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Autori vari Catechesi proposta dai vescovi ai giovani italiani riuniti a Colonia IntraText CT - Lettura del testo |
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Costruire con Dio la storia del mondo Mario Russotto, vescovo di Caltanissetta «Per
un'altra strada fecero ritorno al loro paese» (Mt 2,12)
Proprio come Maria, primo tabernacolo della storia. Ella, dopo la forte e profonda esperienza di contemplazione e adorazione vissuta nel mistero dell'Annunciazione, si mette in viaggio per celebrare l'amore nell'arte del servizio all'anziana cugina Elisabetta. E' questa l'altra nuova strada che i Magi ci invitano a percorrere. Maria, infatti, comprende che la dichiarazione «Ecco la serva del Signore» deve trovare la sua incarnazione nella concretezza e nella immediatezza del servizio a chi è nel bisogno. L'intervento di Dio nella sua vita non la isola dagli altri, ma la consegna alla solidarietà nel dono di sé. Maria ci mostra che non c'è soluzione di continuità fra contemplazione e azione, fra fede e carità, fra apertura a Dio e servizio ai fratelli. La carità verso chi è nel bisogno scaturisce perciò dall'adorazione, da una profonda e personale esperienza contemplativa dell'amore di Dio. Così scrive il Papa Giovanni Paolo II nella "Novo millennio ineunte": «(La preghiera) è il segreto di un cristianesimo veramente vitale, che non ha motivo di temere il futuro, perché continuamente torna alle sorgenti e in esse si rigenera… Una preghiera intensa, che tuttavia non distoglie dall'impegno nella storia: aprendo il cuore all'amore di Dio, lo apre anche all'amore dei fratelli, e rende capaci di costruire la storia secondo il disegno di Dio» (NMI, nn. 32-33). Nella preghiera adorante scopriamo di essere destinatari di una parola che Dio ci rivolge e alla quale noi dobbiamo rispondere, perché la nostra libertà si deve a quella Parola fondante che ci ha segnati come cristiani, a quella Parola cruciale della storia e del mondo che è Cristo. In ogni vera esperienza di preghiera si genera una qualche inversione di noi stessi, l'alterazione si fa sottrazione. Nella preghiera, infatti, qualche cosa ci ferisce, perdiamo in un certo senso la nostra libertà, consegnata alla volontà di Dio. Ci scopriamo conquistati, segnati da qualche cosa che non avevamo previsto nelle sue estreme conseguenze, ci troviamo avviati su un cammino imprevedibile che ci trasforma, liberandoci da noi stessi e consegnandoci nell'amore al servizio degli altri.
E l'amore di Gesù arriva fino al vertice della follia, creando scandalo nei suoi discepoli. L'Eucaristia è la follia dell'amore di Cristo che si dona facendosi schiavo d'amore per ogni uomo. Un midrash su Es 21,2 recita: «Voi non dovrete mai chiedere al vostro schiavo di lavarvi i piedi, perché questo è un gesto di umiliazione estrema e non lo si dovrà mai chiedere a nessuno». Nel romanzo "Giuseppe e Asenat", composto alla fine del I sec. d.C., la donna, affascinata dal suo uomo, vuole dargli una prova d'amore e gli lava i piedi come segno massimo della consacrazione al marito, dicendo: «I tuoi piedi sono i miei piedi. Nessun altro, perciò, potrà lavare i tuoi piedi, li potrò lavare soltanto io; per questo mi consacro a te lavandoteli». E' il gesto della dedizione totale! Nell'Eucaristia Gesù si "consacra" a noi inginocchiandosi con passione d'amore ai nostri piedi. Ma prima, in quella cena eucaristia, Gesù si alzò da tavola, depose la veste e si inginocchiò a lavare i piedi dei suoi… anche quelli di Pietro il rinnegatore e di Giuda il traditore. Gesù si alzò: finché l'amore rimane "seduto", chiuso in noi stessi, prigioniero della nostra pigrizia e della nostra paura, rimane un bel sentimento che tutt'al più ci tormenta il cuore. L'amore ha bisogno di libertà, ha bisogno di esprimersi, deve uscire dal nostro cuore per trasformarsi in azione e comunicarsi con chi ci è prossimo. La veste era il segno esterno della dignità sociale di una persona: Gesù si toglie la veste, spogliandosi di ogni dignità e resta con l'abito degli schiavi: la tunica. In questo modo Gesù testimonia il suo amore per noi abbassandosi nella piccolezza, nella debolezza, nella schiavitù. Un abbassamento che comincia con l'incarnazione; viene testimoniata in modo visibile per i discepoli con la lavanda dei piedi; si concluderà sulla Croce col dono della propria vita. Gesù, con la forza dirompente di un umile gesto, riassume tutto il suo messaggio ed esprime la logica rivoluzionaria del suo Regno, dove il potere è servizio amorevole e dove in cima alla piramide non ci stanno i potenti ma gli ultimi, i poveri, i diseredati, i deboli. In quanto siamo amati da Dio e nell'Eucaristia facciamo esperienza del suo amore gratuito per noi, possiamo diventare capaci di metterci gli uni verso gli altri in atteggiamento semplice, amorevole e disponibile al servizio. Scrisse Charles de Foucauld nel suo diario: «Quando fui certo che Dio esiste, non potei fare altro che vivere per Lui!».
Dopo aver immesso nell'uomo il suo alito di vita, «il Signore Dio piantò un giardino in Eden a oriente e vi collocò l'uomo che aveva plasmato» (Gen 2,8). Il Giardino è un dono del Signore; l'uomo non l'ha chiesto e se l'è trovato. Noi siamo totalmente nelle mani di Dio. E la vita all'uomo chiede saggezza e umiltà di cuore per essere capita e degnamente vissuta. La saggezza e l'umiltà di cuore consistono nel guardare alla vita come un dono ricevuto e da amare, perché «amando la fatica della vita, voi ne capite il segreto più profondo!» (Kahlil Gibran). Il progetto di Dio sull'umanità nel giardino della storia è ben sintetizzato in due verbi di Gen 2,15: «Il Signore prese Adam e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse». Coltivare in ebraico si dice abad, che letteralmente significa "servire". L'uomo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. Abad indica il servizio alla terra: servendo-lavorando la terra, l'uomo serve Dio che gli ha donato il giardino. Abad significa anche "servire nel tempio", cioè celebrare il culto: ecco il passaggio dalla terra al tempio, dal creato al Creatore. Ogni uomo è chiamato a lavorare la sua parte di giardino: è questo il suo servizio, la sua liturgia. Celebrando questa liturgia nel giardino della storia, l'uomo vive il suo impegno nel mondo come preghiera, come ascensione del creato e di sé al Creatore. Custodire in ebraico si dice samar, che letteralmente vuol dire "vigilare, osservare": è il verbo usato per chi fa da sentinella e per chi mette in pratica i comandamenti di Dio. L'uomo viene creato non solo per servire il giardino, ma per esserne la sentinella, per custodirlo. Miei cari Giovani, noi viviamo nel creato la responsabilità della custodia e della vigilanza come fedeltà alla vita, alla vocazione che ci viene dal nostro essere immagine e somiglianza di Dio. E quando noi custodiamo, vigiliamo e facciamo da sentinella nei confronti del mondo, osserviamo già i comandamenti di Dio. E' illuminante a tal proposito il consiglio dello starec Zosima ad Alioscia Karamazov: «Fratelli miei, amate tutta la creazione, nel suo insieme e nei suoi elementi, ogni foglia, ogni raggio, gli animali, le piante. Amando ogni cosa capirete il mistero divino nelle cose e, una volta capito, lo conoscerete ogni giorno di più. Finirete per amare il mondo intero con un amore universale».
In questa fractio gaudii, nello spezzare e condividere il pane della gioia, si accende in noi un chiarore; può anche essere flebile, ma già illumina le nostre oscurità. Se anche ci sono momenti in cui la fiducia si attenua, la gioia della speranza ci aiuta a vivere la promessa di Cristo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Facciamo nostra la preghiera dell'orante ebreo: «Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine. Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore. Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia» (Sal 119,33-35). Ha scritto il Papa Giovanni Paolo II nel suo messaggio per questa GMG: «Ascoltare Cristo e adorarlo porta a fare scelte coraggiose, a prendere decisioni a volte eroiche. Gesù è esigente perché vuole la nostra autentica felicità». Giovani, noi cristiani abbiamo la vocazione alla gioia, che sgorga dentro di noi in forza della Parola e dell'Eucaristia. In quella gioia è la nostra reciprocità comunionale, la nostra vera amicizia, il godere la vita che è dono immenso di Dio. Viviamo la gioia! Perché la gioia è un fatto di vita, è questione di senso che riguarda l'essere e il vivere. La gioia tocca la vita! Si è nella gioia e si può esperire la gioia solo se si è "vivi"; se si gusta, si cerca e si scopre con stupore il senso della vita, la meta verso cui la freccia della nostra fragile preziosa esistenza è orientata. Bisognerebbe far nostra la bella "confessione" di Sant'Agostino: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace» (Confessioni, X, 23). Se noi non siamo testimoni della gioia, allora l'umanità sarà inondata dalla tristezza! E allora «Come un pescatore di perle, o anima mia, affonda in profondità! ...senza stancarti, persisti e persisti ancora, affonda in profondità, sempre più in profondità e cerca! Coloro che non sanno il segreto ti derideranno ma tu non scoraggiarti, o pescatore di perle, o anima mia!» (S. Paramananda).
In una conversazione tenuta a Pechino il 28 dicembre 1942 Pierre Teilhard de Chardin diceva che la felicità è possibile se l'uomo cerca con forza e ostinata salita di essere se stesso, di aprirsi agli altri e di lasciarsi attirare da Dio, coniugando nella sua vita creatività, amore e adorazione. Immaginiamo, allora, un gruppo di escursionisti partiti alla conquista di una vetta difficile, e guardiamoli alcune ore dopo la partenza. • Alcuni
rimpiangono di aver lasciato l'albergo. Le fatiche e i pericoli sembrano loro
troppo sproporzionati rispetto all'eventuale successo. E decidono di tornare
indietro. Questi tre gruppi potrebbero rappresentare l'umanità, nella quale troviamo gli stanchi, i gaudenti, i coraggiosi. Tre tipologie di cui ognuno di noi porta il germe dentro di sé, e tra le quali, in realtà, si spartisce da sempre l'umanità. • Per gli
stanchi l'esistenza è un errore o uno scacco. Siamo male imbarcati, si tratta
dunque di lasciare il gioco, perché è meglio "essere meno" che
"essere più", anzi sarebbe meglio non essere per nulla.
Da voi la Chiesa deve poter cogliere quotidianamente l'arte e il gusto della ricerca; il coraggio di porre domande e interrogativi che non aspettano risposte già confezionate; l'entusiasmo e la fatica del pensare; la voglia di capire, di appropriarsi di significati che nel filtro della coscienza possano trovare sintesi, unità, forza incisiva e propositiva di percorsi inediti. Perché voi Giovani siete - e dovete sempre più essere - portatori di una fede fresca, non sempre "continua" ma mai scontata; una gioia che è dono e conquista, allegrezza e goliardia, superamento di percorsi difficili, vittoria su se stessi, bagliore dell'intelligenza e intuizione di fede. E affido alle parole del messaggio di Giovanni Paolo II la conclusione di questa nostra catechesi: «Maria, "donna eucaristica" e Madre della Sapienza, sostenga i vostri passi, illumini le vostre scelte, vi insegni ad amare ciò che è vero, buono e bello. Vi porti tutti a suo Figlio, il solo che può soddisfare le attese più intime dell'intelligenza e del cuore dell'uomo» (Giovanni Paolo II).
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