
5. la sua storia terrena è come luogo privilegiato di dialogo e di offerta salvifica;
6. il suo evento come la realizzazione dell'intrinseca aspirazione dell'uomo «uditore della Parola» e «salvato storicamente dalla Parola di Dio incarnata»;
7. il suo messaggio come autentica liberazione da ogni schiavitù, povertà e ingiustizia;
8. la sua presenza di Risorto come vicinanza provvidente e continua e come grande ispiratrice della sapienza di vita del popolo semplice e umile, fermamente ancorato alla celebrazione partecipata e festosa dei suoi misteri di salvezza;
9. il suo evento come spinta trasformatrice e rinnovatrice della cultura dei popoli;
10. il suo mistero come il catalizzatore dei più nobili ideali dei giovani, che lo considerano unico e vero donatore di gioia, libertà e vita.

Certo, anche nell'esperienza cristiana non mancano zone d'ombra come l'ignoranza, la trascuratezza catechetica, la tentazione sincretistica, gli indebiti riduzionismi, le accentuazioni unilaterali e le spinte relativistiche. Sia i pregi che i limiti di questa sommaria mappa cristologica sono, però, motivo di «rievangelizzazione».
A tutto ciò si dovrebbe aggiungere la cosiddetta «cristologia dei Santi» e cioè l'interpretazione vitale che i Santi hanno dato di Gesù nella loro esemplare esistenza personale: come, ad esempio, il Cristo povero e gioioso di Francesco di Assisi, il Cristo re e maestro di Ignazio di Lodola, il Cristo buon Samaritano di Giovanni di Dio, il Cristo pastore ed educatore di Giovanni Bosco. La conoscenza e l'esperienza che i cristiani hanno di Gesù Cristo costituisce un patrimonio prezioso da trasmettere e da far ulteriormente fruttificare. È infatti un'eredità che offre spunti sempre validi per la rimotivazione dell'esperienza cristiana oggi. Sulla base di questa contemplazione di fede sgorga dal nostro cuore una gioiosa confessione di speranza: «Tu, o Cristo risorto e vivo, sei la speranza sempre nuova della Chiesa e della umanità; tu sei l'unica e vera speranza dell'uomo e della sua storia; tu sei tra noi la speranza della gloria (Col. 1,27) già in questa nostra vita e oltre la morte. In Te e con Te noi possiamo raggiungere la Verità, la nostra esistenza ha un senso, la comunione è possibile, la diversità può diventare ricchezza, la potenza del Regno è all'opera nella storia e aiuta l'edificazione della città dell'uomo, la carità dà valore perenne agli sforzi dell'umanità, il dolore può diventare salvifico, la vita vincerà la morte, il creato parteciperà alla gloria dei figli di Dio!».

 

6. L'AMORE A CRISTO FORTE COME LA MORTE
Un autore medioevale, vescovo di Canterbury, ci offre una appassionata testimonianza dell'esperienza vissuta, dalla conoscenza all'amore di Cristo: «L'amore che portiamo a Cristo deve essere una specie di morte, in quanto è distruzione della vecchia vita, abolizione dei vizi e abbandono delle opere morte. Sia questo amore una specie di contraccambio a Cristo, anche se dobbiamo ammettere che sarà sempre impari al suo amore per noi e come una sua sbiadita immagine. Egli infatti ci ha amato per primo (cfr. 1Gv 4,10) e con l'esempio del suo amore è diventato per noi come un richiamo per renderci conformi alla sua immagine, spogliarci dell'uomo terreno e rivestirci dell'uomo celeste. Come ci ha amati, così dobbiamo amarlo. Ci ha lasciato, infatti, un esempio perché seguiamo le sue orme (cfr. 1Pt 2,21). Per questo dice: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore» (Ct 8,6). Come se dicesse: Amami come io ti amo. Abbimi nella tua mente, nei tuoi ricordi, nei tuoi desideri, nei tuoi sospiri, nei tuoi lamenti, nei tuoi gemiti. Non dimenticarti, o uomo, che da me viene tutto quello che sei. Ricorda come ti ho preferito a tutte le altre creature, a quale dignità ti ho innalzato, come ti ho coronato di gloria e di onore, come ti ho fatto poco meno degli angeli, e tutto ho posto sotto i tuoi piedi (cfr. Sal 8,6-7). Ricordati non solo di quanto ti ho donato, ma quante cose terribili ed immeritate ho sofferto per te. Solo allora potrai capire quanto sei ingiusto verso di me privandomi del tuo amore. Chi infatti ti ama come ti amo io? Chi ti ha creato, se non io? Chi ti ha redento, se non io? Togli via da me, o Signore, questo cuore di pietra. Strappami questo cuore raggrumato. Distruggi questo cuore non circonciso. Dammi un cuore nuovo, un cuore di carne, un cuore puro! Tu, purificatore di cuori e amante di cuori puri, prendi possesso del mio cuore, prendivi dimora. Abbraccialo e contentalo. Sii tu più alto di ogni mia sommità, più interiore della mia stessa intimità. Tu, esemplare di ogni bellezza e modello di ogni santità, scolpisci il mio cuore secondo la tua immagine; scolpiscilo col martello della tua misericordia, Dio del mio cuore e mia eredità, o Dio, mia eterna felicità. Amen (cfr. Sal 72,26)» - [Dai «Trattati» di Baldovino di Canterbury, vescovo (Tratt. 10; PL 204,513-514.516)].




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