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Gian Pietro Lucini
L'ora topica di Carlo Dossi

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  • IV.   PASSEGGIATA SENTIMENTALE PER LA MILANO DI "L'ALTRIERI"
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IV.

 

PASSEGGIATA SENTIMENTALE PER LA MILANO DI "L'ALTRIERI"

 

Se il biografo del suicida Alberto Pisani abbandona un istante il suo eroe e lo lascia riposare, torna subito a stesso - ed è forse la medesima istoria che seguita - e si compiace di confidarci: «Quando sono a Milano, in cilindro, marsina, guantato, con un sentore di muschio, leggo la Perseveranza, fumo cigarette di carta ed esclamo: «Sapristi!» Mi vedeste invece a Pavia, oh, mi vedeste quando lo studente, con tanto di cappellaccio e mantello! Allora giuro per Cristo e Maria, del tu a chiunque e grido: «Viva Mazzini e Garibaldi! e il suo inno».

Tutti e due passeggiarono in quella Milano, on Milanin che se sgonfiava, e che si permetteva di conservare le strade ambigue, ed a metà campestri,28 «fuor di mano, dove, le rotaje, i marciapiedi s'erano mai sovvenuti di entrare, sì bene l'erba cresceva al sicuro e qualche volta si coglievano fiori». Dove29 «la casa di Elvira, doviziosa di vista, riguardava un giardino dall'ombre spesse e profonde, di di cui verdeggiava un'ortaglia, e... così via, per ortaglie e giardini, l'occhio arrivava agli spalti chiomati d'antichi castani. Si bevea un'auretta tutta della campagna, e vi faceva la luna le sue più strane e poetiche apparizioni» - E vi abitò il Mago, in una straduccia de' Corpi Santi, che immetteva, dopo un guazzabuglio di piante, al di di una prateria, in un cimitero suburbano e decaduto; - e vi si ritrovavano le classiche portinerie, dove, due comari, sacerdotesse della Sporchizia, madama Ciriminaghi e madama Pinciroli, discutevano sulla gabola del lott, convitando il caporal Montagna, perpetuamente incorizzato e la poveretta della giesa, beccamorti femina ed uccello di male augurio: - dove, era la dimora de' signori Fabiani, di Donna Claudia Salis, «nella contrada Moresca, lunga contrada vergine, a suolo ineguale» che sciorinava, per quasi tutta la sua lunghezza, de' muriccioli bassi di giardino.

Era la città che adolesceva, ma che, nella crescita precoce ed eccitata da fomenti estranei troppo caldi ed eccessivi, conservava la sua nativa e genuina fisionomia; la Milano fine ed intellettuale, in cui le Arti avevano la preeminenza sopra i traffici e le officine. Qui, Rovani battagliava giornalmente perchè, nel tramutarsi necessario della fisionomia cittadina, venissero rispettate le sue sigle speciali e distintive, non si denaturalizzasse il tipo de' suoi monumenti. - Era la Milano che non conosceva l'esigenza nevrastenica della velocità e camminava per le strette vie, ad agio, assaporando l'aria, riguardando alle bacheche, pedinando le popole; che, nelle notti molli e fresche di maggio, non assisteva al doppio scambio di ombre fantastiche, in gara, della luna artificiale voltaica, della luna solitaria e malinconica, in cielo, inquadrata dai tetti a sfondo di prospettiva. Non si fuggivano ancora i gialli carrozzoni della Edison, ronzanti, cigolanti, seguenti il filo della energia, rapidi a svoltare, scampanellando a furia, intempestivi, interrompendo conversazioni e fantasticherie; non ancora frastornava il rumore sordo delle voci e dei piedi, infastidiva il fumo del polverio, sul ripetersi arcaico ed atavico di un grido a richiamo del venditore ambulante; il fango, la piova si immelmavano, ma non scintillavano rotaje d'azzurro elettrico, suscitavansi uragani di pillacchere, schizzate a raggiera, dalle ruote d'acciajo delle biciclette, strideva o mugghiava la sirena automobile, , si subivano li urti, i disgusti, il leppo dei fiati prossimi, la promiscuità dei frettolosi. Vi erano i fiacres invece - le cittadine - le moli idropiche delli omnibus, che lentamente si facevano sostituire dai Tram a cavalli della Anonima; vi erano le linguette gialle e trepidanti del gas, riaccese dalla lancia lucifera del lampedée, il quale ricordava quel lampedée in sci fa di du barbis del povero Giovannin Bongè.

E la melanconia meneghina, il sentimentalismo lombardo (come un chiarore roseo d'aurora primaverile, circonfuso di nebbie fumigate dalle praterie irrigue; e, dalla mandra grassa che pascola, il suono del campano; e, tra le gabbe nane e gibbose capitozzate, il canaletto artificiale e parallelo a scorrere addomesticato) trovavano il paesaggio su cui si erano posati li occhi preveggenti di Leonardo da Vinci, donde traeva la ricchezza il lombardo Sardanapalo. Triste e dolce tranquillità della Contrada della Costa e di Santa Prassede, giù verso Porta Tosa, in mezzo alle quali fluiva lenta, a rispecchio di antichi alberi nani, una roggia, tra rive ineguali e corrose a risciacquare le radici gialle, tentacoli vegetali, lievemente ondeggianti nella corrente: nelle mattine solatie, le lavandaje le fasciavano di panni distesi e variopinti ad asciugare. - Ora, nascosto il Naviglio interno per la maggior parte: demolito il Lazzaretto, arrugginito nelle muraglie tozze e sipario alla vista delle Prealpi lariane, Stendhal redivivo si lamenterebbe, se, nelle giornate ventose e limpide, nell'aria ossigenata e cristallina, dall'alto del Bastione non potesse più ammirare i denti bianchi ed acuti del Resegon de Lek (così scriveva) profilarsi sulla azzurra tenerezza del cìelo. E i Corpi Santi facevano da una città a cerchio dell'altra, tra l'agricola le l'Industriale. Permanevano, come permangono, le cancellate e i pilastri, il primo viale de' Giardini Pubblici, tracciati dalla simmetria repubblicana e cisalpina, lungo Corso Venezia: ma non più la bella e rettilinea armonia classica, che Piermarini voleva istituita, sulle macchie e nei prati e nelle allee, perchè vi si decorassero, nelle pubbliche commemorazioni, li Eroi, tra le fiaccole, li altari romani, i profumi e le pire: Eroi della guerra e della pace.

Ma, se distrutto il Teatro Diurno, celebre per le sue pantomime e pe' suoi carroselli, e La Giostra, ed il Caffè, non così quel Salone, che lasciò indi l'area al Museo di Storia Naturale, e dentro cui ballarono il can-can de L'Orphée aux Enfers, al suono della musica dei Chasseurs d'Afrique, la Dama e lo Zuavo nel pocanzi troppo commemorato 1859.

Allora, il dedalo curioso e caratteristico dei vicoli, delle stradicciuole a gomito, ad oscurità rientrate, a balconcini tondi sporti, ad usciuoli socchiusi, ad invito pandemio, che racchiudevano l'isolato delle case, dalla contrada di San Raffaele, ai due Muri, dalla Pescheria Vecchia, a Santa Margherita, andava scomparendo; qui, aveva tenuto campo aperto, ad ogni avventura ed a chiunque avventore, e generai comando, la venale e larga galanteria milanese:

 

«.... costumm de sta città,

Rapport ai donn de bonmercàa,

Massimament qui creatur

De San Raffael e di Du Mur;

Che, quand l'arriva on forestée,

Se fa compagn di bottigliée;

Massimament in temp de stàa...»

 

Poi, La Piazza del Duomo, ampliata, ancora decorata dal Monumento del Rosa, , come oggi, allietata dal torneo dei tram, propalatori di addomesticati fulmini tra le ruote e le rotaje, intorno al Padre della Patria, guardato a vista dalle nappine azzurre e dai pennacchi rosso-azzurri: e, se in Piazza Mercanti, si era colmato il vecchio pozzo, che, nel 1762, il conte Nicolò Visconti, prefetto della città, aveva ristaurato, pur continuava la frequenza di avocatt, borsiroeu, spii, vagabond, mercant de gran e de ris, fittavol, beolch, massée, fattor.

Sì che Carlo Dossi ed Alberto Pisani furono spettatori della trasformazione. In quel loro Presente, in questo nostro Altrieri, già si pretendeva luce ed aria; già si incominciava a demolire: piazze larghe, strade in rettifilo; sovrani, picconi e squadre. Vi hanno camminato, vi camminano i cittadini più diritti e sicuri? Ogni cosa consiglia l'ortogonia, la politica e l'igiene; per ciò si sopprimono li edifici biscornuti e le idee doppie; - quelle, cioè, che sono sempre vive, e sono le più sincere; - noi non vogliamo scansare l'ostacolo, ma lo abbattiamo; alla critica succede la sintesi; ma scordammo molta allegria e molto buon cuore; ma l'ironia si è fatta sarcasmo; e ciascuno teme del suo vicino: se la satira interviene, si invoca al chirurgo, che Carlo Dossi reputa una delle più tristi necessità umane; e, chi dice chirurgo, accorge l'ammalato; e Carlo Dossi molti ne vide, coi quali, Alberto Pisani. In compenso, l'aspetto non potrebbe essere migliore; ma è un'inzaffatura calce lievemente indorata dal giallo-cromo dell'imbianchino: niente portoni ad ogni ponte del Naviglio, colmati i vicoli, fontanelle d'acqua potabile sopra d'ogni trivio; ciascuno veste più decentemente; alla domenica riposo festivo - incontrate il vostro lustrascarpe agghindato come un milord, George Brummel del selciato -, e le vostre domestiche si rifiutano di custodirvi il bollito. Milano è più sana, più costumata, più libera? È una domanda; e pure, quell'altra ha i suoi adoratori che la vagheggiano di sulle stampe ed i disegni con postumo amore tra il curioso e l'indiscreto; se ne innamorarono troppo tardi; la scrivono e la descrivono come una paleografia sentimentale.

Vecchie ringhiere, rigonfie e barocche, riccioli e tortili viticci e foglie d'acanto battute nel ferro; balaustre a volute ed a conchiglie massiccie, a specchiarsi nell'acqua lenta e verde del canale; lobbie di legno brunite dalla piova e lucidate dal sole; pensili giardinetti di quattro garofani garibaldini, un cespo di geranio rosato, una tegghia odorosa di maggiorana pei gatti, di salvia per l'arrosto; l'arcata del ponte bituminosa, concava, nell'acque, convessa, oscura galleria ai comballi, carichi di pietre, di calce, di fascinate; la rozza a guidaleschi, al rimorchio del carro fluviale: la Madonnina specchiante d'oro, ultima sull'orizzonte milanese, simbolo ed indice, come una fiamma: l'intimi ripostigli della città: l'ombra magra e profumata dalle glicine urbane e stanche, spioventi sulla terrazzetta; l'umidiccio della piccola ajuola, un portento di giardinaggio e di orticoltura d'ogni varietà; i Terraggi, i Bastioni, la Guglia, o bianca, o bigia, o violacea, o rosata, a sfidare il cielo, e, dai bassi muricciuoli, erigersi le alte magnolie sfiorendo e cercando azzurro ed aria, motivi alla matita, un , del Bossi, del Canella; oggi, del Mentessi; raffigurazioni di una nostalgia. Ed il Belloni ne i paesaggi dell'Alzaja Pavese, e Ferraguti, le prospettive crepuscolari, e Balestrini la fanghiglia dei Fuori porta, i cavalli stanchi e professionali delle carrozze di piazza; ed il Buffa la newyorkese irruenza dei traini pesanti, la furia modernissima dei commerci, che vanno rombando tra le brume, i fanali vegghianti e scarlatti, il rombo delle ruote e dei carrozzoni; l'Agazzi i cantucci caratteristici, le ripiegature secrete ed addominali dei vicoli, il Duomo in ogni ora del giorno, in ogni stagione, nevicato, sereno, le piangenti statue romane di Piazza Fontana, prefiche inesauste davanti l'Arcivescovado.

Donde la rammaricata nostalgia si tramuta in arte ed in letteratura. Giovanni De Castro ricorda i Visitatori illustri in una annebbiata palinodia; il Romussi ed il Barbiera, ambo gazzettieri spicci, badaluccano sulle esteriorità, ridipingomo sulla vernice e sono pregiati perchè suonano il vuoto. Cameroni non può dire Milano se non soggiunga Stendhal, Dossi e qualche volta Lucini; indugia con amore su questa serie di paesaggi che fuggono, di parole che svaniscono nell'aria troppo rumorosa dell'epoca; rammenta Byron, Michelet, Balzac, Flaubert, Gautier, i Goncourt, Taine, amici e narratori di Paneropoli, trascura Foscolo, nemico e grande istigatore di virtù meneghine, che riconosceva: Felice Cameroni, a me carissimo, araldo di Zola tra noi, dalla Farfalla, dalla Italia del Popolo, dal Sole, dalla Rivista Drammatica del Polese; il Pessimista, lo Stoico, l'Atta-Troll, l'Uaneofobo, tutte gradazioni dal nero fumo al grigio; per cui egli dispensò la sua volontà e la sua grande coltura e seconda natura, che lo fecero incompatibile colla serenità; sì che, non morto, oggi, si insepolcra dentro un ostinato silenzio. Con lui, Carlo Bozzi amico suo, andava e va proponendo al Comune una specie di Museo Carnévalet di nostre memorie che vanno perdendosi; Luca Beltrami ne ripara i monumenti, tenta di trasportare la Missaglia vicino al Chiostro ed al Chiostrino delle Grazie, rinascimento primaticcio e lombardesco. Noi ci illudiamo, nelle ore tipiche, di tornare al nostro Verzée, «scoera de lengua... caregada de tucc i erudizion, che i serv e i recatton dan de solit a gratis al poetta:» ma, tra le faccende del mercato, tra il monte fresco ed odoroso delle verdure, dei fiori, delle frutta, i pingui formaggi, le rosate polpe dei salumi; tra le piume e le pelliccie della cacciagione; tra la fragranza salina e salmastra della pesca, sotto li ombrelloni, sul suolo madido e lubrico; tra i frusti delle insalate e delle verze, in pieno cielo meneghino, un vocabolo toscano, una esclamazione napolitana, una bestemia genovese interrompono l'incanto. La Piazza veste la sua realtà: il carattere equivoco e complesso di un gran mercato qualsiasi, all'aria aperta; noi udiamo cianciare, in un misto italiano di caserma e di quinte, incolore e banale, linguaggio permesso ad una città d'emporio, che rimuta le sue espressioni col mutare veloce delle mode trimestrali, la sua fisionomia ad ogni lustro; città aperta all'estuarvi della immigrazione, dove, moltissimi sono li elettori e minimi i cittadini.

Però che se ne accorgeva Carlo Dossi sin dal principio e lamentava lo squalificarsi di molto patrimonio autoctono intellettuale30: «L'umore milanese e lombardo, oggi è quasi irremissibilmente perduto. Invano cerchi qualche scampolo di quella stoffa ambrosiana, che diede Manzoni, Cattaneo, Bertani, Gorini, Vassalli, Rovani e molti altri minori. Era gente questa di alto ingegno ed insieme cavalleresca, amabile e bonariamente spiritosa. Nutriti di Porta e di Rossini, erano amanti delle gonnelle senz'essere puttanieri; erano giocondi senz'essere mai sguajati. Oggi si è a loro sostituita la volgarità, l'ingrognatura, il portinarismo del Secolo, il bohemismo scimiottescamente francese ed odioso; l'ubriaco che rece al brillo che canta».

Ma allora si rifabricavano e si fucinavano coscienze e modi di vita cittadina, altri se ne assumevamo; si rifiutavano e si accoglievano attitudini, inquietudini letterarie e morali. Di quel tempo, nell'aspettazione di una nuova guerra coll'Austria, che deteneva ancora le provincie venete, nell'alacre fermento delle incalzate generosità del partito d'azione, i giovanetti tentavano più difficile se pur pacifica milizia.

Se abbattevansi muraglie, Cario Dossi ed Alberto Pisani venivano alle demolizioni notturne del Rebecchino, tra le fumigosità delle fiaccole, perchè, non ancora, alla fretta di far nuovo sul vecchio, aiutavano l'arco voltaico e la lampada ad incandescenza: ed udivano Arrigo Boito lamentare:

 

31«Scuri, zappe, arieti

Smantellate, abbattete e gaja e franca

Suoni l'ode alla calce e al rettifilo!

Piangan pure i poeti».

 

I poeti? I poeti ironeggiavano con Emilio Praga:

 

32«Per l'ampia volta querula,

Nel coro intarsiato,

L'orme di cinque secoli

Un giorno han cancellato:

Or tutto è liscio e candido,

E, a quei toni abbaglianti,

Ammiccan gli occhi i santi

E parlano? tra lor».

 

Santi? Si incominciava a non credervi più: si stavano stampando Il Re Orso e Le Madri Galanti e Tavolozza; si leggevano i romanzi del Tronconi: Felice Cavallotti ristampava le Poesie, bersaglio colpito inutilmente dalla Procura del re e soppresse per riapparire; ragione per cui lo scaldo repubblicano tornava ad essere ospite frequente delle Carceri Criminali, per riuscirne, brindando nei Filobaccanti, col bicchiere colmo e spumoso, sonora ilarità, sfarzo di facili amori a coprirgli i singhiozzi sulla povera ora trista italiana.

Cosí, mentre si tentava di rappresentare il Mefistofele, Tarchetti aveva già gettato il grido: All'aperto, all'aperto! di maggiore ed italiana efficacia che non fosse l'«en plein air» zoliano, denunciava il facile mestiere di imitar Manzoni; tornavasi ad odiare ed a combattere i pedanti come i più fieri assassini della poesia. I giovani si trovavano sospesi tra il lievito spremuto dall'Heine e dallo Schopenhaurer, in una stanchezza di razza che ha troppo lavorato e pensato, in una quiescenza alla servitù avvenire, per le inutili ribellioni al fatto che popolava l'Italia liberale e liberata di burocrazia piemontese, scialacquatrice di patria e pubblico erario. - Dolore di aerei disinganni? Non pensavano più alla Byron, alla Leopardi, alla Gilbert, alla Moreau; non adoravano ancora il corteggio dei Montjoye, dei Maître Guerrin, delle Susanne d'Ange, delle Femmes de Claude, dei Sirchi, dei Lebonard, delle contesse de Chalis delle Ize Clemenceau, delle Eve alla Verga, delle Fanciulle alla Torelli;.... ma già spuntavano li uomini d'affare: non più si invocava la morte, ma il listino di borsa; non più la manìa dell'Ortis, ma la febre del guadagno e delle voluttà presto godute... a pagamento. L'Altrieri si dubitava di Dio e ci si disperava per amore; Ieri, i giovani nati troppo presto per combattere per la patria, od avendo già combattuto per questa e non per questo, non trovandosi intorno più nulla da fare, si guardavano in faccia muti, interrogandosi se non conveniva rimutarsi in mercante, vendersi, o vendere qualche cosa, o qualcuno.

Supporavano le angoscie reali ed imaginate di questa gioventù tradìta dalla realtà del vivere; deliravano le antinomie tra il volere ed il potere, tra la volontà inutile e la refrattarietà dell'ambiente sociale, tra il pensiero e l'azione, che sembrava non poter più.

Rappresentativo del malessere generale, ancora, Giulio Pinchetti sottoponeva la sua dolorosa vivisezione all'amico Sardi33: «Ho mille temi capricciosi che mi ballano in capo: mille pensieri condensati in convento: vapori, bolle, forse, che scoppieranno, presto o tardi, in qualche acquazzone di terzine. - Custoza, Lissa., cuore, natura.. e tante altre tempeste mi picchiano nel cranio, che non so io dove battere... Con più ci penso, ad onta di questo, mi vado persuadendo che in Italia l'unico poeta possibile, ora, è Byron...: ed io ti dico, che, inanzi di essere Chatterton tra questa ciurmaglia di trafficanti, preferisco cantar natura e cuore indipendenti dell'umano bipede, come Berni o Petronio». - Ed il dissidio si acuiva e si faceva ad acusar il mondo34: «Il mondo è fatto al rovescio, come quei dannati di Dante che avevano il culo inanzi, il petto dietro e le lagrime strisciavano per lo fesso». - E lamentava la mancanza di scopo, e gridava la propria infelicità, e, nello stesso tempo, preferiva, colla Italia di fronte, la maschera di Sallustio, altro fare, altro dire35: o esserle infelice e non confessare l'infelicità giammai».

Decadenza?

 

«Noi siam i figli dei padri ammalati;

Aquile al tempo di mutar le piume,

Svolazziam muti, attoniti, affannati,

Sull'agonia di un nume».36

 

Agonizzava una coscienza eroica, perchè, organo non impiegato, s'arrugginiva nell'ozio e si sfaceva; agonizzava l'orgoglio del sacrificio mazziniano, perchè meta irraggiungibile. Che se Giuseppe Mazzini aveva consigliato alla gioventù sua37: «Abbiamo bisogno, noi giovani, de' poeti; di voi che raccogliate, abbelliate, inghirlandiate dei vostri fiori immortali quella poesia che a noi tutti freme nell'anima, incapace di crearsi un'espressione; abbiamo bisogno di ascoltare la vostra voce, il vostro inno in mezzo alla lotta, nella quale noi ci avvolgiamo; abbiamo bisogno di sapere che il vostro canto ci conforterà il sospiro ultimo che daremo alla patria, che un raggio della vostra poesia poserà sui nostri sepolcri:» - i giovanissimi poeti si rammaricavano col Pinchetti:38 «Quando pensi alle ombre mazziniane degli Uticensi, dei Bruti minori, dei Cassii, dei Timoleoni, perchè tu palpiti per essi e fremi per la innocenza loro? Perchè questo brivido per le carni, se rammenti l'aura sonnolenta di Filippi, trofeo dei Pretoriani? Perchè giustifichi il fratello che rompe il petto al tiranno? - No: la squallida aritmetica del fatto uccide l'uomo: egli ha bisogno di un divino per sognare, per destarsi, anche... ma intanto sognare! - Guardo le cose come stanno: e li eroi girano il mondo come le striscie nereggianti che pinge sul muro la lanterna magica. - Bruto è un pazzo; Cassio un broglione; Timoleone un fraticida puro e semplice, esecrabile di più; la statua si è infranta, resta il marmo. Ed ecco cos'è per me la vita: marmo: - Del resto, sono l'uomo più pacifico del mondo «mangio, bevo, dormo e vesto panni; giuoco al bigliardo; fo pratica di notaio: evviva il Foscolo in fieri

La risata è un cachinno di ineffabile angoscia; la critica sulla società e sopra l'ultima, terza, monarchica, mal fatta Italia si determinava, perchè li Italiani, pur troppo erano, come i loro poeti disconosciuti, ancora in fieri.

Alberto Pisani accorgeva una patria, una sua città, che, nelle ore notturne, assumeva un'aria sospettosa,39 «quella di una ragazza, che, con gli orecchi attesi alla porta, legga un volume senza nome di tipi»:

 

«Eran fanciulle che leggean romanzi

Di fantasmi e di ganzi;

Eran fanciulle che poneansi al crine,

Fra i vezzi e fra le trine,

E gemme e perle e corone immortali,

Di fiori artificiali»40

 

all'ora «in cui il mercato di Priapo affolla».

E Carlo Dossi avvisava che,41 «intanto una carrozza si arresta in una via tortuosa che fiancheggia la Corte. La sentinella rintana. Lo sportello si apre; ed, ecco, un alto signore, il quale offre la mano a una donna incappucciata e dal vestito che fruscia. ! quel signore non mi riesce nuovo; mi par d'averlo ammirato ad una mostra di truppe, in tanto di fanfarona divisa, isputacchiata di principesche decorazioni... La bella sua moglie le passa dinanzi. Egli le fa un ampio inchino, e, come la vede sparire in una piccola porta, - porta alle grandi fortune, - tutto orgoglioso di ben meritar quelle insegne che incuginan col re, rimonta nella carrozza». E Alberto Pisani e Carlo Dossi udivano aumentare, dalle finestre, i pst,42 pst!.. - Nabucco imbestia: la città è in fregola; -... mentre rincasano dai teatri:43 «dove, nel vano della porta di mezzo, avevano ammirato i due poliziotti agli stipiti, i propri sostegni del palchettone regio»; od avevano, altrove, salutato, nei venerabili consessi ufficiali, a presiedere «La Maestà sua di gesso (dico il busto del re modellato nel gesso, o perchè simbolo, questo, di un costituzionale sovrano, o perchè comodo assai, repentini passaggi di temperatura politica)».

Sovversivismo? Erano trascorse le vigilie d'armi e di speranze, nelle quali l'entusiasmo fucinava e imaginava grandissima la patria e gloriosa; stagnavano le brume della sconfitta, l'onta di un dono, dalle mani dell'arbitro europeo, fosco, accigliato e fatale napoleonide. Pesavano alla Nazione la resa, non la violenta rivendicazione del Veneto, le Convenzioni di Settembre, il veto su Roma, guardata dalle milizie antiboine, mercenarie e francesi, accomandate dal bigottismo pauroso e dall'elegante fescennare gesuitico di una ex-maitresse-de-tripot, incoronata, per sapientissime lussurie imperatrice. E Giulio Uberti, sdegnoso, rifiutava l'anima sua al verso:

 

«Tu44 vuoi ch'io scriva....

Per questa Italia che sommersa in brago

Non troncheria il grugnito sonnolento

Sotto un milion di schioppettate ad ago?

Che ai suoi fornicator gridando viva,

E gavazzando de' miei calci al vento,

Me godrete impiccato? E vuoi ch'io scriva

 

Impazienza rivoluzionaria? Erano le giornate della cronaca torbida; quando, tra le memorie, ancora torride delle vittorie garibaldine, susurravasi di amori venali del principe a turbare la calma del parco brianteo; quando, le azzurre-bianche Guide ed i verdi-scarlatti Usseri di Piacenza, caricavano, caracollando in cospetto dei marmi istoriati della Cattedrale e ne scendevano, braveggiando, la scalea; quando Regìa e Lobbia, ed i fatti de' guardiacaccia di Tombolo e di Stupinigi irritavano la folla; quando, i migliori cittadini, perchè repubblicani, venivano a conoscere la Santa Margherita del Torresani croato, non d'altro rei che di franche e libere parole. Erano le giornate del Maggio 1870 in cui il sospetto per le congiure mazziniane spingeva i Savoia sulla via di Roma: quando Milano aspettava la bomba da esplodersi in Piazza della Scala per insorgere; ed il Galimberti, audacissimo dei Mille, andava rinfocolando le ire tra i commilitoni; quando s'accendevano, nelle notti del marzo, le brevi fiammate di Parma e di Pavia, alla Caserma di San Lino, senza suscitar l'incendio generale; e veniva, dopo lo scherno dell'attesa nell'anticamera ministeriale del Lanza, risposto ad Anna Pallavicino-Trivulzio - la quale a nome di quarantamila madri italiane chiedeva la grazia pel caporale Pietro Barsanti - ch'egli era stato proprio allora legalmente assassinato tra il muro e la fossa del Castello di Milano. Sacra inferie: di quel sangue Cavallotti raccoglieva le stille per altro battesimo tremendo sulla corona, al contrapasso:

 

«Prole di Giuda, prole di sicari; Sii maledetta

 

E le speranze si inacerbivano e l'ozio intristiva, e ne usciva le Scapigliatura. Acuire, ricopiando la vita e la letteratura di Rovani, aumentarsi nel giornalismo e nella vita pratica, che contrastava colle loro aspirazioni, non aver paura della verità, ironeggiare, bandire un Gazzettino Rosa ed una Cronaca Grigia; spensieratezza nei ritrovi, interruzioni aggressive e ribelli; la nostra Bohême.

Allora, finalmente, strozzato dalla agonia mortale che lo faceva irridere Giulio Pinchetti, dopo aver imprestato dell'Heine una sua beffarda disperazione:

- «Tengo45 serrato il core

Perchè ho in dispregio ognun,

Non credo più a nessun,

Credo al dolore.

Vita, fatal menzogna,

Che noi tentiam negar,

Ma che con presto andar

Creder bisogna;» -

 

si liberava; e, colli altri, Boito lo assegnava, nel tempo turgido di un funereo incarico di demenze e di morti:

 

«Torva46 è la Musa.... Per l'Italia nostra

Corse, levando impetuosi gridi,

Una pallida giostra

Di poeti suicidi.

Praga, cerca nel buio una bestemmia

Sublime e strana! E intanto muor sui rami

La sua ricca vendemmia

Di sogni e di ricami».

 

Ne pigiarono il mosto, con molte pretese e molti esclusivismi, ne' cenacoli racchiusi tra le cortine verdi di Via Vivajo, nell'Ortaglia, nell'Osteria del Polpetta, nelle ragunate del Conservatorio, peripateticamente, per Via della Passione, tra lo sfondo del Naviglio, limitato dalla balaustra tortile del palazzo Visconti di Modrone e il dorso del Bastione impennacchiato, tra le foglie palmate delli ippocastani, di panocchie di fiori rosei e bianchi, gendarmi vestiti in gala a guardia della città. In tanto cantavano:

 

«Siam47 tristi, Emilio, e da ogni salute

Messi in bando ambidue.

Ho perduto i miei sogni ad uno ad uno

Com'obolo di cieco;

un sogno d'oro, ahimè! un sogno bruno

Oggi, non ho più meco».

 

E trovarono il tempo e lo strazio più acuto di stordirsi. - Se tornerà a Milano Primo Levi, nei giorni più chiassosi di fiera, quando vi convenne Italia alla sua prima esposizione non se li dimenticherà; ne riparlava testè «Pei nuovi Cento Anni», eccitando Luca Beltrami a raccogliere le memorie, «a colmare48 le lacune, a rischiararne le ombre, a mettere in luce tutta la cara figura di quella Milano, la quale, per non essere ancora che una metropoli regionale, non era certo meno interessante della odierna mondiale città; che, per tanti titoli, merita l'ammirazione e la riconoscenza di tutta Italia». Ma,49 «allora, il dir di Cremona era un delitto e di Grandi un'infamia. La critica era un inno solo all'arte del Bertini e dei suoi seguaci, e, noi, poveretti, che osavamo protestare passavamo per pazzi, e, per poco, non per furfanti». Allora, per esporre le proprie idee, senza sottoporle ad una evidente amputazione, senza contravenire alla urbanità che imperava nelle gazzette - per - bene e gesuitiche, dove si raccomandava il luogo comune, per non irritare la pubblica melensaggine, era necessario fondare delle riviste eccezionali: Le Tre Arti. Erano uscite, con un primo numero di saggio nell'ottobre 1873 ed ultimo della serie; vi erano accorsi Primo Levi, Carlo Dossi, che parlava di Tranquillo Cremona e di Giuseppe Grandi alla esposizione di Belle Arti a Brera nell'anno 187350; venivano riassunte da Luigi Perelli. Il quale, fuggendo lo strazio per la morte della amatissima Elvira fidanzata, fidanzavasì, per sempre, alla amicizia, riversandosi, nella bontà verso altrui; adorando l'opera di Grandi e di Cremona, proteggeva Rovani pubblicandone La giovinezza di Giulio Cesare e la mente di Alessandro Manzoni: creandosi il re del Carnevalone Ambrosiano, promuoveva anfizionie di Maschere, verso Roma, ricongiunta, cuore d'Italia, rimesso a pulsare alacremente in petto alla Nazione; suscitava in fine, con Vespa e Borgomanero, il Rabadan, senza di cui non poteva essere settimana grassa milanese e non disinteressata piacevolezza, se, una volta l'anno, non compariva a frecciare, colla satira saporita del buon tempo, il costume e colla bosinada di circostanza a sora..., a cui non rifiutavasi la penna caustica di Carlo Dossi, emulo del Balestrieri. - Il  Carnevalone Ambrosiano che si ammorba ed agonizza, oggi, nel fango marzolino di Porta Genova sfolgorante, in quei , di scintillanti attualità argutissime! La satira apparecchiava, tra li altri carri mascherati, in quelli anni eponimi alla carnascialeria, un traino fantastico di una gran luna, dentro cui si entrava per la bocca spalancata e nel cui interno si vedevano dipinte le goccie di liquidi diversi osservate al microscopio: in quella del vino, erano rappresentati ad infusorii Perelli e Rovani, in quella dell'acqua, le teste dei più insipidi tra i milanesi, in quella dell'aceto i più rabbiosi gazzettieri, Bizzoni, Treves, Cavallotti, - in quella dell'orina, il marchese Villani. Luigi Perelli regnava assoluto sulle maschere: Perelli «che si incarica di volermi bene», come lo complimentava Rovani; il Perellino ed il Rovanino, perchè gli stava tutto il giorno alle costole, imitandolo nelle stranezze, e nell'amore intenso per l'arte, nella sottigliezza squisita del buon gusto: - Perelli il collaboratore nato e fabricato sopra misura, per intendersi e riplasmarsi cordialmente con l'autore di Ritratti umani.

«Non mai collaborazione letteraria fu più intima, più appassionata tra Perelli e me. Si era, allora, all'equatore della nostra amicizia e diciassettanni son scorsi», confessa l'altro nell'Etichetta al Campionario (1885). «Possedea, Gigi, tutto ciò di cui io mancava; bello aspetto, buon senso, pronta e smagliante parola, una audacia, che senza mai confondersi colla sfacciataggine, rovesciava d'assalto qualsiasi diffidenza, una onestà sovra tutto abbigliata di allegria, che quanti cuori toccava, avvinceva. In me, invece, il pensiero, benchè pigro e lambiccato, profondo, una ostinazione che mi rendeva capace, non solo di ideare un lavoro, ma di cominciarlo e, quel che è più di finirlo: oltraciò, molta malinconia, e, in utili dosi, cattiveria e mattia. Per servirmi di una metafora, che, a volta sua può veramente dirsi di zecca. Perelli era, ih quel tempo, la lega dei mio fino». - Insieme passavano le lunghe sere dell'inverno lombardo, così favorevole all'amicizia, in quelli anni tra 1866 e 1877: la cameretta tepida di Carlo Dossi li accoglieva, e, mentre questi aspettava accanto al camino, Tea, una sua cagnola fox-terrier, gli sedeva in grembo. Valicava il pensiero di lui, caprioleggiando, sopra le culmini di montagne rocciose, per poter offrire al veniente fiori di ghiaccio insospettati e rarissimo bottino d'alpinista-ideologo; «ma Gigi tardava troppo, e sotto al solleone della fantasia, il mazzetto si distillava e mutava in una fiala di essenze acutamente insopportabili. Finalmente, il suo passo franco si udiva. Tea si alzava di soprassalto squittendo di gioja ver lui. Carlo, assai meno umano di quella bestiola, lo accoglieva, di solito con asprezza. Prigioniero volontario di lui medesimo, indispettivasi, quasi, della sua libertà».

Povera Tea, cui donna Ida doveva invitare alla ciotola della zuppa mattiniera, colle sacramentali parole: «Panera doppia e pan frances», perchè ne mangiasse, ella restia; povera Tea, generosa gladiatrice uccisa dal suo coraggio, da un rospo avvelenato, che addentò a morte nel piccolo giardino di Roma; Tea che riposa al Dosso, sotto all'enorme cippo, troppo piccolo per il suo affetto animalesco, gigantesco per l'esile corpicino sepolto: «Tea, bianca, nera, nocciuola, - dodici anni vissuta con Alberto Pisani - modello di fedeltà - più che umana canina»; e l'edera delle rovine, della morte e della immortalità serpenta, abbruna ed insempra il bianco marmo della targhetta commemorativa.

Ma, per allora, a pena nata La Vita di Alberto Pisani, a pena ricomposto, nella sua fragranza d'amore, Il Regno dei Cieli, la solita borghesia fanullona ed arrivata dalle academie teneva il campo, a Milano, ed ingombrava colla alterigia, la supponenza e l'idrocefalia, l'elfantiasi congenita, l'esosità e la golosità esemplari; si che, il Gorini, il Cremona potevano essere decentemente nominati da quelli, Dossi vi aveva trovato mercè. I grossi bacalari, che facevan l'occhio pio alla prebenda governativa, aveano gridato, subito, al sacrilegio; si erano sbalorditi li stenografi delle frasi stereotipate dai trecentisti, o da Manzoni, i mendicanti de' riboboli fiorentini, i cucinatori di sdolcinature e graziette a fior di crusca di Val d'Arno; i compilatori di frasuccie lascive, scelte colte, de' gentilini pensierucci, delle facili ed elastiche riverenze, i puristi della lingua dotta, i modernisti della lingua parlata. Lo scandalo, in parte, perdura.

Ma, per allora, chi volesse dire ed essere qualche cosa di più, doveva passare - come oggi - alli occhi dei suoi coetanei e concittadini, un matto: i critici misero orginale: ma il matto, Carlo Dossi dice, è quel nome di cui si regala chiunque pensi diversamente di noi, quando ne sembra un po' più forte il chiamarlo o bestia, o birbante. Onde i matti si facevano da parte, si ricercavano in mutua compagnia; venivano al cenacolo sbarazzino del Polpetta, in mezzo alli orti ed ai giardini del palazzo Cìcogna; dove schiamazzavano intorno ai pantanelli artificiali, ancheggiando, le oche tarde e prepotenti, bagnate, tra il frascheggiare mobile delli alberi, di larghe goccie di sole come il pittore Carcano suadendo all'invito ritrasse in due tele ad emulare le celebre del Fortuny:  Le Jardin des Poétes. Pranzavasi a buon mercato, spesso, a credito, sotto la pergola densa d'estate, rumorosa di carambole, se le boccie, sulla terra battuta e compressa del giuoco, si urtavano schioccando. Praga vi portava la sua malinconia, la sua barba bionda, che gli invadeva le guance, li occhi azzurri sotto la fronte amplissima e sognatori, i capelli lunghi e ritti, le scede, le baje, la lestezza delle sue caricature; qualche volta, la domanda un poco ebra e fatua:

 

«Chi è,51 chi non è?

Oh povero me!...

Il prete lo giura,

Ma nulla io ne so;

Chi dice di sì, chi dice di no....

Gli è il coro dei matti che Adamo intonò

 

Giuseppe Grandi, tumido del trionfo del suo Beccarla, fremeva di orrore se Stambul, la cagnola di Giulio Uberti, l'avvicinava: - Giulio Uberti, poeta dimenticato, perpetuo innamorato settantenne a consumare il suo suicidio per una giovanetta quadrilustre ed allieva sua di declamazione, Miss Alice Lohr londinese, che lo amò dopo morto. Giulio Uberti, che appariva, tra li amici, col suo mezzo cilindro di felpa folta, el castor, inconcato a barchetta, imposto all'occipite perchè il tormentato e spazioso fronte di lui s'illuminasse al sole, la pipa corta e brunita, stretta fra le labra; - classico come il Cominazzi repubblicano della Fama, cantore con vena foscoliana delli eroi di repubblica, Tito Speri, Washington, Lincoln, delle Stagioni, dei Bardi profughi, dello Spartaco, e, se in oggi saputo o commentato, vergogna ai precocemente calvi bardassa, ai Merlin Coccaj della bambagia italiana: Giulio Uberti, cui

 

«....52 sul rugoso fronte non dome, L'ire fremevano dell'alma austera; Passò imprecando: sferzò: derise: Tutto è putredine! - disse.... e s'uccise».

 

Gignous, silenzioso ed immerso nell'arte sua, sembrava cabalasse, mentalmente, toni e tinte sino allora inediti: - Bernasconi, Tartarìn di politica, fanfaronava piacevolmente. - I tre Fontana si invitavano a vicenda alle ciarle. - Achille Cova arguto, li eccitava e li contrastava; - Giovanni Camerana magistrato, si abbandonava, senza sospetto alla rima macabra, come un Rollinat piemontese, per avviarsi anche esso al suicidio; - Ghislanzoni, ironico balbuziente, raccontava le sue innumeri prodezze, giornalista, librettista dei Promessi Sposi musicati dal Ponchielli, baritono, novelliere; - Ripamonti interrompeva la scultura per la poesia; dove non giungeva la stecca da modellare veniva la sua penna acuta a trafiggere; - Cesario Testa, che si firmava sopra L'Anticristo piemontese Belial, e che stava per farsi conoscere sotto il nome di Papiliunculus, riconosceva i suoi fratelli d'arte della Farfalla e li veniva a visitare: Cesario Testa, piccolo, bruno, nervoso, coltissimo, razionalista, naturalista, il ponte di passaggio tra la Scapigliatura milanese e la Scuola nova di Bologna; esulcerato dalle miserie della vita e pure travet laborioso, in perpetua bestemia contro il suo destino, cinico, pessimista e quindi romantico puro camuffato; intelligenza, brio, onestà, impiegato di poi alla Corte dei Conti ed alla Cronaca Bizantina, dove Angiolo Sommaruga ne abusava; Cesarlo Testa, anch'egli ricoperto di nebbie, di anni e d'oblio.

Vi traevano Carletto Borghi dalla gentile e precoce genialità, morto avanti la fama; - Ambrogio Bazzero, solitario erudito d'armerie milanesi e commosso novellatore di stesso in Storia di un'anima, il primo discepolo di Carlo Dossi con Riflesso azzurro, «bacio su di un fiore appassito, dedicato a Sofia e Maria, sue sorelle», pur esso di brevissima esistenza: - con loro si accompagnava Guido Pisani, scialaquatore della sua intelligenza, ucciso da una spina di rosa, fondatore col Borghi, il Bolaffio e i due Pozza, del Guerin Meschino; il quale porta tutt'ora per insegna il guerriero cavalcante,53 disegnato da Tranquillo Cremona e da Carlo Dossi, tra le maschere grottesche che ne fingono le lettere, donde si compita il suo titolo. Tranquillo Cremona, tornato dallo studio e dal lavoro, che lo compiaceva nel cortiletto del Conservatorio, - un chiostrino colonnato e suggestivo offertogli al pennello da Lauro Rossi, - se ne schivava; la sua gioconda ilarità scompagnavasi da quella di altrui.

In questo campo chiuso la Scapigliatura si avvicendava; l'arte viveva di speranze; tutti erano migliori di quanto non apparissero; ciascuno si foggiava un Lovelace, un Don Giovanni, un Werther. Qui, si eccitavano le ire intestine; ed il Dossi ascoltava ed annotava la boccacevole eloquenza dell'ideale dipintore dell'ambiguo Falconiere, quando, dimessa la pennellata, dosava la burla con lenta perfidia e maestria al padrone di casa. - Ospite interruttivo, Cletto Arrighi, vi appariva dal Teatro Milanese - ch'egli ricercherebbe invano di sul Corso, dove aveva tenuto il posto del Padiglione Cattaneo, sala da ballo per le ultime madaminn, dove, oggi, fa pompa un albergo cosmopolita di lucida eleganza: - Il Teatro Milanese, che gli aveva trasmesso Perelli fresco delle nobili comedie di carattere, banditi pagliacetti e istrione, riusciti quindi in fama e ricercate dalla salace frivolità del principe e dell'epoca; e dentro cui profondeva l'eredità di Bernardino Righetti, lo zio, amico d'infanzia e collega nelli amori facili di Manzoni, prima del suo millantato pietismo.

Qui, dunque, venivano a rifugiarsi tutti che volessero dire una parola propria e diversa, che dovessero difendersi dalli attentati della borghesia milanese: qui, li artisti frapponevano ostacoli, bastioni e fossati, per non patirne il contatto, per non udire il riso di scherno contro li insuperabili e delicatissimi Cugini; per non confondersi coi bestemiatori della plastica vigorosa, psicologica e comacina del Grandi; per non avvalorare li errori delli orecchianti della letteratura di Rovani, della poesia del Tarchetti e del Praga. Da qui, fuggivano tutti li altri: però che scioccamente i rimescolatori dei dizionarii, i passeggiatori di biblioteche e di musei, li ineffabili impostori delle Academie se ne vantavano; e non accorgevano di diminuirsi, privandosi del lievito proficuo e prolifico della genialità, che lasciavan da parte, non vergognandosi del resto delle loro attitudini basse e sconvenienti che domandavano all'arte, cioè il loro fine, con Nana di Parigi, od a Milano, alias Emma Ivon, pruriginosa di memorie inedite e di aulici quadri plastici, a mezze tinte, tra la seppia e l'ocra gialla; - coefficienti all'onanismo ginnasiale, quando la piaggieria al naturalismo divenne di moda e servì, all'artista, per aver commissioni dal bottegaio arricchito, ed, a questo, di vantarsela da conoscitore.

Di , da questi giardini, da queste officine secrete di motti salaci, di poesie d'occasione, di caricature, la corrente irrefrenata della attività estetica e giovanile si disperdeva per Milano; l'innerbava, la divertiva, la faceva pensare. Estuava per le ragunate della Famiglia Artistica e della Patriottica, dove si decidevano le mostre del Museo Birbonico, tenute nei palazzi di Piazza Mercanti, e le recite del Carro di Tespi; si immetteva nei crocchi, sotto la pergola della Noce, un'osteria fuori Porta Ticinese, governata regalmente dall'astuta e simpatica Sora Luisa, mentre el Vittorel Pizzini mesceva, alli illustri aventori, Gattinara squisitissimo ed annoso: - 54 «ora, non c'è più: l'onorevole Depretis travolse il Gattinara nel tinoso baratro della Società enologica stradellina e gli fece fare la fine medesima del parlamentarismo in Italia». - Ma lo aveva cantato con ditirambi bacchilidiani ed inediti Odoardo Canetta, garibaldino e studente in perpetua candidatura sulla laurea di medicina, biondo Adone di gentilezza milanese, autore innominato e truffato di una esilarantissima comediola «On vioron in dazi»; e, prima, adolescente coraggiosissimo industrioso, con mio padre, di scede e di atroci burle ai pollin, i gendarmi austriaci: ma quel trilustre Gattinara lo aveva bevuto pur Rovani battezzandolo «Sangu de rana», quando, commensale gratuito ed abitudinario alla Noce, vi teneva scuola di arguzia, insegnando al Magni, che fiancheggiava allegramente grignolino co' suoi allievi, la metamorfosi di un San Paolo in Socrate: «Schiscegh el nas» - e Socrate riusciva indicativo, - rimproverargli il monumento eretto a Leonardo da Vinci in Piazza della Scala «on litter in quatter».

Supporava il barzelettare del giorno, sul Corso, davanti all'Hagy, istituzione e ricordo primo-consolare, liquorista di secreti profumi ed essenze, venuto dall'Egitto coi Mamelucchi al seguito di Napoleone. E si ponevano in bacheca, paracarri dell'eleganza maschile, i professionisti del Dandysmo - Barbey d'Aurevilìy forse loro istitutore - stato-maggiore della gazzetteria, a dettagliare le bellezze e li abiti feminili delle passanti, a malignare sui nomi, le virtù palesi e nascoste, le abitudini intime, i compromessi coll'essere e il parere. - Sgargiavano le cravatte rosse ed il taglio inglese dei pantaloni di Fabrizio Galli, - baffi alla moschettiera; il Coq, nome porpureo che lo indicava nelle sue caratteristiche morali e sessuali, pronto ad accorrere a richieste del Gaetanino, Genius loci del Gazzettino Rosa, il Monitor catrafatto e cannoneggiante della repubblica lombarda, quando, per mancanza di redazione tutta sotto chiave, lui solo ed il Pessimista rabberciavano il giornale: - stonava, coi bei giorni di sole, che ingiojellava il marciapiede primaverile, l'indivisibile parapioggia del Pozzoli, cantastorie di intrighi principeschi sempre rinnovati, sempre venali e complicati. - Propalava secreti la gajezza rumorosa ed alla vendetta dell'avv. Cario Besozzi, amico di tutti e di tutte, confidente universale, peroratore delle cause de' generosi e delle generose e de' pianti dei cuori in pena, preziosissimo giovane Figaro in frak ed in toga, disputato per l'occasione e per amicizia speciale, pacere dilettante e viaggiatore patetico per li amori eleganti delle spumose ed inquiete bellezze del Teatro Milanese, sensale anche di convegni e del resto, al dire della maldicenza interessata e lurida di Davide Besana. - Il quale, volto piatto ed addormentato, protestandosi sordo, ma le orecchie all'agguato e tese come quelle di un lepre in sospetto, Giuda Iscariota a buon mercato, rimessosi tra i sovversivi vi praticava caccia e pesca grossa e minuta a profitto della polizia politica ed immagazzinava notizie e documenti pe' suoi libelli: Re Quan Quan e la sua corte, Sommaruga occulto e Sommaruga palese, di cui fu il sicario prezzolato per ricatti di letteratura alimentare: Davide Besana55 riconosciuto testè come vecchia pratica del Codice penale e che viveva, scrivendo per commissione, nell'aria umida milanese, necrologie, epitalami, contratti di nozze, precarii, citazioni, ricorsi di macellari contro la ricchezza mobile e denuncie anonime in blocco, mentre poneva mani, piedi e malvagità a difendere stesso, calunniando coloro che lo accusavano di facili e questurineschi abbandoni.

Si erano aperte altresì, un po' più verso il Duomo e da poco, li splendidi battenti della Giulia e della sua buvette; un esercizio promiscuo tra il bar americano e la fiaschetteria, dove li avventori si trovavano in dovere d'essere innamorati della padrona, o corteggiatori, o favoriti, o protettori, rimanendo essa, che vantava il suicidio del marito e una mezza dozzina d'amanti rovinati, sotto il nominativo di Angelo Sommaruga; il quale non uscì di famiglia se, a Roma, si condusse, per lo stesso motivo, la sorella di lei, la celebre e ricantata, in sulla Cronaca Bizantina da Papiliunculus; Una Tigre, Adele. Dalla Giulia si era festeggiato l'esodo della Farfalla da Cagliari a Milano in lietissimo simposio; vi aveva brindato Francesco Giarelli, giornalista di razza, ripieno di enciclopedìa, signore di uno stile limpido e scintillante, il gnomo Francesco Giarelli, se credete al Besana, mentore, consigliere, ispiratore e dissanguatore del Sommaruga. E si erano accese dispute di eleganza e di bellezza tra la Giulia e la Ivon, che se la vedeva in faccia troneggiare regalmente, uscendo dal Teatro Milanese; rivalità tra la Caffettiera e l'Attrice per maggior leggiadria e minore età: che i maschi venivano a parteggiare e parteggiarono i giornali.

Ma, indifferentemente, se si diceva che li attori del Teatro Milanese solevano pagare una cena di trenta soldi a' critici affamati e parassiti, perchè li elogiassero smaniosamente, - e la voce si propalava dalla Giulia - pure, dinanzi ai vetri della buvette, intermessa una sosta all'Hagy, si mostravano i pantaloni a quadri bianchi, gialli e neri del Giraud, - il volto glabro e clericale del Ferravilla, Beltramo e Meneghino decaduto, - la figura romantica e allampanata dello Sbodio.

Costanti e fedeli ai veleni certosini ed inglesi tornavano, in sull'ora delli aperitivi, a completare lo stuolo, l'eterno giovane Carissimi, la cavalleresca prestanza del Missori, - la gioventù repubblicana e spadaccina, la letteratura scapigliata e garibaldina del perduto Bizzoni, bello Achille d'imprese eroiche ed erotiche, il Re Quan Quan: e la critica intransigente spumeggiava, spigliata, libera, aggressiva, aiutata dai fumi dell'Absinth opalizzato e scorso, a gocciole lenti nell'acqua, Musa verde potabile, eccitata dai fomenti ricomposti dello Scotum e dai Vermouth di Torino.

I lambiccatori delle quotidiane maldicenze decantavano i loro prodotti alcoolici, le loro ultime trovate: appostillavano i quadri del Bertini, così: «el can fa de bagai, el bagai fa de can» - ribattezzavano Malacchia De Cristoforis «Don Malacofolis de Cristiania» - davano la prosopopea del Vanzo, un pittore, che, con Luigi Conconi, cresceva in fama «on Garibaldi mojàa in la carbonina»; ripetevano i pensieri detti ad alta voce dai maggiori. Facevano sapere, che ormai, Alessandro Manzoni non tutta mettesse la morale nella sua Morale Cattolica, che andasse sfollandosi da casa Cantù, i suoi acoliti e Tommaseo, cui mandava a riferire: «Basta con lu, che el ga un in sacristia e l'alter in casin!» Che, a chi gli chiedeva come mai, avendo fatto dei libri così buoni, avesse pur fatto dei figlibirbi, rispondeva: «I liber i ho faa col , i bagai col c....»: - che per farsi scusare le spesse frecciate contro le cose del giorno, soleva aggiungervi la prudenza di questa barzelletta: «Però, podi vess come quella veggetta del Mont Cenis, che in del '59 la trovava che i Frances, che vegniven giò, allora, in Italia, no eren pu quii Frances inscì gentil d'ona volta, al temp de Napoleon. Forse, me par ch'el mond el peggiora, perchè peggiori mi». Ed oscure calunnie propalavansi ad imputargli costumi testè venuti di moda al seguito dal Kaiser germanico, essendosi egli, in prima gioventù compiaciuto di libero poetare erotico; velenose malizie, suscitate dal fango delli spurghi gazzettieri.

Rammentava invece, versi, strofe e poemetti inediti, che erano passati tra le mani di molti, ed a firma manzoniana, prestissimo, del resto soppressi e non controfirmati dalla preveggenza meticolosa dell'innajuolo sacro, la memoria prodigiosa tenace e birichina del Rovani. Il quale, lodando e biasimando si valeva di citazioni, che, in bocca sua, erano formidabili armi di offesa e di difesa; ed, a proposito del Monti, ripeteva l'epigramma del Manzoni fatto dimenticare:

 

«Un vate di gran lode,

Sul principio di un'ode,

Rimpiange il fior gentile

Del suo membro virile;

E, mentre ognun si aspetta

Ch'egli invochi Paletta

O qualcuno dell'arte,

Inneggia a Buonaparte

 

Perchè, dove Giuseppe Rovani sfoggiava il suo eloquio spumeggiante e capriccioso era appunto all'Hagy, el racanatt di sciori. Il Ghislanzoni ve lo aveva descritto nel suo tempo migliore, in una improvvisata antologia, cui il romanziere di Lamberto Matatesta fingeva di declamare:

 

«In riva del Naviglio

Io nacqui e trassi i ;

Il soldo d'applicato

Consumo nell'Hagy.

 

Quando i ronzini trottano

E il carro non traballa

Può rimanere in stalla

Il nobile corsier.

 

La storia dei Cent'anni

Ad intervalli scrivo;

Se un altro secol vivo

La leggerete un

 

già che questa usciva, saltuariamente, in appendice, sulla Gazzetta di Milano: el prâa de marscida, la sua coltivazione reddittuaria, però che la letteratura pura lo mandava in rovina ed il giornalismo lo faceva vivere, senza lasciargli possibilità di pagare i molti debiti. «Io nacqui indebitato; se la bolletta fosse un violino, io sarei un Paganini», soleva ripetere: e pur morì in Milano, la patria de' suoi creditori, il 26 gennaio del 1874, nella Casa di Salute di Porta Nuova, trasportatovi dall'Albergo del Gallo il di Natale dell'anno prima: e morì creditore esigentissimo di gloria, che tuttora cercano negargli, lasciando alla moglie dispensiere otto capi di vestiario e due fazzoletti bianchi da naso.

Ma, in sulla porta dell'Hagy, conveniva udirlo negli anni fecondi e gagliardi. Martellava una inesauribile zecca di epigrammi a battuta sonante d'arguzia. Corruscavano monete d'oro e d'argento, già mai di rame, al sole artificiale e ringiovanito dai vapori dell'alcool - el so giovin de studi -; insospettati modi di dire svuotavano le viscere scoperte di ipogee miniere ricchissime di storia, d'arte, d'indiscrezioni. - La vista di una passante, di una conoscenza, di un nemico, di un amico eccitava in lui la piacevolezza alla ventura.

Diceva del Sacchi bibliotecario, che camminava col muso per aria mezzo assonnato, muovendo le labra come biascicasse castagne. «El par un baco ch'el tenta de fa la galetta, ma la ghe reussis no». Della moglie di Cletto Arrighi, che poverina, non si sgravava che di cadaverini: «Ona Mojascia ambulante». - Ad un vedovo che si era riammogliato: «indegno d'aver perduta la prima». - -Chiamava una cantante enormemente grassa, ma bella: «il naufragio dell'estetica». Espettorava la quintessenza delli insulti contro il Filippi, che fu tra i primi, critico della Perseveranza, a bandire l'opera di Wagner contro i rossiniani, dei quali Rovani era il massimo sostenitore; e fulminava Pezzini, comproprietario della Gazzetta di Milano, deforme e libidinoso, assicurandogli che «lo avrebbe migliorato con un pugno» - Ad un suo sozio attestava: «Molti migliori di te hanno salito la forca: ma tu la disonoreresti».

Se avvisava Giulio Carcano, lo sciapo traduttore di Shakespeare e lo stucchevole manzoniano, claudicante: «In tant temp che l'è a sto mond e con tanta inclinazion ch'el ga in quella gamba , l'è sta mai capace de diventà nan». - Ed a Paolo Ferrari, che gli confessava d'aver letto molti libri prima di comporre La Satira e Parini, rispondeva: «Ch'el guarda che l'han mal informàa». - A Cantù faceva sapere: «Aveva egli otto anni ed era già un asino»; appajandosi a Mommsen che lo tacciò di ciarlatano; - a D'Azeglio, venuto in sulle bocche di tutti coll'Ettore Fieramosca: «L'è un gener de Manzon». Se riconosceva un galantuomo a passare, criticamente osservava: «On bon galantomm el dev semper avegh un fond cattivissim»: se ammirava una bellezza giovane e procace: «Speri che la vegnarà bonna per tutti»; se un acuto profumo di muschio gli pungeva le nari e scorgeva la biscia che lo emanava, una cantante ex-cocotte: «Adess la cerca in de l'arte quel che no po dag pu la natura». Eccitava i giovani a gesta erotiche, citando Orazio ed Ovidio, l'esempio turrito ed inalberato pagano che si conserva nel Museo secreto di Napoli, illustrato dalla prolifica divisa «Sator Mundi», seminatore dell'universo, proponendo loro il caso di una famosa editrice di musica, el granatiere di Slesia. Ma, invitato si schivava dal confessare la sua età, desiderando farsi credere più giovane, mentre, spregiudicato e razionalista, aveva conservato la superstizione del Venerdì e del Tredici.

A Garibaldi inchinò, ed incondizionatamente tutta la sua ammirazione: «Un grande uomo; avrebbe potuto essere un altro Cesare, o un altro Napoleone; ma ghe mancaa la vena del loder». Il che, udendo, un giorno, Cremona affermò: «A ogni frase ch'el dis el ghe mett su la sabbia»: la scolpiva, in fatti, nel marmo e la fondeva in bronzo, se, venutogli presso Carlo Dossi, ne preparava una futura Rovaniana. - Artisti letterati, follajuoli gli si affollavano in torno, racimolandogli giudizii sul momento, briciole di conversazioni e di aneddoti pepati sul libro a pena uscito, sul quadro in voga, sulla comedia e sull'opera datesi la sera prima; egli disperdeva le sue ricchezze ai più solleciti, si curava di serbarsele; se ne impinzava il Perelli, el me fioeu, cui dedicava un suo volume: «In segno d'amicizia che non si trova in commercio». - Quindici giorni prima di morire, Giuseppe Rovani lamentava: «Gran brutt segn; go voueja de lavorà!».

Ora, non più: Carlo Dossi e Primo Levi non riconoscono il loro paesaggio: «se ancora tutta una interessante56 fantasmagoria ti assedia il pensiero, e i dolori e le gioie, le speranze, le delusioni dell'arte e dell'amore, la giovanezza fidente e la stanca maturità, la ricchezza e la miseria, la gloria e la oscurità ci passano dinanzi per dirti che questa è la vita». - Via Vivaio, Via Borghetto, Via Rossini, si sono fabricate, si spiegano sulle ortaglie, i giardini; l'Osteria del Polpetta lasciò piazza libera. La città divora; le ombre dei platani centenari, delli ippocastani, che si confondevano con l'altre dei Bastioni, furono racchiuse e limitate in alti muri. L'industria conquistò le strade erbose e suburbane, le cascine, i prati irrigui; ricoperse di cripte i mille rivoli, un , protetti dai pioppi capitozzati e dai salici educati per vincigli, fugando l'arte e la natura, sempre più lontano. Stendhal, oggi, a Milano, non sentirebbe più odorare la Felicità, ma il loppo del carbon fossile: il Milanese è a tutto indifferente che non sia machina, scambio, operai, cambiali. - Irrequieta, disperata, esasperata la Scapigliatura volse al suicidio, o si immise nelle comode strade burocratiche, al soldo del governo; perchè dicono i saggi ed i pratici, - ed io lo credo volentieri - la letteratura conduce a tutto -; quand'anche a me, con licenza, poeta, procacci ogni giorno un odio nuovo, chiegga maggiori sacrificii liberamente esercitati, e mi divorerebbe la borsa e la mente se di quella non fossi, per prudentissima necessità, parsimonioso, di questa inutilmente ricchissimo.

Comunque, di Crispi, saggiatore arguto d'uomini, pescò i migliori suoi amici ed i suoi più sicuri collaboratori. Scapigliatura, Bohème: «vi troverete dentro delli scrittori, dei diplomatici capaci di rovesciare i progetti della Russia, delli amministratori, dei generali, dei giornalisti, delli artisti. Tutti i generi di capacità vi si rappresentano; è un microcosmoRicordate la definizione di Balzac in Un Prince de la Bohème? Di Balzac, buon ospite milanese, che si ora deliziato dell'aria fresca e del bel verde del giardino di Casa Porcìa «sul Corso57 di Porta Orientale, dieci case più in della contessa Bolognini», cui dedicò Une fille d'Eve; mentre a Clara Maffei, destinò La Fausse maîtresse, Les Employés alla Sanseverina, al conte Porcìa, Splendeur et misère des Courtisanes, allo scultore Pettinati, La Vengence?

, lo aveva trovato Giovanni Raiberti, nell'estate del 1838, a tener conferenze ed esperimenti di magnetismo, vantandosi egli espertissimo in quella pratica e convinto mesmeriano; e, , un gobbetto, che il medico milanese gli aveva apprestato a burla, «gobbo58 davanti e di dietro, e bistorto in modo che al suo confronto il francese Mayeux è un Apollo» il sor Gattino astutissimo, gli scroccò parecchi luigi, fingendo il sonno ipnotico e millantando la soperchieria in una scena comicissima, in cui il dialogo francese-meneghino raccontato dal Raiberti, aggiunge alle risa la satira: Balzac furoreggiava: «Il y a quelque chose de maladroit dans ce sacré bossu!». E l'esperienza non gli riusciva; e il nano ghignava ed intascava.

La rete, immessa con larghezza d'intenzioni, nel mare magnum di Scapigliatura, non riuscì mai leggera; triglie e squali accorsero. Insediati, tranquilli, con sicure promesse, e fattive speranze di sinecure pel domani, i ribelli di ieri ci riguardano, additandoci l'ora del prossimo accondiscendere, piegando alla loro esperienza, che sarà, forse, la nostra; ma noi, oggi, squassando un'altra volta le nostre pregiudiziali sopra ogni argomento, tra le voci del volgo, udiamo anche la loro che:

 

«.... urla a noi, tra le risate pazze:

«Arte dell'avvenire?!»59

 

Fino a quando? Trapassati Praga e Boito e Camerana, la critica di Cameroni insediata in un momento storico, la scultura del Magni dimenticata con tutti quelli che non hanno potuto dire tutta la loro verità; in funzione, Cremona, il grande, Dossi, Rovani, perchè non hanno avuto paura di essere disconosciuti anche dai loro contemporanei, non si dispersero, quindi non vennero sommersi dalla evoluzione, ma l'ajutarono. Questa continuità rispetta la costanza ed ha ragione sopra tutto che temendo il futuro, dimostra la propria debolezza. Dai cofanetti de' ricordi, leviamo viole essicate e suscitiamo anime di profumi trapassati colle ciarpe e le sete di un tempo. Scioriniamo queste ricchezze al sole. Il sole, oh, come accarezza i cimelii smunti e flosci teneramente, oh, come ci ride in faccia; e, sulla via rumorosa di opere e di passanti, ecco, romba e rulla e stride e scampanella il giallo carrozzone elettrico, meteora, tra la modernità dei palazzi. Non tutto il nuovo è bello; ma non sempre Mefistofele, innamorato del passato, ha ragione di ghignare la sua negazione; sopra queste assisi è il processo estetico di Carlo Dossi; dond'egli è rimasto, senza aver stretto il patto col Dimonio, anzi a suo marcio dispetto, tuttora giovane.


 

 

 




28 Carlo Dossi, Elvira, elegia.



29 Carlo Dossi, Elvira, elegia.



30 Note azzurre inedite.



31 Libro dei Versi. Case Nuove, 1866.



32 E. Praga, Penombre, Imbiancatura.



33 Lettere di G. Pinchetti a N. Sardi, Como 11 ottobre 1866.



34 Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 20 aprile 1867.



35 Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 22 marzo 1868.



36 E. Praga, Penombre, Preludio.



37 G. Mazzini, Pensieri sui Poeti del secolo XIX.



38 Lettera di G. Pinchetti a N. Sardi, Como, 11 ottobre 1866.



39 Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.



40 E. Praga, Tavolozza, Larve Eleganti.



41 Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.



42 Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.



43 Vita di Alberto Pisani, Capitolo VI.



44 Dopo Custoza.



45 Versi.



46 Il Libro dei Versi, A Giovanni Camerana.



47 A. Boito, Il Libro dei Versi, Ad Emilio Praga.



48 Corriere della Sera, 3 dicembre 1908, Pei nuovi Cento Anni



49 Primo Levi, L'Italia a Milano 1882.



50 Articolo raccolto in «Fricassea Critica» di Carlo Dossi.



51 Penombre, Notte di Carnevale.



52 Felice Cavallotti, Tre Ritratti.



53 Vedi la lettera che l'accompagnava ed il rammarico di non possederlo più in Fricassea critica.



54 Dossi e Perelli, Campionario, Il pianto della vedova.



55 Besana, Sommaruga occulto e Sommaruga palese, RomaG. Brocca, 1885.



56 Primo Levi, Per i «Nuovi Cento Anni»



57 H. Balzac. Lettre à M.me Hanzka



58 L'uomo grande ed il nano. Appendice all'opuscolo: «Il Volgo  e la Medicina», altro discorso popolare.



59 A. Boito, Il libro dei Versi, a Emilio Praga.






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