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Autori vari
Catechesi proposta dai vescovi ai giovani italiani riuniti a Colonia

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  • Ricercare la verità, senso profondo dell'esistenza umana (17 agosto 2005)
    • La verità si esprime con l'Amore
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La verità si esprime con l'Amore

Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma e rettore della Pontificia Università Lateranense

 

"Dove dunque ti trovai, per conoscerti? Certo non eri già nella mia memoria prima che ti conoscessi. Dove dunque ti trovai, per conoscerti, se non in te, sopra di me? Lì non v'è spazio dovunque: ci allontaniamo, ci avviciniamo, e non v'è spazio dovunque. Tu, la Verità, siedi alto sopra tutti coloro che ti consultano e rispondi contemporaneamente a tutti coloro che ti consultano anche su cose diverse. Le tue risposte sono chiare, ma non tutti le odono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ode la risposta che vuole. Servo tuo più fedele è quello che non mira a udire da te ciò che vuole, ma a volere piuttosto ciò che da te ode. Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace" (Agostino, Confessioni, IX,26,37;27,38).

Questo testo di s. Agostino può creare lo scenario significativo su cui porre alcune riflessioni che emergono dal tema della nostra prima catechesi: "Ricercare la verità, senso profondo dell'esistenza". Non dovrà passare inosservato che il nostro testo inizia con una domanda. Interrogare, infatti, è il primo atto di chi cerca qualcosa. La nostra conoscenza è sempre segnata nel suo inizio da una domanda che chiede non solo il "che cos'è", ma anche "che senso ha?". E' così per la conoscenza naturale che sorge in noi quando incontriamo qualcosa di cui prima non avevamo conoscenza, è lo stesso per la conoscenza scientifica che pone domande cercando di verificare la coerenza delle proprie teorie, è così anche per la conoscenza di fede quando non cessa di interrogare ciò in cui crede per avere un'intelligenza che permetta di compiere un atto di libertà. Porre domande è sempre indice del desiderio di conoscere e richiede una sorte di stupore e meraviglia perenne che distrugge l'apatia dell'ovvietà e provoca ad andare sempre oltre quanto abbiamo conquistato.

Come si nota, nel titolo della nostra catechesi ci sono due termini fondamentali con cui dobbiamo confrontarci: verità e senso; scopriremo, comunque, che alla fine i termini saranno almeno quattro. E' necessario, infatti, aggiungere la fede e l'amore come espressioni che sono interne alla verità e al senso e senza dei quali è impensabile che si possa raggiungere un significato vero, genuino e coerente. E' bene chiarificare fin dall'inizio che la verità di cui vogliamo parlare, non è quella dell'evidenza matematica; sarebbe troppo facile per noi nasconderci dietro una formula numerica che tutto ingloba, ma lascia passivi per l'impossibilità di poterla modificare. Ciò su cui vogliamo riflettere non è una teoria, fosse anche la più acuta e profonda formulata dai filosofi; ciò di cui desideriamo parlare, al contrario, è della nostra vita quotidiana che chiede di avere un senso per essere vera. Senza di esso, infatti, sembra mancare qualcosa e tutto diventa approssimativo, frutto dell'improvvisazione. Può piacere per un po' di tempo, ma poi lascia l'amaro in bocca, perché si rimane sempre insoddisfatti e la ricerca non può essere portata all'infinito. Sì, aveva ragione Giovanni Paolo II quando scriveva: "L'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio" (FR 27).

La verità, nella concezione del cristianesimo, permane come una domanda continua che attraversa delle tappe fondamentali fino a sfociare nella sua pienezza alla fine della storia (cfr. Gv 16). Senza verità, d'altronde, la vita sarebbe relegata in uno spazio effimero e il rischio di un sopruso del violento sul debole sarebbe sempre all'erta. La verità, invece, per sua stessa natura inserisce all'interno di uno spazio di umanizzazione che crea progresso e permette lo svolgimento coerente dell'esistenza personale. Ma di questi tempi, è proprio necessario parlare di verità? Non cadiamo nel rischio di farci classificare come fondamentalisti, solo perché crediamo che alla fine ci sia una sola verità e questa ha il volto di Gesù di Nazareth? In un clima di appiattimento che mentre rinchiude nella solitudine dell'individualismo, relativizza ogni cosa, è davvero necessario parlare di ricerca della verità? Non diventerebbe forse più facile parlare di verità al plurale e lasciare tutti contenti di quella piccola verità che hanno raggiunto senza pretendere di andare oltre?
Come si nota, siamo posti dinanzi a un problema reale che tocca, comunque, in prima istanza la nostra esistenza storica, quella quotidiana fatta di incontri e di malintesi, di amore e di incomprensione e tradimenti, di desideri e di illusioni, di aspirazioni e di incognite, di fede e di speranza… la vita come la viviamo ogni giorno nel suo fuggire continuo, senza che venga data alcuna possibilità di fermare il tempo e di ritornare sui propri passi. Dilemma che ci attanaglia, perché tante volte vorremmo poter tornare indietro e non ripetere più gli sbagli compiuti oppure avere più tempo per fare con calma le cose che ci appassionano… invece, no; c'è l'inesorabilità del tempo che ti inchioda alle tue responsabilità, alle scelte che sei chiamato a compiere senza poterle rimandare a domani, agli obblighi a cui devi adempiere anche se non vorresti. Questa vita è oggetto della nostra riflessione nel momento in cui desideriamo scoprirne la verità profonda. Qui, probabilmente, nasce il paradosso che si apre dinanzi ai nostri occhi e che provoca la mente a riflettere sul senso di tutte queste cose. Qui si inserisce anche il nostro essere presenti a Koln per la GMG; chi per la prima volta e chi per tradizione, chi per convinzione e chi perché ha seguito gli amici; per qualsiasi motivo siamo qui oggi, questo deve avere un senso che ci interpella e chiede di essere portato alla luce per approdare a una scelta di libertà e non lasciare nulla al caso o al destino! Vogliamo, pertanto, metterci in cammino per verificare personalmente il sentiero che siamo chiamati a percorrere e scoprire se la bellezza antica e sempre nuova, di cui Agostino parla, trova risconto anche nella nostra vita di oggi.


La domanda tra le domande
La vita possiede forme di inesorabilità che tutti conosciamo, perché ne facciamo esperienza diretta. Una colpisce in modo particolare, perché è impressa in ciò che possediamo di più personale: il nostro volto. In pochi centimetri, la natura impegna ognuno a verificare le diverse tappe della vita. Implacabile come non mai, quella stessa natura che affascina nel momento in cui ne ammiriamo la possenza delle montagne o l'estensione dei mari, sembra diventare nemica quando obbliga ogni giorno a verificare chi siamo. Nessuna illusione sul tempo che passa; il volto lo dimostra e non rimane che prenderne atto. Con il passare degli anni gravitano sulle nostre spalle anche una somma di esperienze, positive e negative, che segnano lo sviluppo della nostra personalità. Il volto che si specchia coglie in un istante il dramma della vita. Se la certezza accompagna il tempo passato, il futuro è carico di incognite. Forse, il progresso compiuto dalla scienza non permetterà più che ci si ponga la domanda: "da dove vengo?"; nonostante tutto, però, rimane immutata la domanda: "dove sto andando?". Il miracolo dell'inizio della vita non è ancora stato scoperto, ma già sono poste le premesse per un intervento sempre più dominate della tecnica sulla natura; eppure, la stessa conquista che promette di estendere oltre il limite biblico la durata dell'esistenza, non è in grado di rispondere alla domanda: "cosa sarà di me dopo questa vita?". Da ogni parte si volge lo sguardo, sembra che le domande sulla propria esistenza invece di diminuire si accrescono e questo uomo sempre più potente, si scopre ancora più debole di prima. Paradosso ed enigma a se stesso, chiede insistentemente che gli venga data una risposta al perché della sofferenza, della solitudine e del dover lasciare le persone che ama per il sopraggiungere di una morte di cui non sa il come né il quando. Non possiamo nascondere che dinanzi a questi interrogativi, diverse tendenze culturali spingano al cinismo. Perché cercare una risposta se non esiste? Meglio vivere la vita ogni giorno per quello che concede, senza chiedere troppo al domani. Il carpe diem di Orazio non è solo dei tempi passati, è di oggi. Basti mettere a confronto alcuni testi per verificare le stesse posizioni ieri e oggi. È espressivo il frammento dell'epopea di Gilgamesh conosciuto già 1600 anni prima di Cristo: «Dove vanno i tuoi passi, Gilgamesh? Non troverai la vita che cerchi; quando gli dei crearono l'uomo gli diedero in sorte la morte. La vita trattennero in mano. Gilgamesh, riempiti il ventre, sii felice giorno e notte fa'che i giorni trabocchino di gioia, balla e fai musica giorno e notte. Indossa abiti nuovi, lavati il capo e goditi il bagno. Guarda il fanciullo che ti tiene per mano. Fa' che tua moglie goda del tuo abbraccio. Solo queste cose riguardano l'uomo». Non dovrebbe essere molto differente la risposta che migliaia di persone potrebbero dare il venerdì o il sabato notte dopo essersi inebriati, non solo di decibel, nelle varie discoteche fino alle prime ore dell'alba! Pascal, secoli più tardi, poneva lo stesso problema con una lucidità tale che pochi nella storia del pensiero hanno saputo esprimere allo stesso modo: "Quale chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, debole verme della terra; depositario della verità, cloaca di incertezza e di errori; gloria e rifiuto dell'universo. Chi districherà questo groviglio? Che sarà di voi, uomini che cercate con la vostra ragione naturale qual'è la vostra vera condizione? Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei dinnanzi a te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura inferma: sappi che l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo e apprendi dal tuo Signore la tua vera condizione, che tu ignori. Ascolta Dio" (Pensieri, 434). Per ritornare ai nostri giorni, è interessante l'iniziativa editoriale presa dal settimanale Die Zeit nei mesi scorsi. Il periodico ha pubblicato stralci di lettere che nel 1962 due ragazzi del tutto sconosciuti, Ditmar Gottschall e Silke Siegel, ricevettero dopo aver scritto una breve lettera a diversi scrittori, chiedendo loro di aiutarli a scoprire il senso della vita. I due giovani avevano scritto: "Lei incontra una persona per strada e legge nei suoi occhi una grande e tormentosa domanda. Si fermerebbe per darle una risposta, pur avendo poco tempo? Credo fermamente di sì, dal momento che lei è una persona in grado di comunicare i suoi pensieri agli altri. Io sono quella persona che lei incontra per la strada, sono giovane e la mia domanda vive in ciascuno dei miei gesti. Lei pensa che la vita abbia un senso? E se sì, quale senso? So che lei non mancherà di rispondermi. La verità mi appare ancora inarrivabile, ma è un bene e quindi io la cercherò. Vuole aiutarmi un po'?". Le risposte arrivarono alla diciassettenne Silke; questi brevi stralci permettono di comprendere le diverse posizioni di rinomati scrittori. Max Frisch rispondeva: "Si tratta di una domanda che tutti ci poniamo almeno una volta nella vita… Faccia conto che la vita abbia un senso e poi lo cerchi mentre la sta vivendo, oppure osservi le vite delle altre persone e vedrà che molte di esse valgono la pena di essere vissute… Se ne faccia una ragione: nella sua vita continuerà a fare esperienze in cui la domanda si riproporrà, e in cui la vita in se stessa sarà sufficiente e non avrà uno scopo". Allo scetticismo di Frisch, faceva da eco in maniera ancora più cinica Raoul Haussmann, pittore e scrittore avanguardista: "Secondo quanto ho potuto constatare finora, la vita non ha NESSUN senso. Sarà strano e triste, ma bisogna accontentarsi". Con un marcato accento positivista, rispondeva l'autore di Congetture su Jacob, Uwe Johnson: "La vita sulla terra, in merito al suo esistere non ha bisogno di giustificazioni né di pretesti, ma comprende tutto quanto e molto più di quanto possano apprendere su di essa quanti la vivono… Alla fine, non abbiamo bisogno di altro senso se non quello della morte. E fino a quel momento il tempo è a disposizione di ogni persona". Con pacata serietà l'austriaco Gregor von Rezzori, autore di Un ermellino a Cernopol, scriveva: "Se lo sapessi, figliola mia –ma non è così - l'avrei già detto. Ma dal momento che non lo so, mi tornano alla mente tutte le risposte che ho tentato di dare a me stesso al tempo in cui avevo l'età che lei ha adesso. E una di queste risposte dice qualcosa di diverso dalla disposizione in cui si è posta lei. Voglio proporgliela perché deriva da uno stato d'animo più fiducioso: la vita non ha alcun altro senso (e non ha nemmeno bisogno di averne) se non quello di vivere… Non mi chieda un commento: o la risposta le arriva come una verità semplice e ovvia –e allora lei si trova nello stato d'animo giusto per accogliere il mondo per quello che è, ma in questo caso avrebbe trovato la risposta anche da sola, oppure la fa molto tormentare e ciò porterebbe a una rassegnazione che non lascia alcuna speranza". L'orizzonte, comunque, non è sempre così impregnato di cinismo. La capacità ad allargare lo sguardo per andare oltre i soliti gettonati maestri dell'effimero, permette di incontrare molte espressioni, non solo letterarie, che spingono a rientrare in se stessi e porsi con serietà le domande che condizionano l'esistenza. Il problema del senso, d'altronde, non è un'invenzione per dare sollievo ai pochi solitari della speculazione; è un impegno e un obbligo a cui nessuno può sottrarsi, perché ne va della propria vita. È vero, un sano realismo chiede di aprire gli occhi e guardare con attenzione a quanto avviene intorno a noi. È sufficiente camminare per la strada o salire su un qualsiasi vagone della metropolitana e osservare il comportamento del nostro contemporaneo per concludere che, fin dall'abbigliamento, qualcosa di veramente grande è cambiato. Chi dovesse porsi la domanda sul senso, probabilmente, rischierebbe di essere considerato un marziano dai suoi coetanei. Non si è solo modificato il modo di vestirsi, ciò che è cambiato è il modo di pensare e di affrontare i problemi. Il pierceing potrà piacermi o dare fastidio, un tatuaggio potrà attirare l'ammirazione o il disgusto, ma questi sono solo segni che chiedono di essere letti se si vuole approdare a una lettura sul momento culturale che si vive. Inutile nascondere che un generalizzato senso di narcisismo si è accoppiato con una marcata assenza di gusto, generando uno squallore che rende evidente la mancanza di una progettualità capace di coinvolgere soprattutto le giovani generazioni. In questa "era del vuoto", che sembra estendersi oltre misura, non è frutto del pessimismo affermare che intere generazioni si stanno bruciando solo per evitare di chiedere un impegno radicale. Non è lontano il tempo in cui questi stessi giovani si ergeranno a nostri giudici e, rimproverandoci, chiederanno il perché di queste scelte fallimentari nei loro confronti. Sarà difficile in quel momento trovare i veri colpevoli; avranno di nuovo cambiato gli abiti e con rapidità si saranno trasformati in nuovi analisti e opinionisti, sempre pronti a scrollarsi di dosso ogni responsabilità. Cedere a questa voce delle sirene, tuttavia, equivarrebbe per noi ad allontanarsi dalla missione ricevuta. È importante che ci siano sempre sentinelle capaci di vegliare e mantenere viva l'attenzione per il futuro.

 

La risposta di amore
È estremamente difficile parlare del senso e, soprattutto, dire qualcosa di sensato in proposito. Per poterlo fare bisognerebbe entrare nell'intimo e trovare il linguaggio coerente per esprimere quanto in esso vi è depositato. La gabbia che racchiude il linguaggio, tuttavia, impedisce di esprimere tutto ciò che è frutto del pensiero e del sentimento. Il mondo in cui viviamo, inoltre, è già carico di significati; l'uomo, spesso, non pone la domanda sul senso delle cose, la ritrova già in atto e l'acquisisce perché appartiene al contesto culturale in cui è inserito. Ci sono evidenze tali che sfociano in un sentire comune quasi naturale, che impedisce di fornire un senso personale oltre a quello che è patrimonio di tutti. Parlare di senso, tuttavia, equivale a porre una questione che per sua stessa natura ha un carattere universale. Non si può affrontare il problema del senso della vita relegandolo al sentire di una sola persona; questa domanda se ha senso, deve avere senso per tutti. La stessa cosa vale nel momento in cui si affronta la vita. Il senso della vita non può essere frantumato in diversi atti che compongono l'esistenza quotidiana; deve, in primo luogo, toccare tutta la vita e non unicamente un suo singolo atto. Non potremmo in pochi minuti rispondere con soddisfazione alla domanda posta dalla nostra catechesi; la ricerca della verità, d'altronde ha bisogno di un'intera vita e non solo di un momento; ciò che preme tentare, al massimo, è formulare una prima risposta che sappia coniugare l'esigenza della ricerca della verità con il ritrovamento del senso e la possibilità di credere. Sono diversi gli ambiti in cui sorge la questione del senso in riferimento alla verità della propria vita. Troppo spesso essa viene posta sotto la provocazione del dolore e della sofferenza; la domanda sul senso, tuttavia, non dovrebbe nascere in prima istanza dall'incontro con l'assurdo. Certo, ci sono momenti in cui più direttamente si percepisce la contraddizione della vita e l'uomo diventa più sensibile a queste domande, ma il senso dell'esistenza ha una valenza positiva e deve incontrare ognuno primariamente in ciò che viene sperimentato come frutto e fine della propria felicità. Bisogna, quindi, puntare lo sguardo primariamente sui momenti più positivi dell'esistenza per cogliere in essi il significato che possiedono e quel senso globale che sarà in grado di dare risposta anche ai momenti più drammatici che la vita comporta.
È in forza di questa considerazione che desideriamo porre la domanda sul senso dinanzi all'amore. Questo non sarebbe pieno se non portasse con sé la domanda sul senso. Che senso ha, infatti, amare ed essere amato? Per l'uomo di oggi, che spesso confonde l'amore con la passione o che sperimenta i fallimenti di ciò che chiama amore, diventa difficile porsi una simile domanda; eppure, solo nella misura in cui è capace di dare una risposta all'amore, sarà in grado di affrontare la domanda sul senso del dolore e della morte. Contrariamente, la questione del senso sarà sempre sottoposta al ricatto dell'assurdo e non potrà incontrare l'uomo nell'istanza più personale che è quella della vita e non della morte. In questo contesto, merita riprendere tra le mani un testo significativo del Cantico dei Cantici. "Forte come la morte è l'amore" (8,6) è la conclusione a cui arriva l'ignoto autore sacro. Dinanzi al masso granitico della morte, che esprime il non senso della vita, viene a porsi una forza così intima all'uomo, che è in grado di frantumare e disperdere l'assurdo della morte. Questa è certamente il termine ultimo verso cui tutto sembra muoversi nell'esistenza personale; qui l'assurdo trova l'espressione più coerente, soprattutto quando la morte si presenta avvolgendo tra le sue braccia la vita innocente e indifesa. Se, tuttavia, si trova qualcosa che è forte e totale tanto quanto la morte, allora ciò significa che può essere vinta e, quindi, anche distrutta. Qui sorge il volto dell'amore come forma definitiva in grado di dare senso a tutto. Il testo del Cantico dei Cantici è un inno all'amore tra l'uomo e la donna. Esso esprime al meglio la natura dell'amore che proviene dal creato e che trova il suo spazio nella relazionalità interpersonale. Con diverse immagini e simboli, l'autore sacro sembra voler portare il lettore proprio a questo versetto conclusivo del suo libro, che inneggia alla grandezza dell'amore in grado di distruggere la morte stessa. Il contesto immediato dell'espressione non può essere tralasciato: "Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio". La funzione del sigillo, come si sa, è quella di impedire che qualcosa di intimo e riservato possa essere aperto da mani straniere; esso serve ad attestare la piena e integra relazione tra i due amanti. È interessante osservare, in proposito, che le culture antiche –quella mesopotamica in particolare - ritenevano che questo tipo di sigillo accompagnasse nella tomba il defunto a testimonianza di un legame talmente intimo che continuava dopo la morte. Il sigillo, insomma, è tra le cose più care che una persona possiede e da cui difficilmente ci si separa. Il simbolo del sigillo, pertanto, porta ad affermare che l'amore tra l'uomo e la donna possiede il carattere della continuità e della perennità; insomma, è un amore che non si scioglie, esso dura per sempre e vuole andare oltre la morte. Il termine "amore", nel nostro testo, non ha l'articolo; è indice di una sua personificazione. Viene descritto come "forte"; vale a dire, in grado di affrontare la lotta con la morte. L'immagine che ne proviene, mostra l'amore nelle vesti di un guerriero e non di una dolce fanciulla, come l'iconografia è solita rappresentarlo. L'altro guerriero è la morte. Dinanzi a lei chiunque capitola; non sembra esistere potere, intelligenza, furbizia né potenza fisica che le si possa contrapporre in maniera adeguata. L'intenzione dell'autore sacro, tuttavia, sposta lo sguardo altrove. Se è vero che non si può resistere alla morte, è altrettanto vero che non si può resistere all'amore. La letteratura, dai greci ai nostri giorni, fornisce un'immensa produzione del rapporto eros-thanatos; estasi, rapimento, liberazione, sconfitta… sono termini che ritornano costantemente in questo binomio che sembra destinato a vivere e perire insieme. Eppure, la Sacra Scrittura permette di andare al di là di questa semplificazione. Se, infatti, è vero che morte e amore sono legati, è altrettanto vero che sono nemici e rivali e, quindi, in lotta tra di loro. Ciò che viene rivelato, tuttavia, è che la vittoria spetta all'amore e non alla morte. Il cuore del Cantico dei Cantici, che da questa prospettiva prepara l'intero annuncio della teologia di s. Giovanni e s. Paolo, sta tutto qui: la vittoria e il trionfo appartengono all'amore e alla vita che sconfiggono la morte. Insomma, se c'è qualcuno che può vincere il vero, unico e ultimo nemico dell'uomo, questo è l'amore. Il problema del senso ritrova qui un'ulteriore tappa da raggiungere; viene chiesto, infatti, di non puntare sulle proprie sicurezze, ma di affidarsi solo al richiamo dell'amore. Un amore genuino scaturisce dalla fede e porta la fede alla perfezione; se si vuole, è lo stesso cammino percorso da Abramo: lasciare tutto per mettersi su una strada che conduce a un paese di cui non si conosce nulla. In una parola, amore e fede vivono della stessa natura e puntano allo stesso fine; ciò che viene richiesto è l'abbandonarsi per raggiungere più facilmente la certezza che esiste qualcosa e questa non potrà mai essere distrutta né dissolta. Con un'espressione sintetica, il grande vescovo e martire Ignazio ripete lo stesso concetto: "Quando queste due cose sono congiunte in unità, lì c'è Dio" (Ad Eph, 14). L'amore, insomma, deve essere presente fin dall'inizio nella fede e non può divenire una sua appendice per indicare il fondamento dell'amore al prossimo. Senza l'amore, la fede soffocherebbe perché si troverebbe costantemente sotto il ricatto del dubbio, mentre inserita nell'amore vive della sua certezza e della sua verità. L'atto con il quale si crede, dunque, è già mosso dall'amore che muove per ricercare il volto della persona amata; anzi, è provocato a ricercarne le ragioni per cui ama. È in questo legame, pertanto, che interviene l'atto più significativo e impegnativo per l'uomo: credere. La fede, infatti, si pone all'origine dell'amore come la condizione previa in grado di accogliere il mistero che l'amore esprime. Senza la fede, l'amore non potrebbe essere riconosciuto e nessuno potrebbe abbandonarsi nell'altro in un atto che chiede di consegnare pienamente la propria vita. Se qualcuno dovesse trattenere per sé parte della propria vita, l'amore non potrebbe neppure nascere; il sospetto regnerebbe nel rapporto e il dubbio non permetterebbe di costruire una nuova esistenza. Solo la fede sa riconoscere l'amore e solo l'amore si affida alla fede; la reciprocità è condizione di esistenza per l'uno e per l'altro. Non è vero, quindi, che "tutto termina con la morte"; l'amore spinge a uscire da sé, a cercare un senso e a trovarlo; proprio come la donna del Cantico che non si lascia spaventare dall' "inverno" (2, 11) e dalla "notte" (3, 1), ma va incontro alla "primavera" (cfr 2, 12) e in cerca dello "sposo" (3, 4) perché è "malata d'amore" (2, 5). La vittoria della vita sulla morte trova nel mistero pasquale di Cristo l'espressione culminante e la risposta alla domanda di senso raggiunge il culmine oltre il quale non si può andare per avere un'ulteriore certezza. Chi ama veramente, sa che deve perdere la propria singola verità, che deve rinunciare alla sua libertà e, alla fine, poter donare la sua stessa vita; è in questo senso che diventano chiare le parole di Gesù: "Chi ama la sua vita, la perderà e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà" (Mt 10, 39), come pure: "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15, 13). La chiamata a realizzare questo amore vale per chiunque intende dare senso pieno e duraturo alla vita. Si scopre in questa dimensione la novità del cristianesimo e la sua originalità nei confronti delle culture e delle altre religioni. Questa "natura" dell'amore porta con sé una verità talmente universale che si è imposta nelle diverse culture, mostrando il suo vero volto e il fine verso cui tende. Ogni altra espressione impallidisce dinanzi a questa e mostra evidente il suo limite. L'amore che proviene dalla natura, insomma, non può trovare compimento rimanendo in se stesso. Ciò non significa che sia negativo e che debba essere rifiutato solo perché limitato, al contrario. Tutte le diverse forme dell'amore umano esprimono ognuna una via propedeutica che, comunque, deve sfociare nell'amore cristiano; esso permane come ultima e soddisfacente risposta di senso capace di andare oltre il limite della morte. Espressiva, in proposito, una considerazione del filosofo G. Marcel che sembra scritta sulla lunghezza d'onda del Cantico: "Se c'è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall'amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l'amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che lo vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta" (Homo viator, 189). Si potrebbe concludere facilmente sostenendo che quando a una persona si dice: "ti amo", ciò equivale a dirle: "tu non morirai mai". Il sigillo posto tra i due non ha più possibilità di essere rimosso, permane oltre la morte mostrando il vero volto dell'amore. L'apostolo Paolo non si allontana da questa prospettiva quando scrive: "Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8,35-39). Attenzione, però, per l'apostolo, condizione di crescita e di autonomia reale dati dall'amore sono resi possibili nel "dire la verità" e nel viverla reciprocamente nei rapporti interpersonali. Interessante, in proposito una particolarità grammaticale. Paolo usa il participio αληθεύοντες, il termine verità è diventato un verbo per indicare il "dire", il "fare", l' "essere" la verità, ma in relazione con l'amore (cfr Ef 4,14 ss). Insomma, il concetto sotteso potrebbe essere facilmente espresso così: perché la verità possa vivere, deve avere in sé l'amore. La verità, pertanto, non è solo in relazione all'amore, ma è interno all'amore e si esprime come amore. La verità, così come viene percepita, appare sempre frammentaria; essa si concretizza nel frammento che prende corpo nelle singole proposizioni e giudizi, dando vita a una particolare prospettiva. Sappiamo che ognuna di queste ha la sua parte di verità e solo nell'insieme e nella complementarità con altre l'uomo può raggiungere una verità più globale e completa. Nessuna verità colta dall'esperienza, senza nulla togliere al suo peculiare tratto di concreta verità, ha in sé la pretesa di completezza e di assolutezza. Essa è verità solo nella misura in cui si collega con la verità intera e con le caratteristiche che questa possiede. E' in questo spazio che si coglie più facilmente il rapporto con l'amore. Per sua stessa natura, infatti, l'amore può darsi solo nella sua globalità. Non è permesso amare solamente per un po' di tempo o in un determinato contesto; l'amore è per sua stessa definizione "per sempre". Un "sempre" temporale e spaziale che non conosce confini; per questo tutto deve essere permesso perché a questo amore sia concesso di esprimersi in pienezza. Ciò comporta che mentre l'esperienza umana della verità è frammentaria quella dell'amore per sua natura è totale. La verità può essere parcellizzata, l'amore no. In questo modo, la verità nell'amore implica che sia questo a decidere del modo in cui la si deve esprimere. Ci saranno spazi e momenti in cui essa dovrà avere la caratteristiche della pienezza e altri in cui è bene che sia data nei frammenti; sempre, comunque, la verità riposerà nell'amore e sarà chiamata a corrispondere alla natura di questo.
Una verità nell'amore è la vera sfida che si pone dinanzi a questo cambiamento epocale. Essa riveste i tratti di una condivisione e di un'accoglienza che si fanno promotrice di autentico progresso. In questo senso, si deve comprendere la relazione tra i due come il superamento della testardaggine, caratteristica propria di chi vuole avere sempre ragione in forza della pretesa del proprio frammento ad essere verità assoluta. Nell'amore, la verità sa quali sono le verità che meritano di essere accolte e quelle che preannunciano un futuro carico di novità; nell'amore, infatti, la verità vince con la donazione di sé più che con l'acume del ragionamento. Una simile comprensione della verità rende lungimiranti e permette di accedere a una visione della vita e del mondo che si fa carica del mistero. Mistero, in questo contesto, assume un valore particolare. Mai come dinanzi alla verità e all'amore, il termine ha bisogno di essere riproposto nella sua intangibilità. Il mistero cresce tanto più si manifesta. E' questa la logica sottesa al mistero. Non ha avuto ragione chi ha voluto relegarlo nello spazio dell'irrazionalità. Il mistero lo si comprende; la sua verità viene percepita e nell'amore viene accolto. Più la verità si affaccia come mistero e più la persona è posta nella condizione di entrare in esso e di comprendere la propria esistenza e quanto vi è ad essa sottesa. La verità del mistero può essere solo accolta nell'amore; al contrario, rimane solo l'irrazionalità del rifiuto. L'esistenza personale, le relazioni con gli altri, il mondo… tutto ciò che si osserva, si esamina e si giudica, tutto è sottoposto al mistero. Il dilemma corre tra la sua accettazione o il suo rifiuto. Solo la verità, alla fine, permette di avere solidità e fermezza. La vita non presenta solo aspetti positivi; in essa, spesso, quelli negativi sembrano avere la meglio. Porsi dinanzi al mistero, sapendo che è una verità che mi viene fatta conoscere e che nell'amore mi incontra e mi progetta il futuro, permette di fondare la vita sulla solidità della roccia e non sull'effimero della sabbia. Niente come il mistero, d'altronde, consente di avere uno spazio infinito che si apre alla pienezza della verità; chi lo vive ha certezza che la verità sperimentata e vissuta è sempre molto più grande e onnicomprensiva di quanto riesce a balbettare. La verità del mistero non appesantisce né schiaccia l'esistenza, ma le permette quel necessario scatto di reni per avere accesso a Dio, verità prima e per questo ultima, che nell'amore rivela se stesso e il senso del suo amore, origine di ogni verità e paradigma di ogni amore. La verità non è manipolabile a seconda delle proprie simpatie; essa richiede uomini liberi che siano capaci di sostenere scelte responsabili. In questo senso siamo chiamati a verificare la nostra scelta per Gesù Cristo come una libertà che rende liberi. Non una libertà appariscente ed effimera che rende ancora più schiavi, ma una libertà che libera perché immette sempre più verso una ulteriore verità di sé e del mondo in quanto relaziona con la verità stessa rivelata da Dio su di sé e su ognuno di noi. Questa verità non abbaglia, pur essendo evidente; di questo, comunque, tratteremo nella prossima catechesi sulla contemplazione. Come si nota, non è nell'ordine della matematica che si confronta la verità della fede, ma in quella del senso all'esistenza. Per questo motivo, questa verità è sempre data in un chiaroscuro: mentre rende manifesto, nello stesso tempo, provoca ad andare oltre perché il mistero è sempre più profondo. Permane, per ognuno che sinceramente tende verso la verità, lo stato di ricerca che non può essere senza fine. Ritorna con la sua carica di portata esistenziale il cor inquietum di Agostino, che si erge a icona dell'uomo contemporaneo: "Una volta stabilitomi in Italia, mi misi a riflettere dentro di me e ad esaminare seriamente non già se restare in quella setta nella quale mi pentivo di essere capitato, ma in quale modo si dovesse cercare il vero, per il cui amore i miei sospiri a nessuno meglio che a te sono noti. Spesso mi sembrava che fosse impossibile trovarlo e le grandi onde dei miei pensieri mi inducevano a favorire gli accademici. Spesso invece, vedendo, per quanto potevo, la mente umana così vivace, così sagace, così perspicace ritenevo che la verità le rimanesse nascosta soltanto perché non conosceva il modo secondo cui cercarla e che questo stesso modo doveva riceverlo da qualche autorità divina. Restava da cercare quale mai fosse questa autorità, dal momento che, pur tra tanti dissensi, ciascuno prometteva di darla. Dinanzi a me, dunque, si apriva una inestricabile selva in cui appunto mi dispiaceva molto essermi cacciato; e la mia anima si agitava senza alcuna quiete in mezzo a queste cose, spinta dal desiderio di trovare il vero… Se, dunque, scopri che anche tu da tempo ti trovi in questa condizione e provi la stessa sollecitudine per la tua anima, e se ti sembra di essere stato abbastanza sbattuto qua e là e vuoi porre fine a questo genere di fatiche, segui la via dell'insegnamento cattolico, che da Cristo stesso, per mezzo degli apostoli, si è diffusa fino a noi e da qui si estenderà alle generazioni future" ( De utilitate credendi, 8,20)


Per concludere
Siamo giunti alla conclusione di questa breve riflessione, ci rimangono come parole di profonda attualità quelle di R. Guardini che hanno provocato la mia riflessione e, spero, possano essere anche per tutti voi una consequenziale scelta di vita: "Chi parla dica ciò che è, e come lo vede e lo intende. Dunque, che esprima anche con la parola quanto egli reca nel suo intimo. Può essere difficile in alcune circostanze, può provocare fastidi, danni e pericoli; ma la coscienza ci ricorda che la verità obbliga; che essa ha qualcosa di incondizionato, che possiede altezza. Di essi non si dice: Tu la puoi dire quando ti piace, o quando devi raggiungere uno scopo; ma: Tu devi dire, quando parli, la verità; non la devi né ridurre né alterare. Tu la devi dire sempre, semplicemente; anche quando le situazione ti indurrebbe a tacere, o quando puoi sottrarti con disinvoltura a una domanda" (Le virtù, 21) C'è un imperativo, dunque, a cui non si può né si deve sfuggire: attestare che la verità deve riprendere il suo posto nella nostra vita perché possiamo approdare a un'esistenza carica di senso.




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