Tornare da
Colonia «trasfigurati»
Adriano
Caprioli, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla
Siamo all'ultima
delle catechesi in preparazione all'evento centrale della Giornata mondiale
della Gioventù 2005: l'incontro con il Santo Padre nella Veglia e con il
Signore Gesù nel Mistero della sua Eucaristia.
Poi, come i Magi, ritorneremo ciascuno ai nostri paesi. Non siamo venuti qui
per restare, ma per ritornare. Ritornare diversi, da come eravamo partiti.
Ritornare trasfigurati.
"È bello per noi stare qui" (Lc 9,28), ebbero a dire alcuni discepoli
a Gesù dopo la trasfigurazione sul monte. Ma Gesù, per tutta risposta, trascinò
giù i suoi amici dal monte, dove c'era tutta una folla in attesa del loro
ritorno.
Vi faccio tre
domande:
- che cosa vuol dire per me e per voi ritornare dopo una esperienza come
quella della GMG?
- come ritornare, trasfigurati e diversi da come eravate partiti dalle
vostre case, parrocchie, gruppi giovanili?
- su quali altre strade ritornare a casa e quali scelte coraggiose
possono o devono ormai accompagnare questo ritorno?
VIVERE NEL MONDO
Sono stato nel mese di luglio in visita alla mia missione diocesana in
Madagascar, dove operano non solo miei preti diocesani e suore, ma anche
diversi volontari laici a sostegno di progetti sanitari, artigianali e
agricoli.
In un incontro con i giovani di quel paese, uno di loro mi ha fatto questa
domanda: "So che in agosto andrai alla GMG a Colonia. Come sono i giovani
dell'Italia e dell'Europa? È vero che avete tante belle chiese, ma pochi
giovani che le frequentano e tanta indifferenza?".
Mi piacerebbe
sentire la vostra risposta. Io ho dato loro questa mia risposta. Anche tra i
giovani - dicevo a proposito dei cristiani per fede in Cristo - è
più facile trovare oggi chi è più sensibile a messaggi che parlano di mistero,
di silenzio, di dimensione gratuita e orante della vita.
Le Giornate mondiali della Gioventù ci hanno restituito qualche speranza:
abbiamo visto moltissimi giovani attirati da Gesù e dal suo Vangelo.
È quello che una indagine tra gli adolescenti e i giovani di Roma, intitolata
Il volto giovane della ricerca di Dio, ha messo in luce. Un significativo
interesse per la persona di Gesù sembra attirare anche oggi il mondo dei
giovani, in particolare delle ragazze.
E, tuttavia,
anche questo ritorno di interesse per Gesù e il Vangelo sembra dissolversi e
svanire se non è accompagnato da un esplicito e vitale riferimento alla fede e
alla vita della comunità cristiana.
Alla fine di
maggio, ho avuto anch'io la gioia di incontrare il nuovo Papa Benedetto XVI,
durante l'assemblea dei Vescovi italiani. E ho ascoltato queste sue parole:
"Ad agosto, come sapete, mi recherò a Colonia per la GMG e confido di
incontrarmi di nuovo con molti di voi, accompagnati da un grande numero di
giovani italiani...
Essi sono, come ha ripetutamente affermato Giovanni Paolo II, la speranza della
Chiesa, ma sono anche, nel mondo d'oggi, particolarmente esposti al pericolo di
essere sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina
(cf. Efes 4,14).
Hanno dunque bisogno di essere aiutati a crescere e a maturare nella fede: è
questo il primo servizio che essi devono ricevere dalla Chiesa, specialmente da
noi Vescovi e dai nostri sacerdoti…" (Intervento alla CEI del 30 maggio
2005).
COME VERI ADORATORI DI DIO
Cosa vuol dire "crescere e maturare nella fede"? Una volta ho
assistito, in occasione di un viaggio in treno, alla conversazione tra due
amici che non si ritrovavano da tanti anni. Le domande d'obbligo erano
ovviamente la salute, il lavoro, la moglie, i figli… fino alla domanda fatta da
uno all'altro, forse sollecitato da qualche curiosità: "Ma allora, tu
credi in Dio?" – "Se credo in Dio? No, no, per grazia di Dio, non
credo!".
Capita spesso di ascoltare nelle conversazioni abituali che si parli di fede.
Ma come se ne parla? Conviene chiarire alcuni luoghi comuni sul modo di
intendere la fede.
1. La fede non è una questione facoltativa
L'opinione più diffusa, quando non è ostile, pensa all'atto di fede come a
qualcosa di facoltativo. Si dice: "Io non ho la fede", pressappoco
come si dice: "Io non ho gli occhi azzurri" e "Io sono basso di
statura".
Tutto sommato avere la fede è visto come una condizione fortuita, una sorta di
colpo di fortuna che capita a qualcuno nella vita.
"Beato te che hai la fede", si dice. Anche quando sembra di avvertire
una specie di nostalgia e di rimpianto, perché il credere è ritenuto un valore
e una fortuna, l'atteggiamento mentale non cambia.
È come se uno dicesse: "Io purtroppo non ho la fede", pressappoco
come quando uno dice: "Purtroppo sono stonato" e "Purtroppo non
riesco in matematica", quasi supponendo che l'assenza della fede sia
qualcosa che non dipenda da noi.
La fede è un
dono, ma è anche un compito, anzi una necessità per la salvezza. Basterebbe
ricordare la finale del Vangelo di Marco: "Chi crederà e sarà battezzato
sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato" (Mc 16,16).
Appare chiaro che credere non è facoltativo, se all'atto di fede è legata la
propria salvezza definitiva.
Ambrogio Fogar,
l'esploratore condannato all'immobilità dal 1992, a seguito di un incidente che
gli lesionò il midollo spinale, così racconta: "All'inizio volevo morire.
Poi, piano piano, ho ritrovato la fede, che non avevo mai perso ma che
trascuravo. Da quando sono su questo letto e ho tanto tempo per pensare, ho riscoperto
il senso della preghiera e, credo, anche quello della vita non più legata al
successo o ad altri schemi umani…"
E, ricordando un naufragio vissuto nel 1978 in compagnia di un amico Mauro
Mancini, racconta: "Passammo 74 giorni su una zattera, noi due soli in
balia del mare, praticamente senza viveri. Fummo raccolti per caso da una nave
e Mauro, due giorni dopo, morì per una polmonite. Durante quei giorni Mancini,
che era agnostico, mi invitava a parlare di Dio. Lui che non sapeva neppure il
Padre nostro e l'Ave Maria, pregava inventando preghiere bellissime, ogni
giorno diverse. Non avevamo più paura, ma soltanto speranza" (L.
ACCATTOLI, Cento preghiere italiane di fine millennio).
2. La fede non è una alternativa alla ragione
Tra i vari luoghi comuni sul modo di intendere la fede c'è anche quello di
chi ritiene la fede una alternativa alla ragione.
Si sente spesso dire: "Io ragiono da laico" contrapposto a: "Tu
credi da cattolico".
Chi ragiona non avrebbe perciò bisogno di credere, e chi crede uscirebbe per
ciò stesso dall'ambito della ragione.
Confesso che mi sento a disagio tutte le volte che trovo nei giornali questa
contrapposizione laici-cattolici. Cerco di spiegare il perché.
Chi è il laico
secondo il comune modo di pensare? Il laico è colui che si affida alla ragione.
È un uomo che in forza della ragione cerca continuamente, è curioso di tutto,
non si preclude alcun spazio alla propria esplorazione intellettuale. E per il
fatto di affrontare razionalmente la propria avventura umana, il laico è colui
che non può accettare nessuna forma di fanatismo e di intolleranza.
Se così, anch'io
mi sento laico. Laico e cattolico insieme. Perché so con assoluta certezza che
la mia fede non mortifica la mia ragione. Il mio Dio mi dice: "Non
stancarti mai di pensare, anche quando pensare è fatica. Anzi, cerca di pensare
con coraggio, senza accettare luoghi comuni o idee prefabbricate. Cerca di
esplorare fin dove puoi arrivare, come gli altri, e, se ti fosse possibile, più
degli altri. E là dove non puoi arrivare, perché il mistero è impenetrabile,
affidati alla fede".
La fede non è
perciò una conoscenza mortificata, ma è una conoscenza dilatata: è un di più di
conoscenza, perché attinge alla conoscenza divina. Diventa lo sguardo sulla
realtà che informa la ragione, aprendola a tutte le sue potenzialità.
Sicché per me l'alternativa al credere non è il ragionare, ma piuttosto il
rassegnarsi al "così pensano tutti", e talvolta all'irrazionale e
all'assurdo.
Non è un caso che, là dove la fede svanisce, non è che non si creda più a
niente. Al contrario si finisce per credere un po' a tutto.
E così si crede agli oroscopi, alla cartomanzia, alla pubblicità più
improbabile. E purtroppo si arriva anche ad affidarsi alle ideologie più
aberranti e disumane, come quelle che hanno caratterizzato le diverse tragedie
del secolo Ventesimo, fino ad arrivare a idolatrare lo Stato.
Cari giovani,
lasciamoci guidare dall'indimenticabile Giovanni Paolo II. Riascoltiamo le sue
parole: "Siate adoratori dell'unico vero Dio, riconoscendogli il primo
posto nella vostra esistenza! L'idolatria è la tentazione costante
dell'uomo".
Sì, oggi il pericolo per la fede non è l'ateismo, ma l'idolatria.
"Rifiutate le seduzioni del denaro, del consumismo, e della subdola violenza
che esercitano talora i mass media".
Sì, l'idolo, qualunque nome assuma - denaro, potere, sesso - è un
dio facile, a portata di mano, remissivo e prodigo di favori, ma non è il Dio
di Gesù Cristo.
"E
prostratisi, lo adorarono", racconta il vangelo di Matteo. Non pare invece
che i Magi si siano inginocchiati davanti ad Erode: né prima, ne dopo!
Mi viene alla mente il verso di un nostro grande poeta, GIOVANNI
PASCOLI, in cui si parla di ginocchia rosse "per quel nostro pregar sul
pavimento". A me pare che oggi le ginocchia di molti siano rosse per il
troppo… strisciare sul pavimento.
3. La fede è un'esperienza da far crescere
Ma anche tra i credenti, o coloro che si considerano tali, circolano idee
non molto chiare sulla fede.
Spesso ci si accontenta di accogliere la fede con rispetto, ma senza indagare
troppo sulla natura della fede, la sua incidenza sulla propria vita, le sue
prerogative, i problemi che essa suscita.
Ma così facendo, ci si espone anche al rischio di approdare a concezioni errate
o insufficienti.
Perché si crede? C'è chi crede, perché il credere "fa bene". Al
Cristianesimo si chiede di star bene, di sentirsi gratificati e consolati.
"Pregare - si sente dire - mi fa sentire più rilassato!":
dire che un'esperienza è rilassante sembra oggi l'apprezzamento migliore,
Ma questa è una fede appiattita sul presente, senza più un vero futuro, senza
una vera speranza. Nemici della fede non sono solo quelli che vogliono togliere
il Crocifisso dalle aule, ma le voci di una cultura che ci addormenta e ci
appiattisce sull'immediato.
Rileggo alcune
pagine roventi di E. MOUNIER, il fondatore del personalismo cristiano, che
scrive: "In verità io non amo quelli per i quali tutto va bene, e che
stimano questo mondo il migliore dei mondi. Li chiamo soddisfatti. La
soddisfazione che gusta tutto, ma non è il gusto migliore. Onoro invece le
lingue e gli stomachi recalcitranti e difficili, che hanno imparato a dire 'Sì'
e 'No'" (L'avventura cristiana).
Non è che oggi manchi la fede. Il mondo è pieno di tante piccole fedi. Manca
invece la grande fede. Noi purtroppo coltiviamo ciascuno una piccola fede, che
è quella che ci tranquillizza un poco, rimedia a certi nostri scompensi, colma
qualche vuoto e medica qualche ferita.
Ma dove è la grande fede che parla del fuoco dello Spirito, della presenza e
del ritorno del Cristo, del peccato e della misericordia, della croce e della
risurrezione? Dove sono i veri credenti, cioè gli inquieti?
Sul filo dei
precedenti interrogativi, penso alle attese dei genitori nei confronti dei
figli. Che cosa chiedono i genitori oggi alla Chiesa, quando domandano il
Battesimo e, crescendo, si accostano ai sacramenti?
In un mondo pericoloso come il nostro, soprattutto nelle grandi città, è più
che comprensibile che diversi genitori si rivolgano ai responsabili della
pastorale giovanile con questo aperto desiderio: "Aiutateci a salvare
questi ragazzi. Date loro norme di vita, rendeteli consapevoli di certi
pericoli, inventate forme di vita associata, appassionateli attorno a qualche
progetto di solidarietà".
Le domande sono sincere e pertinenti.
Ma basta chiedere questo?
Non c'è il rischio di ridurre il Cristianesimo ad una forma, sia pure nobile,
di umanesimo, e la pastorale della Chiesa a semplice servizio sociale?
Può "tenere" poi nella vita un'esperienza religiosa che non conosca
la scottatura di un incontro con l'amore estremamente esigente, ma anche
gioiosamente appassionante del nostro Dio?
Al limite, il termine "cristiano" può allora diventare sinonimo di
"brava persona", senza alcun riferimento a Gesù Cristo e alla Chiesa.
Si dovrebbe incominciare a sognare - a lavorare per questo - il
giorno in cui i genitori si rivolgeranno alle nostre parrocchie con queste
parole: "Parlate ai nostri figli del mondo, di quello che succede nel
mondo. Discutete i loro problemi e aiutateli ad affrontarli.
Ma soprattutto parlate di Dio.
Non fate solo psicologia Non fate solo della sociologia. E neppure della
morale, sia pure la più alta e illuminata.
Fate profezia, e rivelate, per quello che vi riesce, il vero volto di Dio.
Fate in modo che, anche attraverso le vostre parole, sia dato loro di
contemplare sul volto di Cristo l'immagine viva, stupenda, incancellabile
dell'amore del Padre".
È di questa grande fede di cui tutti abbiamo bisogno.
RITORNARE PER UN'ALTRA STRADA
Il Vangelo precisa che, dopo aver incontrato Cristo, i Magi tornarono al
loro paese "per un'altra strada". "Per un'altra strada fecero
ritorno al loro paese" (Mt 2,12).
C'è dunque un cambiamento di rotta da prevedere al termine di un
pellegrinaggio, se non si vuole ritornare come prima.
Tocchiamo il tema su cui sta o cade il cammino stesso della GMG, il tema della
missione.
Mi confidavano
alcuni giovani, al termine della catechesi che avevo svolto a Roma durante la
GMG del 2000 nella chiesa di S. Luigi Grignon de Montfort: "Qui è bello
andare in chiesa, perché siamo in tanti. Ma, quando ritorneremo a casa, nelle
nostre parrocchie e nei nostri gruppi giovanili, siamo sempre in pochi".
Ricordo il vecchio parroco di Macugnaga, paesino ai piedi del Monte Rosa – cima
che egli aveva scalato un centinaio di volte, salvando qualche escursionista
inesperto -: l'avevo chiamato a concludere il bivacco al termine del campeggio
scout della mia parrocchia. "Bravi i tuoi giovani: cantano, danzano,
girando attorno al fuoco, ma non si bruciano".
Voleva dire che non si bruciano dentro al "fuoco della missione": nel
darsi per gli altri, nel farsi carico della fede di quelli che non frequentano,
nel testimoniare agli altri la loro gioia di credere, con scelte coraggiose.
Mi rivolgo
perciò ai giovani che vedo qui, ancora una volta con le parole stesse del Papa
Giovanni Paolo II: "I vostri coetanei aspettano da voi che siate testimoni
di Colui che avete incontrato e che vi fa vivere... Tocca ora a voi -
notate, il verbo "tocca a voi" è deciso - raccogliere questa sfida.
Mettete i vostri talenti e il vostro ardore giovanile al servizio dell'annuncio
del Vangelo... Sentitevi responsabili dell'evangelizzazione dei vostri amici e
di tutti i vostri coetanei".
Provo a
riassumere le scelte coraggiose che devono accompagnare il ritorno dalla GMG
con le parole stesse di Giovanni Paolo II, quando nella Veglia a Tor Vergata,
la notte del 19 agosto 2000, invitava a fare delle proprie scelte un
"laboratorio della fede".
Abbiate il
coraggio di dire parole chiare sulla vita, sulla morte, sul matrimonio, sulla
donna, sulla sessualità, sul denaro, sulla guerra e sulla pace.
"Forse, a voi non verrà chiesto il sangue (come a S. Teresa Benedetta
della Croce vittima della persecuzione nazista), ma la fedeltà a Cristo
certamente sì!
Penso ai fidanzati e alla difficoltà a vivere, entro il mondo di oggi, la
purezza nell'attesa del matrimonio.
Penso alle giovani coppie e alle prove a cui è esposto il loro impegno di reciproca
fedeltà.
Penso anche a chi vuol vivere rapporti di solidarietà e di amore in un mondo
dove sembra prevalere soltanto la logica del profitto e dell'interesse
personale e di gruppo.
Penso a chi opera per la pace e vede nascere e svilupparsi in varie parti del
mondo nuovi focolai di guerra".
Abbiate il
coraggio di parole chiare sulle vocazioni. Seguire Cristo - diceva il
Papa - porta a fare scelte coraggiose, a prendere decisioni alle volte
eroiche. "Gesù è esigente perché vuole la vostra autentica felicità.
Chiama alcuni a lasciare tutto per seguirlo nella vita sacerdotale o
consacrata. Chi avverte questo invito non abbia paura di rispondergli
"sì" e si metta generosamente alla sua sequela".
Sì, sono diversi
i giovani che magari a partire dall'esperienza della GMG hanno maturato scelte
coraggiose di consacrazione e di ministero. Ma sono ancora tanti i giovani che
non hanno il coraggio di lasciare il nido, di spiccare il volo. Lo chiamano il
fenomeno della adolescenza interminabile o della libertà prorogata: il fatto
per cui il figlio tende a prolungare oltre misura la permanenza nella famiglia
di origine, nella consapevolezza di trovare qui un rifugio rassicurante, ma
altresì una moratoria della responsabilità dell'adulto.
Sento dire che è
bene che diminuiscano le vocazioni di speciale consacrazione, perché così
crescono i laici, o cristiani battezzati, i doni e le vocazioni dell'intero
popolo di Dio. Io non sono d'accordo. Non è la povertà di alcuni doni che
automaticamente promuove i doni degli altri. Poveri diventiamo tutti, quando
vengono meno le vocazioni.
Che cosa mi
aspetto ora? Di ricevere una lettera come quella che ho ricevuto da un prete
milanese mio amico, il quale, commentando la crisi vocazionale che in questi
anni sta facendo soffrire un po' tutte le Chiese, mi scriveva: "Io in una
Chiesa già ricca di preti, non avrei fatto il prete; avrei fatto altro, anche
come gratificazione personale. Invece, prendendo coscienza della povertà della
mia Chiesa, dei suoi tanti bisogni e delle sue tante attese, anch'io mi sono
sentito responsabile, e ho chiesto al Signore e al mio Vescovo: ECCO, MANDA
ME!"
Carissimi giovani, venuti qui a Colonia sulle orme dei Magi, facciamoci
accompagnare dai cristiani riusciti che sono i Santi, in particolare i Santi di
questa Chiesa: S. Alberto Magno, maestro nella fede di grandi teologi come S.
Tommaso, e Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), la quale con lo stesso
atteggiamento dei Magi ha cercato appassionatamente la verità, che è Cristo,
fino al martirio.
Ci accompagni
Maria, che Giovanni Paolo II ha chiamato la "vostra coetanea", perché
sostenga i vostri passi, illumini le vostre scelte, vi insegni ad amare ciò che
vero, buono e bello.
Anch'io mi metto
in cammino con voi, accogliendo le domande che con libertà vorrete rivolgermi.
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