Incontrare
Cristo nell'Eucaristia (19 agosto 2005)
Alla scuola
dei Magi, per adorare Gesù
Francesco
Lambiasi, vescovo Assistente
generale dell'Azione Cattolica
E' il primo atto
di fede che si registra sulla soglia del NT: dei pagani – i Magi – vedono un
piccolo bambino e vi intravedono Dio. Difatti si prostrano davanti a lui, come
erano abituati a fare nelle loro corti orientali davanti al re, da essi
considerato la presenza di Dio sulla terra. Questo gesto – la prostrazione – è
il gesto della adorazione, è il segno della fede nella divinità di quella
piccola, fragile creatura. "Dio nessuno l'ha visto mai: proprio il Figlio
unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18). Lo ha
rivelato, cioè lo ha reso trasparente nella sua umanità: carne, nervi, sangue,
emozioni, rabbie, paure, lacrime. Anche noi oggi vogliamo vedere Gesù: vogliamo
vedere il suo volto così come i vangeli ce lo fanno riconoscere e contemplare.
1. Volto umano, umanissimo
Come ogni uomo, Gesù si riconosce dal suo sguardo. Degli occhi di Gesù i
vangeli non ci dicono il colore, ma dovevano possedere una forza magnetica, se
i pescatori del lago di Galilea lasciano tutto e lo seguono. Anche le folle ne
restano ammaliate: lo seguono a fiumane e, per stargli dietro, si dimenticano
addirittura di mangiare.
Quello del Nazareno doveva essere uno sguardo penetrante e avvolgente. Sguardo
di tenerezza che si fissa sul giovane ricco, ma si vela subito di tristezza per
l'amore rifiutato; sguardo percorso da lampi di collera nei confronti dei
farisei ostinati che cercano di coglierlo in fallo; sguardo che si stampa per
sempre nella memoria di Pietro che lo ha appena rinnegato.
Incontrare un personaggio simile doveva essere una esperienza fortissima.
L'evangelista Giovanni era molto giovane quando si trovò per la prima volta
davanti a Gesù, sulle rive del Giordano, mentre con Andrea, fratello di Simon
Pietro, ascoltava l'altro giovanni, il Battezzatore, l'aspro asceta del
deseerto. Poi tutt'e due trascosero una serata "magica". Diventato
ormai vecchio, il discepolo prediletto amava ripensare al momento in cui Gesù
lo aveva guardato per la prima volta. Più di cinquant'anni dopo ricordava
addirittura l'ora di quell'incontro che gli aveva cambiato la vita: "erano
circa le quattro del pomeriggio" (Gv 1,39).
Spesso nei vangeli il verbo "vedere" riferito a Gesù si abbina al
verbo "commuoversi". Per esempio, il miracolo della moltiplicazione
dei pani inizia tutto da uno sguardo d'amore e di pietà da parte del Maestro:
"Sbarcando vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come
pecore senza pastore" (Mc 6,34). Anche il miracolo della risurrezione del
figlio della vedova di nain parte dagli occhi del Signore: "Vedendo (la
madre), Gesù ne ebbe compassione" (Lc 7,13).
Come ogni uomo, Gesù si riconosce dalle sue mani: forti e tenere. Potrebbe
essere altrimenti per le mani di un carpentiere che hanno dovuto sostenere un
duro lavoro fino a trent'anni e che poi vediamo modulare gesti di grande
delicatezza? Sembra che queste mani a lui servano solo per dare, mai per
prendere, o quando le usa per prendere – ad esempio il pane – non è mai per sé
o per la sua fame, ma è solo per darlo alle folle affamate o ai discepoli nella
sera del tradimento. E non solo il pane egli dà, ma si fa pane per darsi tutto
a tutti: "Prendete, mangiate, questo è il mio corpo, che è dato per
voi".
Mani – le sue – per guarire gli indemoniati, i ciechi, i sordi, i muti, e mani
per benedire, non nel gesto freddamente ieratico dei sacerdoti di Gerusalemme,
ma con una spontaneità umanissima, come quando si posano sui bambini e li
abbraccia teneramente.
Mani che non si arrendono di fronte a nessun tabù; mani che sembra egli quasi
non riesca a trattenere, quando se le sente come calamitate dalle piaghe
purulente dei lebbrosi, o provocate dal più ferreo dei tabù, quello della
morte. E allora lui "prende la mano" della figlia di Giaro, una
ragazzetta di dodici anni appena morta, e le ritrasmette la vita.
Mani che non temono di sporcarsi quando lui si china fino al punto più basso
per un rabbi, fino a lavare i piedi dei discepoli.
Sappiamo come va a finire la storia: Gesù si lascia consegnare nelle mani dei
carnefici, mentre le sue se le lascia inchiodare sulla croce: può morire così,
coronando il sogno di tutta un'esistenza: quello di vivere fino alla fine, a
braccia spalancate.
E i suoi piedi? Sono in continuo movimento: per andare, uscire, partire,
camminare… Lo stile del rabbi Galileo è del tutto diverso rispetto agli altri
maestri, che amano salire in cattedra, ma è anche originale rispetto a quello
del grande Battista, il quale se ne stava lungo il Giordano, in attesa della
gente che accorreva a lui. Gesù di Nazaret invece è come il pastore che non si
gode la pace della sera, se anche una sola pecorella s'è smarrita, o come la
povera casalinga che diventa un ciclone in casa se perde anche solo dieci euro.
Mani per dare, piedi per andare: le mani e i piedi di Gesù hanno nel DNA i
verbi del servizio e dell'amore, al punto che anche da risorto egli si porta i
segni della sua passione d'amore: "Guardate le mie mani e i miei
piedi…".
Come ogni vero
uomo, Gesù si riconosce dal suo cuore: è un mistero che si può avvicinare solo
in forma di paradossi strabilianti.
E' un cuore continuamente teso tra azione e contemplazione. Tutta la sua vita
potrebbe essere racchiusa nel verbo "fare" Certo, il rabbi Nazareno
insegna anche, ma gli evangelisti fissano la precedenza al primo verbo:
"fece e insegnò". Comunque, tra viaggiare, predicare, guarire, tante
volte non gli resta neanche il tempo di mangiare.
Eppure questo Gesù non si comporta da super-manager: sa concederesi la pausa di
una cena, di una visita ad amici, di un dialogo notturno, di un sonno
ristoratore. Ha gli occhi sgranati sulla vita e sulle vicende umane, ma sa
anche sostare e contemplare i gigli dei campi e gli uccelli del cielo. E'
soprattutto continuamente alla ricerca di spazi abbondanti di preghiera, e
quando non gli riesce di giorno, magari dopo ore e ore stressanti, si abbandona
a ciò di cui sembra non possa proprio fare a meno: starsene solo con il Padre,
il suo amatissimo Abbà.
E' un cuore
tenero ed esigente. Il suo messaggio è di una radicalità sbalorditiva: "Se
il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo!". Chi lo vuol seguire, dev'essere
disposto a rompere i legami più sacri e deve lasciare anche casa, moglie,
figli, campi. La scelta è senza sconti: o con lui o contro di lui.
Eppure questo Gesù non è un altro Battista, duro e inflessibile, sempre lì a
minacciare i fulmini della giustizia divina. Lui no, si dice venuto non per
condannare, ma per salvare. E più di una volta gli evangelisti lo sorprendono a
piangere: alla vista di Gerusalemme, davanti alla tomba dell'amico Lazzaro…
E' un cuore
autorevole e umile. Gesù è un vero capo: sa esigere, comandare, organizzare. E
nessun discepolo potrà mai sostituirlo: è lui e solo lui resta l'unico Maestro
e Signore. Manifesta la consapevolezza di valere più del tempio, più del grande
re Salomone, più dei profeti, come Giona o Geremia, addirittura più dello
stesso Mosè.
Eppure questo Gesù dice di essere venuto non per essere servito, ma per
servire: per servire la causa di Dio, il Padre suo, come il servo obbediente
condotto al macello, e per servire i suoi: quando vuol far capire loro fino a
che punto è disposto a mettersi al loro servizio, si presenta in ginocchio, con
un asciugamano ai fianchi, e si mette a lavare i loro piedi, facendo quello che
gli ebrei non facevano fare nemmeno ai loro schiavi.
Infine Gesù ha
un cuore che combina in una sintesi felice austerità e gioia di vivere. Lo
vediamo digiunare per un lungo periodo nel deserto. Conduce una vita dura,
dorme spesso all'aperto, vive poveramente alla giornata, senza fissa dimora.
Ma non è un triste masochista o un moralista noioso e pedante: a forza di
frequentare quelle che i benpensanti ritengono cattive compagnie, finisce per
passare come "un mangione e un beone". E per il regno di Dio non sa
trovare immagine più bella che quella di un festoso banchetto.
2. Volto regale
"Dov'è il re dei Giudei che è nato?", domandano i Magi appena
arrivati a Gerusalemme. E una volta che l'hanno trovato, gli offrono in dono
oro, incenso e mirra. La tradizione cristiana ha visto in questi doni il
riconoscimento da parte dei Magi, della dignità regale e messianica di Gesù
(oro), della sua divinità (incenso), della sua futura passione (mirra).
Alla scuola dei Magi, anche noi vogliamo adorare Gesù come Messia, crocifisso e
risorto.
Il titolo di messia era carico di una lunga attesa e di una ardente preghiera.
Nei periodi di crisi e di sventura nazionale i profeti avevano risuscitato le
speranze deluse del popolo annunciando la futura rinascita attraverso un
re-messia ideale.
Al tempo di Gesù quest'attesa si era fatta ancora più viva. Ogni tanto qualcuno
si metteva a capo di una banda armata e si presentava come messia condottiero,
venuto a liberare il popolo ebreo dalla tirannia di Erode e dal dominio di
Roma. Il successo era effimero; ma la gente aspettava, sempre più ansiosa, la
riscossa e il trionfo su tutti i nemici.
Gesù si presenta come Messia "totalmente altro": da una parte egli
incarna uno stile più messianico rispetto alle attese della gente e degli
stessi discepoli, dall'altro il suo stile appare sorprendentemente meno o
addirittura non-messianico in confronto all'opinione corrente.
Prendiamo ad esempio l'atteggiamento di Gesù rispetto a Dio: egli si pone sul
suo stesso piano al punto da correggere la Legge data da Dio a Mosè:
"Avete inteso che fu detto (da Dio): Occhio per occhio… ma io vi
dico…".
Gesù ha coscienza di essere più che un profeta, "più di Giona" e
"più di Salomone". Egli dice, ad esempio: "Chi accoglie me, non
accoglie me, ma colui che mi ha mandato" (cfr Mc 9,37). Dunque la scelta
che gli uomini fanno nei suoi confronti è insieme una scelta nei confronti di
Dio. Analogamente afferma: "Chi si vergognerà di me e delle mie parole…
anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del
Padre con gli angeli suoi" (Mc 8,38). Gesù fa di se stesso la pietra di
paragone per il giudizio finale di Dio: in altri termini, la decisione nei suoi
confronti è insieme decisione nei confronti di Dio.
C'è in particolare una novità, densa di significato, nel linguaggio filiale che
Gesù usa per riferirsi a Dio: si rivolge a lui non nella santa lingua ebraica,
usata nella preghiera liturgica, ma nel volgare dialetto aramaico, e lo chiama
Abbà, Papà, un'espressione così familiare che nessun pio ebreo si sarebbe e di
fatto si era mai permesso di usare, tanto confidenziale e quasi irriverente
doveva apparire per la mentalità giudaica che sottolineava fino
all'esasperazione il comandamento di non nominare il nome di Dio. Dunque, con
il suo modo troppo familiare di parlare con Dio e troppo sicuro di parlare di
Dio, Gesù rivela chiaramente la propria identità di Figlio di Dio.
D'altra parte Gesù rompe gli schemi messianici correnti: non nacque presso i
palazzi sacerdotali di Gerusalemme, ma presso una povera grotta alla periferia
di Betlemme; non iniziò l'annuncio del regno di Dio nel sacro cortile del
tempio, ma nell'umile periferia della terra santa, la Galilea; non si rivolse
dapprima a coloro che con morbide vesti affollano i palazzi del potere, ma a
dei poveri pescatori del lago di Cafarnao.
E' soprattutto la morte in croce che dimostra la diversa qualità messianica
della vita e dell'azione di Gesù. La croce, infatti, è il patibolo impuro; chi
vi viene inchiodato è uno "scomunicato", rigettato dalla comunità cui
Dio si è legato in alleanza; chi vi muore, muore fuori dell'accampamento e
della porta della città, in un luogo profano, anzi sconsacrato, in cui Dio è
ritenuto assente. E' una morte vergognosa, che non è stata neppure rivestita
della gloria del martirio come quella del suo precursore, Giovanni Battista.
E' al Crocifisso che ora vogliamo volgere il nostro sguardo.
3. Volto dolente
Il dono della mirra offerto dai Magi al neonato "re dei Giudei"
allude alla sua passione. Della croce di Gesù vogliamo vedere i due lati,
quello del dolore e quello dell'amore.
La morte per Gesù non è un incidente casuale; è una sua libera scelta. Avrebbe
potuto prendere la fuga, o fare un'autocritica in sede di processo, e gli
avrebbero offerto ponti d'oro. Non si è trattato di una mossa sbagliata da
parte sua, è stata una conseguenza delle sue scelte. Se fosse rimasto
carpentiere a Nazaret, non sarebbe finito su una croce. E' morto vittima del
suo messaggio. E' finito così perché ha parlato. Più precisamente: è stato
condannato per una questione di identità. Durante tutta la sua missione e la
settimana di passione, Gesù è pienamente cosciente di quanto sta succedendo: sa
che se sarà coerente fino in fondo con il suo ideale, se sarà disposto ad
obbedire al Padre fino alla morte, scatterà inesorabilmente nei suoi confronti
prima il complotto, quindi il processo e infine la condanna a morte. Ma in sede
di dibattimento al sinedrio, egli non solo non recede dalle sue posizioni, ma
rincara la dose… E' chiaro: Gesù non ha voluto la sua morte in senso
masochistico; è vittima di una subdola macchinazione, ma vittima consapevole.
Fino all'ultimo non si lascia vivere dagli eventi, ma li domina con piena
lucidità. Lo mostra il ruolo da protagonista che egli svolge nel dramma: prende
l'iniziativa prevenendo i suoi nei preparativi della cena, prevede il
tradimento di Giuda, preannuncia l'abbandono dei discepoli e il rinnegamento di
Pietro; prende l'iniziativa anche nell'andare incontro al traditore.
Ma per capire come mai questa che è la più tragica di tutte le morti sia per i
credenti la più "bella notizia" della storia, confrontiamola con la
morte di Socrate. Nel racconto di uno dei discepoli, Platone, si legge che
quando arrivò il giorno della esecuzione della condanna, il maestro prese la
coppa del veleno "con vera letizia e, senza dar segno di disgusto,
piacevolmente la vuotò sino in fondo". I discepoli piangono, ma Socrate li
rincuora, anzi la sua ultima parola è una commovente banalità, che ne svela la grandezza
sublime: "Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo
e non ve ne dimenticate…Sì, disse Critone, ma vedi se hai altro da dire".
No, Socrate non ha altro da dire. La sua missione è riuscita, ha raggiunto la
verità, la sua vita è compiuta. Sembra una scena capovolta rispetto alla
passione di Gesù, che piange di fronte al calice amaro del dolore, e muore
gridando.
Noi siamo abituati a guardare il Crocifisso, e così abbiamo banalizzato il
dramma della croce; forse ci sarebbe necessario lo sguardo di un bambino malato
di leucemia, che sa di essere ai suoi ultimi giorni di vita e che per la prima
volta fa l'esperienza di quell'incontro, così come si legge in un best-seller
in Francia e ora anche in Germania, Oscar e la dama in rosa.
Nonna Rosa mi ha vestito come se si partisse per il Polo Nord, mi ha preso fra
le sue braccia e mi ha accompagnato alla cappella che si trova in fondo al
parco dell'ospedale, oltre i prati gelati. Insomma, caro Dio, non sto a
spiegarti dov'è, visto che è casa tua.
E' stato un colpo quando ho visto la tua statua, insomma quando ho visto
in che stato eri, quasi nudo, magro magro sulla tua croce, con delle ferite
dappertutto, con il cranio sanguinante sotto le spine e la testa che non stava
nemmeno più sul collo.
Mi ha dato da
pensare. Mi sono sentito rivoltare. Se fossi Dio, io, come te, non mi sarei
lasciato ridurre a quel modo.
- Nonna Rosa, sia seria: lei che era lottatrice di catch, non si fiderà
di quell'essere!
- Perché, Oscar? Daresti più credito a Dio se vedessi un culturista con i
muscoli gonfi, la pelle unta d'olio, i capelli corti e il minislip che ne fa
risaltare la virilità?
- Beh…
- Rifletti, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova
niente o a un Dio che soffre?
- A quello che soffre ovviamente. Ma se fossi lui, se fossi Dio, se come
lui, avessi i mezzi, avrei evitato di soffrire.
- Ascolta, Oscar. Guarda meglio il suo viso. Osserva. Sembra che soffra?
- No, è curioso. Non sembra che abbia male.
- Ecco, bisogna distinguere due pene, Oscar: la sofferenza fisica e la
sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la
si sceglie".
La scoperta che Oscar fa è quella dell'amore. Ciò che ha reso salvifico lo
sconfinato dolore di Gesù è stato l'amore ancora più grande con cui ha
trasformato una violenza totalmente ingiustificata in una dedizione totalmente
incondizionata; ha trasfigurato la crudeltà in amore, ha convertito l'odio in
perdono. "Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla
fine" (Gv 13,1), cioè fino al limite estremo dell'amore. Non c'è infatti
amore più grande: se grande amore è quello di fare del bene alle persone amate,
è amore ancora più grande quello di soffrire per loro. Per sapere quindi quanto
Gesù ci ama, basta vedere quanto ha sofferto! E per sapere quanto ci ama Dio,
basta vedere quanto ci ama Gesù: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16).
4. Volto di Risorto
"Gesù è risorto": questa è la bella notizia che da quella domenica
di pasqua dell'anno 30 d.C. ha fatto il giro del mondo ed è arrivata fino a
noi. La fede cristiana si gioca tutta sul fatto che questo evento venga creduto
o meno.
Cristo non è come Maometto o comme Buddha: morti tranquillamente nel loro
letto, e non certo per i nostri peccati. Gesù è morto martire per amore nostro,
ma a differenza di Buddha e di Maometto, è risorto. Questo significa che egli è
vivo. Vivo non solo nel suo messaggio, nel suo esempio, nel suo influsso sulla
storia umana; ma vivo in se stesso, realmente, corporalmente, con la sua
umanità unica, singolare, irripetibile. Ma questo significa che egli è vivo tra
noi oggi.
A questo punto mi rendo conto di non aver risposto alla domanda imposta dal
sottotitolo di questa catechesi: come vivere nel mondo come veri adoratori di
Dio? Una risposta potrebbe essere: riamare Gesù che tanto ci ha amato. Ma tutto
questo viene dopo. Un'altra risposta possibile è: amarci tra di noi come lui ci
ha amati. Ma anche questo viene dopo. Prima c'è un'altra cosa da fare:
incontrare Gesù, come hanno fatto i Magi.
Anche noi come i Magi possiamo incontrare Gesù, lo stesso Gesù di Betlemme, di
Nazaret, del Calvario, di duemila anni fa.
Perché Gesù è vivo oggi, e la relazione più autentica che si può instaurare con
un Vivente è sempre e solo l'incontro. L'incontro con Gesù cambia la vita. Vedi
i Magi: "per un'altra strada fecero ritorno al loro paese".
Ma perché anche a noi cambi la vita, l'incontro esige sempre tutto ciò che
l'amore esige.
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