I poveri per
amici
Vincenzo
Paglia, vescovo di Terni
Cari amici,
il Vangelo narra
che i Magi, subito dopo aver adorato Gesù, furono avvertiti in sogno di non
passare più per Gerusalemme e di tornare al loro paese per un'altra strada. Il
motivo era grave: Erode voleva uccidere Gesù. E loro non potevano essere
complici della ferocia di quest'uomo che, pur di conservare il potere, fece
uccidere tutti i bambini della regione dai due anni in giù. Scrive
l'evangelista Matteo: "Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per
un'altra strada fecero ritorno al loro paese"(Mt 2, 12). Sì, l'incontro
con Gesù suscita visioni nuove, sogni nuovi. Ecco perché dopo l'incontro con
lui si percorrono strade diverse. A volte si tratta di strade e di impegni
davvero altri rispetto a quelli che si avevano prima; e comunque anche se si
percorrono le stesse strade è diverso il modo di percorrerle perché si hanno
occhi nuovi. Sì, dopo l'incontro con Gesù nessuno è più come prima, nessuno si
comporta più come prima. È questo il senso del "tornare per un'altra
strada", come il Vangelo dice dei magi, i quali dopo essere stati davanti
al Bambino non tornarono indietro "felici e contenti" come se
avessero partecipato ad una bella favola. Essi furono avvertiti di tornare al
loro paese per un'altra strada. Ma l'avvertimento non riguardava la loro
tranquillità; a Gerusalemme infatti sarebbero stati accolti con tutte le
attenzioni. Il loro compito era di salvare il Bambino dalla ferocia di Erode.
"Tornare per un'altra strada" significa quindi salvare i piccoli
dalla violenza di Erode. Sì, i magi ci esortano a incamminarci verso le
mangiatoie moderne dove gli uomini hanno cacciato i piccoli e i deboli. I magi
furono per quel Bambino ciò che il buon samaritano fu per l'uomo mezzo morto
della parabola evangelica. E noi dobbiamo seguire i magi per questa strada, ed
essi possono ripeterci le parole che Gesù disse a quel dottore della legge:
"Va, e anche tu fa lo stesso".
La disumanità della guerra
Il Bambino di Betlemme raccoglie in sé tutti i poveri e di deboli
schiacciati dalla violenza degli Erode di turno: sono gli anziani soli, i
malati abbandonati, i carcerati, i bambini violentati, i profughi, i condannati
a morte, i malati di AIDS, gli affamati, i senza casa, gli immigrati, e la
lista potrebbe continuare a lungo. E tanti sono coloro che passano oltre, come
fecero quel sacerdote e quel levita della parabola. Non possiamo ora descrivere
la drammatica situazione in cui il mondo si trova, ma un cenno almeno dobbiamo
farlo per evitare di essere come quel sacerdote e quel levita che passarono
oltre. Come possiamo non pensare all'alto numero di guerre che ancora sono
aperte nel mondo? E la guerra rende poveri tutti, anche i ricchi: davvero è la
madre di tutte le povertà e la scuola di tutte le disumanità. Nel decennio tra
il 1990 e il 2000 le guerre hanno provocato cinque milioni di morti e sei
milioni di feriti. E dei cinque milioni di morti, due erano bambini. Altro che
Erode! È una triste realtà che continua a avvelenare la vita di tanti popoli
sino a renderli disumani. Oggi si calcolano ben 28 guerre aperte e 14
congelate.
Con l'aiuto di armi terribili, tanti possono fare la guerra o servirsi della
violenza. E' una caratteristica del nostro tempo: gruppi, etnie, mafie, singoli
associati… tanti possono fare la guerra, divenuta ormai uno strumento normale
per risolvere le controversie. E si fa troppo poco per bloccarle e per
scongiurarne altre. Questo, cari amici, manifesta quanto sia basso il livello
di umanità. E sappiamo che la violenza genera sempre violenza sino a che non
diventa una stabile compagna della vita sociale. Eppure oggi c'è chi teorizza
che il mondo deve essere così: la guerra – sostengono costoro - è un'inevitabile
compagna della vita umana. E per essi il problema non è la pace, ma come
difendersi o, magari, come attaccare preventivamente. Si cambia anche il nome e
si parla di guerra preventiva e persino umanitaria, come se ci potesse essere
umanità nel distruggere e nell'ammazzarsi. Proprio nel cuore degli anni Novanta
– è noto a tutti - si è affermata la teoria dello scontro di civiltà e di
religione. Si ritiene che lo scontro tra le civiltà sia inevitabile. In verità
i conflitti del nostro mondo sono più complicati che quelli tra civiltà o
religioni: spesso sono all'interno della stessa civiltà. E le semplificazioni
sono comode per chi non vuol pensare, per chi vuol vedere nemici al di là delle
frontiere: utili a chi coltiva la violenza. E si accusa di ingenuità chi parla
di umanesimo, di dialogo, di amore, di amicizia, di pace.
La globalizzazione non ha creato un mondo cosmopolita in cui le differenze sono
annullate, anzi ha fatto riemergere le identità nazionali, etniche, religiose,
le quali spesso si contrappongono ad altre. Ed ecco nascere il fondamentalismo,
un fenomeno tipico del ristrutturarsi delle identità nella globalizzazione. La
rinascita delle identità forti ha portato a nuovi razzismi, a nuovi etnicismi e
nazionalismi. E tuttavia gli uomini della globalizzazione si assomigliano
sempre più. Nonostante i nostri conflitti, le nostre inimicizie secolari, ogni
giorno che passa riduce sempre più le nostre differenze e accresce un po’ di
più le affinità tra i diversi continenti. Un manifesto tedesco qualche tempo fa
ironizzava: "Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua
pizza è italiana. La tua democrazia è greca. Il tuo caffè è brasiliano. La tua
vacanza è turca. I tuoi numeri sono arabi. Il tuo alfabeto è latino. Solo il
tuo vicino è straniero…". La globalizzazione certamente annulla tante
differenze, ma rafforza anche il senso dello straniero e del nemico. E la
teoria del conflitto di civiltà finisce per giustificare i conflitti e per
accettare la guerra. E la maggioranza si rassegna ad un mondo che vive in un
conflitto permanente.
Si è aggiunto poi il drammatico fenomeno del terrorismo e della violenza di
ogni tipo. Il ricorso alla violenza e al terrorismo è divenuto un modo abituale
per far valere i propri diritti o far sentire la propria esistenza. Con l'11
settembre 2001 e i successivi attentati, tutti siamo minacciati dal
"cancro" del terrorismo internazionale, un fenomeno che si fonda sul
disprezzo della vita dell'uomo e che si presenta come una rete organizzata di connivenze
politiche, economiche e finanziarie che travalica i confini nazionali e si
allarga al mondo intero. Tutti sperimentiamo con intensità nuova la
consapevolezza della vulnerabilità personale e guardiamo al futuro con un senso
di forte incertezza e paura. E' ovvio che il terrorismo deve essere stroncato,
con decisione e alla radice. Ma non bastano le armi. C'è bisogno di una nuova
visione del mondo, di una nuova volontà di pace, di un impegno a non pensare
solo ai propri destini nazionali, sapendo che il destino personale di ciascuno
è ormai legato a quello dell'intero pianeta. Ecco perché alla disumanità della
guerra e del conflitto – l'antico Erode ha trovato molti eredi! – i cristiani
debbono rispondere con un altro linguaggio, quello della pace.
Il Vangelo della pace
Sì, la nostra risposta ai conflitti e alle guerre sta nel proclamare e nel
vivere il Vangelo della pace. Alla comunità cristiana infatti è stata data
un'eredità di pace; gliel'ha data il Signore Gesù che disse ai suoi discepoli:
"Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a
voi" (Gv 14, 27). E' il Vangelo della pace, quel Vangelo che spesso viene
umiliato dagli stessi discepoli quando soccombono alla paura, o quando si
lasciano sorprendere dalla violenza o dai disegni di guerra o dalle sapienze
strategiche di questo mondo. La pace di cui parla il Vangelo è certamente
assenza di guerra, assenza di violenza e di sopraffazione; ma è molto di più: è
Gesù stesso. Egli è la nostra pace, come scrive l'apostolo Paolo agli efesini:
"Egli infatti è la nostra pace" (2, 14). La pace, per i cristiani,
non è anzitutto una scelta politica, è una dimensione personale, del proprio
cuore, della propria vita, delle proprie relazioni con gli altri. E' la pace
con Dio, prima di tutto, che viene a noi dalla sua compagnia. È la pace che
Cristo risorto dona ai suoi discepoli in un tempo di paura, all'inizio del loro
cammino nella storia. Per questo dono, il cristiano è, nel profondo del suo
essere, un uomo pacifico. Se non lo è, si allontana dallo stesso Vangelo. E,
come uomo pacificato, diviene necessariamente pacificatore.
Violenza e Vangelo non si incontrano tra di loro. Infatti, il Signore è mite e
umile di cuore; non odia chi lo perseguita, anzi chiama amico chi congiura
contro di lui e lo tradisce. Gesù non accetta di essere difeso con la spada in
un momento in cui la difesa sarebbe stata legittima. Rimprovera i discepoli che
gli portano due spade dicendo con forza: "basta!" Il cristiano è
chiamato ad essere un uomo pacifico, indipendentemente dai tempi in cui vive.
Le beatitudini indicano la via della felicità e della serenità anche in
situazioni difficili, di povertà, di guerra, d'ingiustizia, di persecuzione.
Tra i molteplici esempi vi è quello del vescovo Oscar Romero: a tutti, ai violenti
di ogni parte, chiedeva la cessazione della lotta armata per percorrere la via
del dialogo e della giustizia. La resistenza alla violenza, alla guerra,
all'odio, si radicano nel profondo della stessa identità del cristiano: ossia
nella imitazione del Signore pacifico, mite e umile di cuore. Per questo i
discepoli di Gesù sono operatori e comunicatori di pace. Noi cristiani siamo
chiamati ad essere uomini di pace per irradiarla nel mondo.
Il cristiano non deve usare un linguaggio violento, non deve considerare gli
altri come nemici, non deve lasciarsi andare a odi e vendette, magari sotto il
finto nome della giustizia. La custodia della pace è decisiva all'inizio di
questo nuovo secolo. Tutto, infatti, sembra concorrere a lasciarsi travolgere
dalle passioni, dagli etnicismi, dai nazionalismi, dai bellicismi, sprecando
miseramente e tragicamente il grande dono della pace. Giovanni di Kronstadt, un
santo prete russo morto all'inizio del Novecento, diceva: "Acquisisci la
pace e la riceveranno migliaia attorno a te". Aveva ragione: la pace va
acquisita e custodita. Sappiamo bene, infatti, che essere cristiani non
immunizza dall'intossicazione delle passioni del mondo. Molto spesso si è
prigionieri della paura e di ragionamenti egocentrici che mettono all'ultimo
posto la testimonianza di pace. Dovremmo chiederci tutti: quanto i cristiani
sono educati a considerare la pace come qualcosa di sostanziale per la loro
vita, come qualcosa di imprescindibile nel loro comportamento, come qualcosa a
cui non possono rinunciare?
Il Vangelo della pace non è la moda di un momento. Deve radicarsi nel cuore di
ogni discepolo e nei fondamenti della stessa comunità cristiana. La Chiesa è un
luogo di pace. E le comunità cristiane dovrebbero costituire uno spazio di aria
pulita, non inquinata, non intossicata dall'odio; dovrebbero essere l'ossigeno
della pace in un contesto troppo inquinato dal bellicismo o dalla violenza. In
ogni situazione i cristiani sono chiamati a custodire nei loro cuori, nella
loro vita, nelle loro comunità, la pace. Tutti debbono testimoniare che niente
è più grande della pace, e niente è peggiore della follia della guerra e della
violenza. Il Vangelo custodisce il segreto della pace, e ogni volta che viene
comunicato, un cuore si apre alle ragioni della pace. Insomma, per un cristiano
mai la guerra è inevitabile e sempre la pace è possibile. Cari amici, questo è
un punto decisivo. All'inizio di questo XXI secolo la testimonianza dei
cristiani sulla pace è di grandissima importanza. Noi cristiani siamo chiamati
ad essere pacifici e a vivere da pacificatori. E se non lo facciamo noi chi lo
farà? Essere pacificatori vuol dire anzitutto avere un senso generoso della
propria vita. In un mondo ove tutto si calcola e dove l'amore gratuito può
apparire inutile, essere uomini e donne di pace vuol dire vivere con passione e
con generosità la vita di ogni giorno, logorando quel senso di
contrapposizione, di odio, di rancore, che è nei meccanismi della vita sociale
comune. Il cristiano, uomo pacifico, è generoso con tutti e particolarmente con
i poveri perché quest'ultimi non hanno niente da dare in cambio.
Le terre della disperazione
I
poveri. Non è tanto di moda parlare dei poveri oggi. Eppure "l'altra
strada" che i magi ci invitano a percorrere è proprio quelle che li
incontra. Sappiamo tutti ormai quanto sia grande il dramma della povertà nel
mondo. Per noi cristiani dovrebbe essere uno scandalo insopportabile. È una
bestemmia contro la paternità di Dio e contro la dignità dei suoi figli. La
povertà, come la guerra, è l'espressione chiara della disumanità del nostro
mondo. Gandhi diceva che "la povertà è la peggiore violenza fatta ai
poveri". E se la povertà è uno scandalo, oggi lo è in maniera direi
imperdonabile. Nella storia umana infatti non ci sono mai stati tanti poveri
come oggi; eppure mai il mondo è stato così ricco come oggi e i popoli così
vicini come ora! E' una situazione insostenibile. L'allargarsi delle
disuguaglianze economiche e sociali, sia all'interno dei singoli stati che tra
aree del mondo, dovrebbe preoccupare se non per ragioni morali almeno per
egoismo collettivo. Sta crescendo sempre più un'area di emarginazione e di
esclusione dalla vita che diventa tragica e pericolosissima per l'equilibro
della convivenza umana e per la stessa pace del mondo. Il mondo si sta
riempiendo di esclusi. I poveri non sono più semplicemente gli sfruttati, sono
gli esclusi: sono di troppo e quindi possono (o forse debbono) essere
dimenticati. Non servono neanche più ad essere sfruttati e quindi ad entrare,
almeno in tal senso, nella vita, come talora avveniva in passato.
Si potrebbe dire che si è creato un popolo di poveri che traversa tutti i
continenti: non si è globalizzato solo il mercato ma anche la povertà. E'
inutile sottolineare che tale situazione diviene forzosamente un esteso
focolaio di conflitti, oltre che bacino di potenziali terroristi. "Un
miliardo di persone che vive in assoluta povertà, accanto a un miliardo che
gode di un crescente splendore su un pianeta che diventa sempre più piccolo e
sempre più integrato, rappresenta uno scenario non
sostenibile"(International Herald Tribune, 2 febbraio 1999). Ed è inutile
alzare barriere per isolarsi; è inutile bloccare il drammatico fenomeno delle
migrazioni. L'isolazionismo, anche dei forti, non protegge più: nessuno può
salvarsi dai problemi del mondo costruendo muri dietro cui nascondersi.
Stabilità e pace, o sono globali o non saranno per nessuno.
E si sta creando come una nuova civiltà, una sorta di nuovo "impero"
a cui tutti, compresa la politica, debbono soggiacere. E' l'impero del mercato
che rischia di trasformare ogni cosa in merce e in competitività. L'uomo e la
donna sono condannati a vivere solo per avere e per consumare, per cui si
stanno creando i consumatori, da una parte, ossia quelli che hanno la
possibilità di acquistare e di consumare, e tutti gli "altri",
dall'altra, ossia i poveri, coloro che continuano ad essere oppressi e
sfruttati, e soprattutto esclusi dalla società senza possibilità di
integrazione. Si formano, infatti, sia a Nord che a Sud zone di ricchezza e
zone di esclusione, una sorta di apartheid mondiale tra ricchi e poveri che
traversa tutte le società. Non sto qui a recitare il rosario delle cifre. Basti
dire che il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo dei paesi del Terzo
Mondo, redatto nel 1990, si apriva con questi numeri: "Più di un miliardo
di uomini, ancora oggi, vivono nella povertà assoluta; quasi 900 milioni di
adulti sono analfabeti; circa 1 miliardo e 75 milioni di persone non hanno
acqua potabile; quasi 100 milioni sono senza riparo; 800 milioni sono alla
fame; 150 milioni di bambini sotto i cinque anni sono denutriti e ogni anno ne
muoiono 14 milioni". Questi dati confermano quelli già rilevati nel 1985
dal rapporto della Banca Mondiale. Da essi risultava che i poveri nei paesi in
via di sviluppo erano un miliardo e 115 milioni (la soglia di povertà era
calcolata nella somma di 370 dollari l'anno), di cui 630 milioni (il 18% del
totale della popolazione mondiale) in povertà estrema. Ma anche nei paesi del
Nord ricco le cifre relative al numero dei poveri non sono meno preoccupanti.
I poveri, comunque, non diventano tali per caso, o per un cieco e amaro
destino. Se il 20% della popolazione mondiale, quasi totalmente residente nel
Nord ricco del mondo, detiene l'80% delle risorse del pianeta, com'è possibile
un reale equilibrio? E come se questo non bastasse, si registra, ormai da anni,
la tendenza costante al divaricarsi della forbice tra paesi ricchi e paesi
poveri. Dati dell'ONU mostrano che dal 1960 al 1991 la distanza tra i paesi
ricchi e i paesi poveri è cresciuta e continua a crescere. Se poi si mettono a
confronto la crescita economica e quella demografica nel pianeta si registra
che la prima avviene unicamente nei paesi ricchi e la seconda unicamente nei paesi
poveri. Ne emerge una disuguaglianza che diviene forzosamente un esteso
focolaio di conflitti regionali quando non di più larga estensione.
Il "sacramento del povero"
Per i cristiani, un mondo così è inaccettabile. E noi siamo chiamati a
percorrere presto un'altra strada convincendo tanti a percorrerla. Il Vangelo
ce la indica perentoriamente. E la indica a noi discepoli di Gesù come anche a
chi discepolo non è. Se leggiamo il brano evangelico di Matteo al capitolo 25
vediamo che il giudizio di Cristo, anche su chi non crede, si poggia su questa
semplice affermazione: "Avevo fame e mi hai dato da mangiare". Per
tutti, per i credenti come per i non credenti, la salvezza si gioca sull'amore
per i poveri. È la stessa Eucarestia, ossia il "sacramento dell'altare"
che ci spinge verso il "sacramento del fratello", ossia i poveri. Sì,
dopo esserci inginocchiati davanti all'Eucarestia dobbiamo chinarci anche
davanti ai poveri. Ce lo ricorda con parole chiare san Giovanni Crisostomo:
"Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo.
Non onorare il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del
tempio trascuri quest'altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità.
Colui che ha detto: 'Questo è il mio corpo', è il medesimo che ha detto: 'Voi
mi avete visto affamato e non mi avete nutrito' e 'Quello che avete fatto al
più piccolo dei miei fratelli l'avete fatto a me'…A che serve che la tavola
eucaristica sia sovraccarica di calici d'oro, quando lui muore di fame?
Comincia a saziare l'affamato e poi, con quello che resterà, potrai onorare
anche l'altare". Benedetto XVI, in un piccolo libretto che scrisse nel
lontano 1958, notava che non è a caso che Gesù usi il termine
"fratello" solamente per indicare due "categorie" di persone:
i discepoli e i poveri.
Nella identificazione Gesù-discepoli-poveri si fonda quel rapporto inscindibile
tra il Signore, la Chiesa e i poveri; un rapporto che mai nessuno potrà
incrinare e che faceva dire al beato Giovanni XXIII: "La Chiesa è di tutti
e particolarmente dei poveri". I poveri, cari amici, sono nel cuore del
mistero stesso della Chiesa. Il cardinale Congar scriveva: "I poveri sono
cosa della Chiesa. Non sono soltanto la sua clientela o beneficiari delle sue
sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i
poveri... La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli
oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo
inteso come comunione. Non può più esistere comunità cristiana senza
'diaconia', cioè servizio di carità, che a sua volta non può esistere senza
celebrazione dell'Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità,
Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L'esperienza dimostra che esse
vivono o languono insieme; ma spesso fanno difetto l'immaginazione che rende
inventiva la carità, e l'audacia, il coraggio per superare ogni esitazione e
prendere l'iniziativa".
L'identificazione di Gesù con i poveri è una di quelle dimensioni sorprendenti
del Vangelo. E si tratta di un legame che è ben più profondo di qualsiasi altro
legame sociale, umanitario o politico. Il pensiero sociale e la politica
passano, ma il legame tra Gesù e i poveri non passa. Nella lunga storia della
Chiesa, il Vangelo e l'amore per i poveri sono stati sempre legati, anzi hanno
dato luogo a un genio cristiano della carità lungo i secoli. C'è una permanente
vicinanza della Chiesa ai poveri, in forme diverse a seconda dei tempi, ma con
una continuità sorprendente. Si potrebbe dire che i poveri e la Chiesa "o
si reggono assieme o assieme cadono". Ogni volta che la Chiesa ha voluto
riprendere la forma del Vangelo, sempre ha riscoperto l'amore per i poveri.
Pensiamo al tempo di san Francesco, quando la Chiesa aveva come smarrito la
forza evangelica. Ebbene Francesco di Assisi, assieme al Vangelo riscoprì
l'amore e la vicinanza per i poveri. L'episodio del lebbroso è emblematico. I
lebbrosi erano allontanati dalla città perché ritenuti pericolosi per la salute
pubblica. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a loro, figuriamoci di
abbracciarli. Francesco, quel giorno, dopo aver ascoltato il Vangelo, al vedere
un lebbroso, scese da cavallo e lo baciò. Non fu un gesto facile. Dovette
superare la forza dell'istinto naturale che lo allontanava da quel lebbroso. Ma
Francesco "sognò" l'amore e, come i magi, percorse un'altra strada:
quella dell'incontro. Scese da cavallo e abbracciò il lebbroso. Raccontando
questo episodio, Francesco disse: "Da quel momento quel che mi pareva
amaro mi parve dolce". Quell'abbraccio gli aveva cambiato il gusto della
vita. È questo l'uomo nuovo che nasce dall'incontro con Gesù. Potremmo dire che
la Messa e quel lebbroso avevano creato un nuovo Francesco. E uomini così
cambiano la storia, quella loro, quella dei poveri e quella del mondo.
Purtroppo, oggi non è più tanto di moda parlare dei poveri. Non lo è certamente
sul piano politico. Ovunque si nota una spinta ad una sorta di divorzio dai
poveri. E questo avviene ovunque, nel Nord ricco e nel Sud povero; vi è come
una spinta politica ed esistenziale a dimenticarli e spesso ad allontanarli
anche dalla vista. Ma, e questo dovrebbe preoccuparci ancor più, anche nella
Chiesa si corre il rischio di non comprendere il senso e il valore dei poveri.
Che posto hanno i poveri nella cosiddetta programmazione pastorale delle nostre
parrocchie, delle nostre diocesi? Spesso sono assenti. Eppure Gesù ha detto:
"Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l'avete fatto a me"(Mt 25,40). Il Vangelo offre il giusto
sguardo da avere con i poveri, non uno sguardo sociologico o politico o
assistenziale, ma religioso. E avere uno sguardo religioso verso i poveri
significa vedere in loro il volto stesso di Gesù. Cari amici, la vita del
discepolo come non può svolgersi lontana dall'Eucarestia così non può svolgersi
lontano dai poveri; infatti saremo giudicati sulla vicinanza a loro: "ero
malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi"(Mt
25,36). Questa parola evangelica chiede ad ogni discepolo, anzi ad ogni uomo di
buona volontà, un rapporto personale con il povero. E avere un rapporto
personale significa che ci si accosta ai poveri certo per portare aiuto, ma
anzitutto per portare a lui l'amicizia.
Talora si negano ai poveri sia l'amicizia che il Vangelo. Non dobbiamo
dimenticare che l'amore per i poveri è il segno dato da Gesù per manifestare la
sua venuta del regno. Quando i discepoli del Battista chiesero a Gesù se lui
fosse o no il Messia, Gesù rispose: "Andate e riferite a Giovanni ciò che
voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i
lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti resuscitano, ai
poveri è predicata la buona novella…"(Mt 11,5). La vicinanza ai poveri è
la prova della venuta di Dio sulla terra. Ma lo crediamo? Spesso ci affanniamo
a trovare strategie pastorali, a elaborare piani pastorali, e magari
tralasciamo quei segni che Gesù stesso ha indicato essere il suo sacramento. E
Gesù li ha indicati non solo con le parole ma con la sua stessa vita: ha
infatti preso su di sé i problemi dei deboli e dei poveri, dei malati e dei
disperati. È bella l'immagine evangelica che descrive quella sera a Cafarnao
quando portarono a Gesù gli indemoniati ed i malati. È una scena che dovrebbe
interrogare molto di più le nostre Diocesi e le nostre parrocchie oltre che
ciascuno di noi personalmente. Le nostre chiese sono come quella casa di
Cafarnao?
Gesù ci chiede di rivivere quella scena evangelica. E ci ha dato lo stesso
potere che diede ai discepoli, quello di scacciare gli spiriti immondi e di
guarire ogni malattia e infermità. Ecco perché la via dei cristiani deve essere
intessuta di comunicazione del Vangelo e di amore per i poveri. I poveri sono
soli e abbandonati? Ebbene, la comunità di Gesù diventa la loro famiglia
adottiva. I poveri vanno trattati come familiari, come parenti. Dio stesso ce
ne da un esempio, direbbe Gregorio Magno. Infatti Dio conosce i poveri per
nome, come si vede dalla parabola del ricco epulone: "Perché dunque -
si chiede Gregorio - il Signore narrando di un povero e di un ricco, dice
il nome del primo e tace quello dell'altro, se non per dimostrare che Dio
conosce gli umili ed è vicino a loro, mentre non riconosce i superbi?" E
ribadisce: "i poveri hanno bisogno della parola e non solo di aiuto: date
col pane la vostra parola... II povero dunque, quando sbaglia, va ammonito, non
disprezzato, e se in lui non riscontriamo difetto alcuno, deve essere
venerato". Sì, c'è bisogno di parole e di amicizia. E così il povero lo
sentiremo nostro familiare. E la parentela porta sempre ad assumersi aspetti
concreti di solidarietà e di aiuto, come si farebbe appunto con un amico caro o
con un familiare che si trova in necessità. E dare una mano ad un amico o ad un
parente vuol dire non renderlo un cliente. È invece normale, anche nelle
Caritas, parlare dei poveri come di "utenti". No, cari amici, i
poveri sono fratelli, non utenti. Ecco perché è bello pensare al cristiano come
a colui che ha un povero per amico. Sì, essere cristiano vuol dire avere anche
un povero per amico.
I poveri per amici
La nostra attenzione di cristiani difende i poveri in quegli ambienti e in
quelle strade da cui li si vorrebbe scacciare. Talvolta si vogliono città linde
e senza poveri o dove i deboli sono nascosti. E questo accade ormai sempre più
spesso. Non accada a noi di comportarci come i politici! Anche perché è facile
allontanarli persino dalle chiese, magari con la scusa che si vuole aiutarli
con più razionalità. Ricordiamo che, al Nord e al Sud, spesso le chiese sono
l'unico riferimento per i poveri; gli unici ambienti aperti nelle città dove
tutte le porte si chiudono; gli unici luoghi accoglienti nelle società dove
manca di tutto. Negli ambienti cristiani è doveroso incontrare i poveri.
Giovanni Crisostomo ricorda come i palazzi del potere siano frequentati solo da
personaggi ragguardevoli, mentre "nelle vere regge, parlo della chiesa e
dei santuari dei martiri, si trovano gli indemoniati, i mutilati, i poveri, i
vecchi, i ciechi, gli storpi.". Per questo, nella vita della Chiesa, gli
ambienti dei poveri sono stati sempre vicini a quelli della preghiera. Paolino
di Nola, un ricco romano convertito dalla cultura classica alla Bibbia, monaco
tra il III e il IV secolo e poi vescovo nel Sud Italia, aveva costruito il suo
monastero al secondo piano dopo aver messo i poveri al primo piano, per
significare che i poveri sono alla base della comunità. Paolino loda un
senatore romano, Pammacchio, che aveva introdotto i poveri nella basilica di
San Pietro per un grande pranzo in loro onore: "Tu radunasti nella
basilica dell'apostolo una moltitudine di poveri, i patroni delle anime nostre,
che per tutta la città di Roma chiedono l'elemosina per vivere". Quando
era parroco a santa Maria in Trastevere, riprendendo questa antica tradizione,
una volta all'anno, feci un grande pranzo per i poveri. Oggi è divenuta una
bella tradizione che si è diffusa in tante altre parti. Quel giorno i poveri
sono nel cuore della Chiesa e della festa del Natale.
I poveri per amici: diventando amici di Dio, ci si ritrova amici dei poveri. E
mentre quelli che aiutano i poveri credono di essere angeli per chi soffre, si
trovano a vivere una vita riempita dai bisognosi, veri angeli di senso e di
affetto. Ho visto anziani che riempiono la vita di persone che si sentivano
svuotate, proprio quando cominciano ad aiutarli. Si comincia con il dare, ma si
continua ricevendo. Una vita, lontano dai poveri, non è garanzia di felicità:
una vita negata alla compassione non è garanzia di serenità. Ed anche
nell'educazione dei più giovani, la conoscenza dei poveri e l'esperienza di
essere con loro è una via di crescita. Non c'è contraddizione tra una vera
spiritualità, tra l'ascolto di Dio, e l'amore per i poveri. Senza l'ascolto
della Parola di Dio, l'amore si raffredda o diventa un'ideologia. Quanti slanci
di volontariato anche nella Chiesa si sono spenti o si sono perduti nei gorghi
dell'istituzione! È la storia di uno slancio sociale che, nel recente passato,
è stato forte tra i cristiani, ma che si è come impigrito, istituzionalizzato,
politicizzato, burocratizzato. Al povero si è sostituito l'idolo di un'idea, di
un metodo, di una teoria.
L'amore per i poveri è il banco di prova della sensibilità evangelica delle
nostre Chiese e della sua forza umanizzatrice. Dio ha disposto che i credenti
siano una grande riserva d'amore per i poveri del mondo. Certo i poveri non
sono attraenti, anzi normalmente imbarazzano. E spesso accade che, come il
levita o il sacerdote, anche noi allunghiamo il passo quando vediamo un povero
per evitalo. Ma Gregorio Magno ammoniva così i romani: "Ogni giorno
troviamo Lazzaro se lo cerchiamo e, anche senza cercarlo, ogni giorno ci
imbattiamo in lui. I poveri si presentano a noi, anche importunandoci,
chiedono, ma potranno intercedere per noi nell'ultimo giorno... Non sciupate
dunque il tempo della misericordia e non disprezzate i rimedi che vi
offrono". La carità verso i poveri è un tempo di misericordia, è un tempo
salvato. La carità infatti salva i poveri perché li aiuta, ma salva anche noi.
Sì, mentre i poveri sono sostenuti da noi, essi ci sostengono e ci
evangelizzano. In che senso? Anzitutto ci ricordano la nostra debolezza.
L'anziano, ad esempio, con la debolezza del suo corpo, ci ricorda la nostra
fragilità, che in genere cerchiamo di nascondere sotto il benessere del corpo o
il ben vestire. I poveri ci parlano della vanità di quell'orgoglio aggressivo
che è invece una nostra naturale difesa di fronte alla durezza della vita e
all'anonimato. Sì, i poveri ci ricordano che siamo deboli e fragili, ci
ricordano che davanti a Dio dobbiamo essere come loro: mendicanti, mendicanti
di amore e di salvezza.
Cari amici, c'è bisogno urgente di ridare vigore nelle nostre comunità
cristiane all'amore per i poveri. È il Vangelo a chiedercelo. Sì, il Vangelo si
fa difensore dei poveri presso noi stessi, contro la nostra avarizia e
pigrizia. Il Vangelo afferma il primato del cuore e non dell'interesse per sé.
E non c'è solidarietà durevole e fedele senza spiritualità, senza fede vissuta,
senza amore evangelico. Se non ci si nutre dell'Eucarestia anche l'amore per i
poveri langue. Il sacramento dell'altare non è mai separato dal sacramento del
fratello
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