«Dov'è il re
dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella» (Mt 2,2)
Voglio
trovare un senso a questa sera anche se questa sera un senso non ce l'ha.
Voglio trovare un senso a questa vitaanche se questa vita un senso non ce l'ha.
Voglio trovare un senso a questa storiaanche ...
Francesco Lambiasi, vescovo Assistente generale Azione
Cattolica
Voglio trovare
un senso a questa sera
anche se questa sera un senso non ce l'ha.
Voglio trovare un senso a questa vita
anche se questa vita un senso non ce l'ha.
Voglio trovare un senso a questa storia
anche se questa storia un senso non ce l'ha.
Queste parole – tratte da una canzone di Vasco Rossi – voi le conoscete e,
forse, in parte vi ci riconoscete o perlomeno ci riconoscete il profilo di
qualche vostro amico o amica. Queste parole dicono la nostalgia struggente di
un senso, e quindi di un sapore, di un gusto, di una perfezione assoluta, di un
cielo incontaminato, ma gridano pure l'angoscia disperata di un labirinto
asfissiante e senza uscita. E' questa la vita: una ingiusta, insopportabile
condanna-a-morte? Veniamo dal nulla, viviamo di nulla, costretti a passare i
nostri poveri giorni nella morsa a tenaglia tra una volontà irrinunciabile –
"voglio trovare un senso a questa vita" – e una verità
irraggiungibile – "anche se un senso non ce l'ha"? Siamo torturati da
una sete cocente e nello stesso tempo in preda a un miraggio seducente e
disperante? Siamo pacchi postali spediti dall'ostetricia all'obitorio?
1. Il vicolo cieco del Nulla?
Tragico o
assurdo quanto si vuole, ma è così. O meglio, sarebbe così secondo una delle
posizioni che si possono recensire al riguardo. "In principio era il
Non-Senso e il Non-Senso era presso Dio e il Non-Senso era Dio",
sentenziava il padre del nichilismo, F. Nietzsche. Non c'è alcun fine, non si
va da nessuna parte, non c'è alcun valore, non esiste alcuna verità. Una
parodia tragica del nichilismo nietzscheano è quella dello scrittore Ernest
Hemingway: "O nulla nostro che sei nel nulla, sia nulla il tuo nome, nulla
il regno tuo, e sia nulla la tua volontà, così in nulla come in nulla. Dacci
oggi il nostro nulla quotidiano. Ave, nulla, pieno di nulla, il nulla sia con
te".
Lo stesso filosofo del nulla scattava questa istantanea della nostra
società di inizio Millennio, nel lontano 1888: "Quella che racconto è la
storia dei prossimi due secoli. Tutta la cultura europea si muove già da gran
tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se
si avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa… Alla fine
l'uomo osa una critica di tutti i valori in generale e non crede più in nessun
valore: ecco il pathos, il nuovo brivido… Che significa nichilismo? Che i
valori supremi si svalorizzano… che non ci sia una verità… che a ogni valore
non corrisponda nessuna realtà".
Qualcuno potrebbe pensare che queste cose si trovino in pesanti,
polverosi tomi di biblioteca. E invece continuano ad intossicare l'aria che
respiriamo. Mi limito a qualche esemplificazione.
Il messaggio del più noto romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, si
condensa nelle ultime pagine con due citazioni, una in latino e una in tedesco.
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus: "L'antica rosa (Dio)
esiste come nome, abbiamo soltanto puri nomi". Cioè: abbiamo in mano
soltanto nude parole, suoni vuoti, dietro cui c'è solo il nulla. La verità non
esiste, "non è da nessuna parte". Anche Dio è solo una bella parola,
ma in realtà è un puro nulla: Gott ist ein lautes Nichts. Anche l'altro
romanzo, L'isola del giorno prima, si conclude con il dissolvimento di Dio e
dell'uomo "in questo grande vuoto del vuoto… composto dall'unico grande
nulla, che è la Sostanza del tutto".
Sullo stesso tasto batte José Saramago, il romanziere portoghese Nobel per la
letteratura 1998. La storia è tutta una pazzia, governata com'è da un destino beffardo.
Cos'è la vita? Un'apparizione situata tra il nulla e il nulla: il nulla
dell'anagrafe e il nulla del cimitero. Tutti siamo "niente… diversi nomi
dell'illusione".
La ricaduta di questi segnali? Una società obesa e depressa, ingolfata e
alienata, con un pesante, penoso deficit di speranza. Certo, ci manca la
giustizia, sicuramente ci manca, e molto, l'amore, ma più ancora ci manca un
senso: non-significato del lavoro, non-significato del piacere, non significato
della sessualità. Ai tempi di Freud si parlava di frustrazione sessuale; oggi
si deve parlare piuttosto di frustrazione esistenziale. Soffriamo di un vuoto
abissale: che senso ha la nostra esistenza?
Se c'è un senso, è sopportabile anche il dolore; se non c'è un senso, il lavoro
è inutile, perfino il piacere diventa noioso, e l'angoscia si fa intollerabile.
Smarrita la luce della vita, si scolora il quotidiano. Ecco come A. Camus,
nobel per la letteratura, già una cinquantina d'anni fa descriveva l'uomo
moderno preso negli ingranaggi mortificanti della vita moderna: "Alzarsi,
tram, quattro ore di lavoro, mangiare, tram, quattro ore di lavoro, riposo,
dormire, e lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì con lo stesso ritmo… a un
tratto tutto crolla, l'assurdità e il vuoto di una simile esistenza si rivelano
crudelmente. E allora l'interrogativo fondamentale: ma la vita merita di essere
vissuta?".
Prima di morire I. Montanelli confessava: "Se è per chiudere gli occhi
senza aver saputo di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare qui, tanto
valeva non aprirli. La mia è soltanto una dichiarazione di fallimento"
(Corriere della Sera, 28 febbraio 1996).
Ma se la vita non merita d'essere vissuta, non resta che sprofondare nella
noia, annegare nella droga, sfogare la disperazione nella violenza. Ma allora
ci dobbiamo dire con chiarezza che non è vero che questa "cultura del
nulla" non porti da nessuna parte. In verità porta… all'inferno. Non è una
"bufala". Proprio di "inferno" si parlava in una
lettera-denuncia giunta al quotidiano Avvenire il 23 luglio u.s., a firma di
Marzia Sgrevi, presidente della cooperativa che gestiva la ristorazione al
campeggio di "Arezzo Wave", il festival di musica rock tenutosi dal
12 al 17 luglio scorso. "Ho visto gente "farsi" davanti alla cassa
del bar senza ritegno: tanto al campeggio nessuno ci fa caso, nessuno
controlla. Fare sesso davanti a tutti oppure "farsi" durante l'atto
sessuale per raggiungere il massimo dello sballo. Gente che arrivava al 118
allestita all'interno del campeggio ferita da coltelli. Gli accoltellamenti
erano frequenti, e di solito legati a scontri tra spacciatori. Mille o forse
più gli spacciatori presenti. Quest'anno c'erano pure tanti bambini all'interno
del campeggio: alcuni, figli di tossicodipendenti, li ho visti in crisi di
astinenza".
Sono solo alcuni esiti estremi, questi, della cultura del non-senso? E i tanti
giovani in depressione – in Italia uno su cinque! - a chi li mettiamo a carico?
Non ci dicono niente i miliardi di euro dedicati al gioco d'azzardo che in
Italia sono aumentati di quasi la metà in quattro anni – cifre da manovra
finaziaria?! Non ci dice niente il fatto che in Europa un giovane su quattro,
di età compresa tra i 15 e i 29 anni, muore a causa dell'alcool? che nella sola
Milano nell'ultimo anno 136 giovani hanno tentato il suicidio, ma pare che il
numero si debba moltiplicare almeno per 10? che in Italia i maghi sono numerosi
come i medici: 1/2.900 abitanti? Smarrito il senso, trionfa la banalità, dilaga
la disperazione; negata la verità, si afferma la superstizione; archiviato Dio,
proliferano i demoni: vedi il satanismo.
Ma ora, senza continuare in questa lugubre litania, forse è più opportuno
passare ad una lettura critica della cultura del nulla.
Ci dobbiamo porre, al riguardo, due domande: quella del prima e quella del
dopo.
Cosa c'è prima del mio inizio? Le risposte possibili sono due: o alle mie
spalle c'è un Altro che mi ha pensato e voluto, e allora non vengo dal nulla,
vengo dall'Amore. Oppure alle mie spalle non c'è l'Amore, ma il nulla, ma
allora resta da spiegare come mai io ci sia eppure non l'ho deciso io di
iniziare ad esistere, non ho fatto io la domanda di poter venire al mondo e di
venirci da uomo e non da cavallo, non mi sono fatto da me, a mio piacimento. E
poi se io venissi dal nulla, allora non avrei nulla da sperare, nulla da fare
se non lasciarmi andare alla deriva del nulla. Senonché non è possibile volere
il nulla e vivere di nulla. Di fatto ognuno sceglie un comportamento perché
almeno implicitamente si pone un certo fine. Se invece tutto fosse uguale a
zero, se nulla facesse la differenza tra l'onestà e la delinquenza, tra la
bontà e la cattiveria, tra la tenerezza e la crudeltà, allora tutto sarebbe
uguale al contrario di tutto: il bene sarebbe uguale al male, e alla fine i
carnefici avrebbero l'ultima parola sulle vittime innocenti, Hitler sarebbe
uguale a Massimiliano Kolbe, e Gandhi potrebbe andare a braccetto con Benladen.
In realtà la volontà del nulla deriva da un amore deluso: da un amore assoluto
dell'essere, deluso dall'insufficienza di ciò che appare. Insomma ciò che si
vuole veramente è che ci sia qualcosa di consistente, che ci sia l'Amore. Anche
il suicida che sceglie di non essere più e quindi decide di uccidere la sua
volontà di essere, sceglie di agire per l'unico bene che gli appare in quel
momento: quello di far cessare il suo male e quindi paradossalmente grida la
sua volontà più profonda, assetata di un Essere vero.
Legato a questo problema del "prima", è il problema del
"dopo": se vengo da un Altro che mi ha pensato e voluto e quindi mi
ha amato, non posso andare verso il nulla. Che Amore sarebbe infatti quello che
mi avrebbe posto in essere solo per farmi andare verso la distruzione totale
del mio essere? Non è crudele e contraddittorio affermare che il Mistero
d'amore che è all'origine della mia storia mi abbia messo in cammino solo per
farmi cadere nell'abisso del nulla?
"Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo -
confessava Montanelli - La nostra vita, il mondo, il creato, l'esistente devono
pure avere un perché che la mia mente e la mia ragione non riescono a
spiegarmi. Ed è là dove mente e ragione finiscono – e finiscono purtroppo
presto – che per me comincia il grande mistero di Dio".
Ora, il grande mistero di Dio è un mistero d'amore, che ha il volto e il nome
di Padre-Abbà: questo ci ha rivelato Gesù. Ma se Dio è Abbà-Papà, allora sono
al mondo su chiamata di Dio, allora c'è un disegno di amore previdente e
provvidente sulla mia vita. Posso pensare che esista qualcosa di più giusto e
utile per me dell'accettare di realizzare quel piano che è stato tracciato
appositamente per me? Colui che fa funzionare l'universo non sarà in grado di
far andare bene anche la mia vita? Quel Padre che nutre gli uccelli del cielo e
veste i gigli del campo, e che in una notte nera su una pietra nera vede una
formica nera e se ne prende cura, non si prenderà cura di me?
Questa è la bella notizia (il vangelo) di Gesù: siamo amati prima di ogni
nostro bisogno d'amore; siamo attesi, oltre ogni nostro desiderio di attesa;
siamo accolti, prima ancora di ogni nostro sogno di ospitalità.
2. La via infinita, senza meta?
C'è un altro
modo per affrontare (o non affrontare!) il problema della verità e del senso
della vita: quello di ritenere che non esista una verità, ma che la verità
abbia tanti volti e tante espressioni quanti sono gli uomini che ne parlano.
Viviamo in un tempo in cui nulla è fisso, nulla è certo, tutto è sfuggente,
mobile, inafferrabile. Siamo, dice Bauman, in una "società liquida",
nomadi sperduti in una società individualizzata, soli e spauriti nel grande
mercato globale, abitato da sei miliardi di solitari.
Viviamo nella cultura del frammento: non esiste più il progetto, la
storia. Il tempo si frantuma in una miriade di istanti e di eventi che fluiscono
senza ordine, senza direzione. Come lo zapping davanti alla TV, come le
scorribande dei navigatori su internet, la vita si è fatta un guazzabuglio di
immagini in cui si riflette la fantasmagoria della società contemporanea,
febbricitante di stimoli e di esperienze.
Il grande pericolo oggi è quello di teorizzare "la ricerca come fine
a se stessa, senza speranza né possibilità di raggiungere la meta della
verità" (Giovanni Paolo II, Fides et Ratio 46).
Ma occorre decidersi una buona volta per tutte. Non si può cercare
all'infinito; non si può rimanere alla finestra a guardare. Bisogna fare come
Zaccheo e scendere dall'albero… In una breve poesia E. Montale confessava:
"Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro / per vedere il Signore se mai
passi. Ahimè non sono un rampicante e anche restando / in punta di piedi, non
l'ho mai visto" (Diario, 1971). La posizione scelta da Montale è assai
diffusa fra persone che si dichiarano intellettualmente oneste e moralmente
esigenti. Si sceglie di stare in perpetua ricerca. Oggi la ricerca della verità
viene da alcuni elevata a valore supremo, al di sopra della stessa verità.
"Se Dio – aveva scritto l'illuminista G.E. Lessing – tenesse stretta nella
sua destra tutta la verità e nella sua sinistra soltanto l'aspirazione sempre
viva della verità, fosse anche a condizione di dovermi sempre, eternamente
sbagliare e mi dicesse: 'Scegli!', umilmente mi prostrerei verso la sua
sinistra dicendo: 'Questa, Padre! La pura verità appartiene senz'altro a
te'".
E' una posizione soggettivamente sincera, ma oggettivamente ambigua: con
il pretesto di non voler essere mai "sicuri di sé", questa posizione
nasconde un orgoglio sottile: finché si è alla ricerca della verità, il
protagonista è il ricercatore, non la verità. La "veracità", cioè la
sincerità della ricerca, l'onestà con se stessi, prende, in questo caso, il
posto della verità. La Scrittura ci parla già di alcuni i quali sono
"sempre in ricerca, ma senza mai giungere al riconoscimento della
verità" (cfr 2Tm 3,7). E' un tentativo sottile di condurre il gioco, di
tenere in scacco Cristo. Di questo passo infatti l'uomo può passare la vita
intera a fare ricerche su Cristo, senza mai farsi incontrare personalmente da
lui.
Finché restiamo "in punta di piedi", in perpetua ricerca, o
chiusi nella stanza degli specchi delle interpretazioni, o dondolanti sul ramo
di un albero, riusciremo al più a soddisfare una curiosità, ma non a fare
l'esperienza dell'incontro che salva. I magi invece non si sono accontentati di
contemplare la stella; hanno lasciato casa e patria e sono andati alla ricerca
del neonato "re dei Giudei".
3. La via della
stella
Ciò che colpisce
nel racconto dei Magi è un particolare tutt'altro che secondario: appena hanno
intravisto la stella, subito si sono messi in cammino: "Abbiamo visto
sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo". Vedere e partire: i
Magi non si sono messi a calcolare rischi e pericoli, non si sono fatti
prendere dalla nostalgia dell'ambiente che stavano per lasciare, hanno
affrontato rinunce e disagi e così, solo così, hanno potuto trovare il re dei
Giudei.
Questa capacità di distaccarsi dall'ambiente di tutti i giorni, di prendere le
distanze dai luoghi comuni, di liberarsi dalla schiavitù degli idoli più
seducenti mi pare una premessa indispensabile per trovare la verità che salva
la nostra vita dal non-senso.
Vorrei accennare qui ad alcuni idoli dominanti nella cultura occidentale.
Il primo è l'idolo del piacere. "Se vuoi essere felice, cerca di godere
finché puoi, più che puoi". La cultura edonistica celebra i suoi trionfi
soprattutto nel campo della sessualità, dove l'unico criterio sembra essere
l'esaltazione del libero godimento, in nome dell'autonomia da ogni
"repressione". Di fatto non si può misconoscere il mare di sofferenze
che derivano dalla disgregazione della famiglia, dai sentimenti calpestati, dai
coniugi abbandonati, dai figli contesi o lasciati soli, dalla dignità della
persona umana umiliata, dall'abbrutimento della pornografia, dall'abominio
della pedofilia e della prostituzione infantile.
Il secondo idolo è quello dell'immagine; la sua ideologia si potrebbe formulare
così: "Se sei bravo, avrai successo; se avrai successo, sarai
felice". Viviamo, si dice, in una società "meritocratica", ma è
proprio vero? E' proprio vero che arriva al successo chi è davvero bravo,
competente e capace? E' questo che avviene, ad esempio, nel mondo dello sport o
dello spettacolo, o invece per "sfondare", occorrono bustarelle,
spinte, sgambetti? Non dico che avvenga sempre così, che cioè il successo sia sempre
comprato; ma se non è sempre così, allora non si può considerare un dogma
quella che è solo una (rara) possibilità, e cioè che se sei bravo, puoi
arrivare al successo, ma non è detto che ci riesca. E comunque è ancora meno
vero che se si raggiunge il successo, si ottiene la felicità. E' proprio sicuro
che le persone più felici si trovano nel settore dei V.I.P.?
Il terzo idolo è quello della libertà. Ma qui bisogna spiegarsi. La libertà, di
per sé, è un grande dono di Dio, e il fatto che la società occidentale si sia
costruita sul principio del rispetto della persona e dei diritti umani è una
grande conquista positiva, indiscutibile e irrinunciabile. Ma tale principio
"impazzito" può portare all'individualismo eretto a idolatria
("io mi faccio i cavoli miei"), anche perché sganciato da ogni
esigenza di solidarietà e responsabilità. Una libertà selvaggia, "legge a
se stessa", porta inevitabilmente a soggiacere all'istinto, al capriccio,
e quindi a smarrire ogni logica del bene comune, ogni doveroso rispetto dei
diritti altrui, ogni generosa apertura ai bisogni dei più poveri e dei più
deboli.
Occorre una cambiamento di rotta;
mettersi in cammino al seguito della stella di Cristo Gesù. Come hanno fatto i
magi. Come fece Francesco d'Assisi. Immaginiamo di incontrare il figlio di
Pietro di Bernardone in una delle tante feste da lui organizzate: è un giovane
che scoppia di vita e di sogni. E ha anche i mezzi per realizzarli. Ricco,
intelligente, simpatico, alquanto esibizionista, con una voglia matta di stare sempre
al centro dell'attenzione, sembra il tipo del "giovane lupo" che
addenta la vita con avidità. Il suo avvenire è senza problemi: soldi, belle
compagnie, notti folli e "casinare": cosa gli manca? Ecco come lo
ricorderanno tre dei suoi primi compagni: "Non era spendaccione soltanto
in pranzi o in divertimenti, ma passava ogni limite anche nel vestirsi. Si
faceva confezionare abiti più sontuosi di quanto non convenisse alla sua
condizione sociale, e nella smania dell'anticonformismo, arrivava a far cucire
insieme nello stesso vestito stoffe preziose e toppe di panno grezzo"
(Legenda dei tre compagni, I,2). C'è però una cosa che Francesco cerca e non
trova: la felicità. Di questo passo non la troverà mai, perché scambia la gioia
con il piacere ( "a me mi piace"), la libertà con la voglia ("a
me mi va"), la verità con l'opinione ("a me mi pare").
Francesco non è nato santo: lo è diventato. Le fonti francescane ricostruiscono
in modo dettagliato e convergente il processo della sua conversione: dopo varie
delusioni e sconfitte, il giovane Francesco viene toccato dalla grazia di Dio e
vi si arrende, disarmato e disponibile. Finora non ha vissuto una vita
dissoluta; ha semplicemente immaginato di poter servire Dio e gli idoli del suo
tempo: la gloria militare, il piacere di festini e corteggi, il sogno di essere
il primo, sempre e in tutto. Ora si ritrova distrutto, ma dopo varie
esperienze, finalmente – leggiamo nella stessa Legenda – Francesco "smise
di adorare se stesso".
Questa è la conversione più radicale: è la rinuncia al padre di tutti gli
idoli, il nostro Io, per far posto a Dio; è "allontanarsi dagli idoli per
servire al Dio vivo e vero" (cfr 1Ts 1,9b).
Storia di altri tempi? Leggiamo allora una pagina ancora in corso, quella
di Alessandra Borghese, vaticanista di Panorama. Ripensando alla confessione
che ha dato una "svolta" alla sua giovane vita e le ha fatto guardare
a Dio Con occhi nuovi – è il titolo del suo libro - racconta: "Avevo
scoperto con una gioia che non riesco neanche pienamente a descrivere, che Dio
era lì per me, per accogliermi e offrirmi il suo aiuto. Provai un sollievo
enorme, mi sentii come rinata".
Cari giovani, vi auguro in questi giorni di poter vedere o rivedere la stella
del vangelo. Riprendete la via che essa vi indica. Lasciate le strade, comode
ma fuorvianti, degli idoli correnti: il successo a tutti i costi, la bella
figura sempre e comunque, il piacere a prezzi stracciati. "Aprite, anzi
spalancate le porte a Cristo!", ha ripetuto papa Benedetto, ricordando il
grande e indimenticabile Giovanni Paolo II. Oggi, anch'io vi ripeto: "Non
abbiate paura di Cristo!". Lui non è venuto per togliervi la vita, per
spegnere la vostra voglia di felicità, per espropriarvi della vostra libertà.
Beati voi se crederete al suo amore e gli direte sì.
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