VIII.
PERORAZIONE
Quante volte i miei giovani amici di acerba baldanza inuzzoliti, o
le mie vecchie pratiche riumiliate dalla grossa, matura, anzi fradicia
esperienza, tutti seminatori e mietitori del campo letterario italiano, per
sfuggire al tedio piovorno di una giornata ottobrina, in villa, si saranno
appressati alla libreria della casa d'affitto, per cercarvi dimenticanza in
qualche volume, compagno nella noja, dell'uggia di quella morbida insistenza! -
Tomi scompagnati sopra i palchetti del mobile: vengono di lontano e da venture
curiose la storia delle quali sarebbe interessante raccontare - non oggi, però.
Sono le briciole disperse del manzonianesimo di moda, un dì; quelle, raccolte
con ammirazione nelle case pò bene dalle famiglie, che un giorno, laute di
palazzi a Milano, di palazzine sul lago, oggi lamentano e li uni e le altre
colle ipoteche ad esorbitare la spina del tetto, traendone profitto, quando non
abbiano venduto, delli appartamenti, in città, delle delizie, in campagna.
E però vi troveremo alla rinfusa Carcano, Mauri, Bazzoni, Pier
Ambrogio Curti, Ignazio Cantù ed il Cesare suo fratel degno, poligrafo
ed impudente ricopiatore delli strafalcioni altrui, Bersezio, Guerzoni,
Balbiani, la Pezzi, un Visconti-Venosta, il Grossi, che si trova a disagio in
quella impropria compagnia, già mai Carlo Dossi. Vedetene la serqua mezzo
sudicia, mezzo limpida, mezzo ironica, mezzo storica, mezzo fantastica, mezzo
niente; la romanticheria sfiancata de' risciacquatori, delli intruglioni, delli
imitatori, di tutta questa gente per noi illeggibile; si che que' giovani e
que' vecchi, sospirando e gettando i libri a fascio, vorranno concludere col
dire, che, finalmente, anche per le giornate di pioggia di nebbia e di vento in
Francia, da Zola e da Leconte de l'Isle venne morto e sepolto il romanticismo
come, in Italia, dal Verga e dal Carducci.
Si disingannino: il romanticismo, sotto altri aspetti, sotto il
reale aspetto che ha pur assunto la letteratura internazionale, nè Zola, nè
Carducci poterono abbattere: si trasformò, ed è difetto di vista corta e di
cervelli ingombri da categorie tedesche non vederlo operoso ed operante, sotto
altri nomi: si rifugiò testè evidentemente, nel futurismo; il quale
ricopia le abberrazioni victorhughiane; e Manzoni, l'essenza non la vernice
manzoniana, si agita ancora robusto tra noi, lasciati da parte li scoli, o
profumati, o nauseabondi di Edmondo De Amicis e del Fogazzaro.
Il romanticismo fu una prolifica foresta fiorita; si abbarbicò, si
espanse, si riprodusse vicino le nostre città. La sua insistenza è
meravigliosa; ha immesso barbette e radici, muffe, virgulti, pennacchi di
corolle anche sui prossimi muri delle fabriche de' prodotti chimici, delle
facciate di legno e di mota delle Esposizioni Universali, in sul
frontispizio dei libri, nelle librerie della réclame. Il romanticismo,
bosco vergine di miracolose proprietà, viaggia viridamente come la fascinata
shakespeariana, che mosse alla conquista del castello di MacBeth, profezia di
streghe ed inganno di guerra di Malcom, vendicatore di suo padre, Duncan,
spodestato re di Scozia.
Passeggiamoci dentro, adunque, per viali, sentieri, spianate,
prati a pendio, colonnati d'abbazie gotiche, basse navate frondeggianti
romaniche e massiccie; dimentichiamoci a raccorre ghiande, castagne, noci,
ranuncoli, eriche, ellere, licheni, sopra i massi sporgenti a fior di muschio,
aconiti, digitali, margherite, pamporcini e sassifraghe: poi, tra i fiori noti,
le erbe conosciute, i virgulti comuni, troveremo il raro, l'inedito, il non
saputo prima, la meraviglia. Così usa Gautier pe' suoi Grottesques; egli
è buon maestro botanico e dobbiamo imitarlo.
V'imbatterete, per ragion logica, in Carlo Dossi. - Lucido,
poderoso, solenne, aveva frondeggiato un abete di perennità fruttuosa, che
sorpassava dalle cime le betulle e le quercie, per quanto rigogliose, più basse
e non sempre verdi: Giuseppe Rovani. Raccolta all'ombra sua, nutrita dello
stesso suolo, un'altra pianta, specialissima, privilegiata di fiori e di frutti
profumati e saporosi in modo insolito, dipinti di novissimi colori: Carlo
Dossi. Verzicò, si espanse; oltrepassò erbe, virgulti, alberi, distese le sue
rame, ne coperse la foresta e sott'intristirono per vecchiaia e per caducità
betulle e quercie; morirono, tornarono in polvere vegetale a confondersi colla
terra, spore per altre vegetazioni: la pianta rara, snella, schietta, a canto
dell'abete, a suo paragone, ecco, a resister per altro e più acuto clima
d'arte; anzi, per sua virtù, a rimutarsi intorno atmosfera, per ricomporre alle
sue radici, humus adatto alla propria coltura e propagazione. - Dond'egli, che
non lo ignora, ins'tituisce la sua trimurti: Manzoni, Rovani, Dossi.
Se la sua ammirazione è per il primo, il suo grande amore per
l'altro: anzi il suo affetto, qualche volta, lo sostituisce nella preeminenza e
può dirci che fu più grande perchè più infelice, più schietto perchè meno sospettoso
e più deliberato. «Rovani158 portò, in vita, la pena della sua troppa
sincerità; Manzoni, invece, dando sempre ragione al lettore, finì col
convincerlo del proprio torto: e, se Manzoni riuscì a farsi applaudire, facendo
diversamente del comune, parve facesse lo stesso; mentre Dossi si fece odiare,
perchè, parlando come la folla, parve esprimersi diverso. - Manzoni dice le
cose sue come il lettore vuole; Rovani come non vuole il lettore; Dossi parla
per proprio conto. - Manzoni dissimula il non credere; Rovani simula di
credere; Dossi, credendo, non crede. Manzoni cambia le carte in mano al
lettore; Rovani gliele strappa; Dossi confonde il giuoco. - Manzoni vuole che
il bene si faccia per paura di un male; Rovani per necessità; Dossi per utilità.
Donde Manzoni par credere all'altra vita; Rovani non crede nè in questa nè in
quella; Dossi pur crede in codesta. - Il noi di Manzoni vale io e
il lettore; il noi di Rovani io e non io (che vi stanno
per due) - l'io del Dossi vale l'io solo. In altre parole: il
primo si industria ad insinuare in altrui la propria opinione; il secondo la
impone; il terzo la tiene per sè. - La naïveté, l'ingenuità della
letteratura antichissima c'ispira quella riverenza che c'ispirano i bimbi; la pauvreté
della nuova quel disprezzo che si ha per un uomo che faccia bambinerie. E pure
Manzoni ritenne l'apparenza della ingenuità, mentre Rovani se ne spogliò:
quindi Manzoni riuscì un malizioso doppio, non volendo parere un semplice. -
Manzoni è la vendemmia della nuova letteratura fatta coll'uva di Alfieri, di
Parini, di Foscolo; Rovani il torchiatico; Dossi la grappa». -
«Lambicchiamone159, dunque in buon'ora; ci servirà di sole invernata e,
riscaldate da essa, le generazioni prepareranno, con impulso gagliardo, il
terreno ed i tralci per le vendemmie future». Distilleria della quintessenza!
«Delle letterarie stagioni dell'ultimo secolo, Manzoni è la primavera, Rovani
l'estate, Dossi l'autunno»; per ciò, «Rovani160 è il continuatore
logico di Manzoni come Dossi è di Rovani. Rovani ha esagerato Manzoni, mentre
gli altri lo impicciolirono; Carcano, per esempio, colla cortezza della sua
vista, non comprese che la maggior innovazione del Maestro era custodita nel
suo midollo umoristico, e si limitò a copiare le forme esteriori dei caratteri
e dell'insieme. Manzoni, umorista, è scettico: in un libro di umorismo il
protagonista è sempre l'autore; non lo si può perder mai di vista, essendone il
principale interessato». Breve, rapido, Carlo Dossi postilla a maggior
chiarezza la sua estetica genealogia; ce la lega e senz'altro, ce la impone.
Perchè un'altra volta vi si osserva quella continuità, che le pigre
speculazioni dei necrofori letterarii trascurano, e se ne indicano i gradi; le
pietre miliari di una letteratura nazionale disponendosi a diverse distanze
l'una dall'altra lungo la medesima direttiva della strada maestra, per cui
processionano i trionfi e le rogazioni del popolo; il quale si ricorda ed
enumera il tempo trascorso e le conquiste assodate, leggendone sopra i maggiori
nomi scolpiti.
Tanto, in fatti, nella sostanza della serie estetica, identici
riescono ad essere i Miti pagani e stoici del Foscolo, come le Maschere
cattoliche del Manzoni, i Personaggi storici del Rovani, come le Allegorie
filosofiche del Leopardi, le Divinità gogliardiche e civili del
Carducci, come le Creature humoristiche, i Tipi ambigui, le Rappresentazioni
satiriche di Carlo Dossi. Nella diversità delle espressioni, si conserva il
motivo fondamentale di una necessità nazionale progrediente. Tali figurazioni
hanno una medesima origine soggettiva, e per questo si sono esteriorizzate
oppostamente: ciascun poeta ha scoperto nel suo mondo nuovo, creatogli dalla
sua sensibilità e dalla sua volontà, e nell'uomo foggiato a sua imagine, queste
varie espressioni, queste certezze intime, cui rende universali, regalandole di
organi, di movimento e di possibilità generativa. Tutte sono verità, nè si
negano reciprocamente; quand'anche si contradicano, non si annullano; si
inanellano, invece, conseguentemente, determinando, con maggior precisione, or
l'una or l'altra delle faccie del poliedro della vita multiforme e segreta, con
più delicato disegno, in una luce più propizia e più intensa. Riuscito Carlo
Dossi dalla astrusa e dedalea arteria collaterale di Don Alessandro, scaturì in
un tipo personale; ha costituito un altro anello della catena genetica
letteraria, per cui il dimenticarlo, od il trascurarlo, importa una reale
oscurità ed una lacuna nello studio delle lettere nostre.
Pure, la pigrizia, la burbanza, la vanità, le confusioni,
attributi d'ogni e qualunque giornalismo affrettato, lo lasciarono da parte. E
quando Domenico Gnoli, vecchio bibliotecario, considerava poco fa: «si è
staccato il gancio che congiungeva l'arte nostra alla vita nazionale, l'anello
che continuava la tradizione» errava, perchè non aveva posto mente al caso
Dossi. Oggi, si incomincia a scorgere qua e là interrottivamente la sua
influenza; noi riconosciamo in lui un nostro proprio esponente, perchè tutto in
lui è rimasto italiano, anzi, lombardo nella forma, nel modo, nel tono di
comprendere la vita e di renderla. Per ciò, a lui ricongiunto, col cordone
ombelicale della artistica figliazione, il fare italiano permane anche
in quanto si vuol chiamare impropriamente simbolismo (di cui fu uno de'
più completi assertori, prima che l'etichetta scolastica venisse stampata;
perchè prima la cosa quindi il nome, non viceversa): e chi volle far
credere l'opposto, abusò della ignoranza altrui adulandola, pompeggiando della
propria, che non aveva saputo suggerirgli il nome dell'autore di Colonia
Felice. Ma non più: costoro devono riconoscere in noi, quei sintomi di cui
egli è pur affetto, in nulla affatto forestieri; vizii o doti distintissimi di
fragrante italianità.
Carlo Dossi, più vivo che mai, dopo l'aulica presentazione di sè
stesso, nel salone dell'avi, si fa a noi famigliare; vi prende per mano, vi fa
entrare nell'appartamento intimo delle sue circonvoluzioni cerebrali, vi si
dettaglia, nel compromesso sommamente simbolico, in cui vanno a fondersi per un
tutto omogeneo, le più disparate dottrine. Vi farà assistere alla trasmutazione
de' generi e delle scuole e voi perderete la nozione di quanto si chiamò classicismo
e romanticismo, idealismo e naturalismo. Tentò la
bellissima esperienza di avvicinarsi alla perfezione, cioè di dire tutto quanto
sentì in modo che, nella fatica di renderlo, nulla andasse perduto per consumo,
attrito, stanchezza; volle sorpassare la natura nell'eccedere, proponendosi,
dalli oppositi, una nuova espressione, oltre le già conosciute, tracciandosene
una norma quando sull'arte del Cremona considera: «Pure161 sono alcuni,
i quali, dimenticando che l'Arte non si impana dall'Arte ma dalla Natura,
vorrebbero che ogni artista facesse di salvatesta, sognasse ad occhi aperti; e
vanno dicendo che il più veritiero poeta è coilui che più finge, che altro è
pittura e scoltura, altro fotografia. Anche noi, finchè si tratta di screditare
il nudo realismo, cediamo in tale sentenza, ma a patto di non sostituirvi,
quanto lo vale, un nudo idealismo. Scopo dell'arte è la poesia, che è l'accordo
prudente tra il finito e l'infinito, altrimenti noi avremo o dei corpi senza
animo, o degli animi senza corpo. L'artista deve copiare direttamente dal vero,
ma nell'ambiente del proprio animo; deve, per così dire, stacciarlo attraverso
il crivello del giudizio individuale».
Donde facendovi i convenevoli, vi precede, Cicero pro domo sua:
«Un162 momento, bisogna assuefarsi alla vista delle tenebre. Al primo
entrare, un sentor misto di fiori, muffa, petrolio. Il piede intoppica a ogni
tratto e conviene saltare. Si passa, o almeno sembra, in mezzo a beccate di
pappagallo e a gattesche strofinatine, in mezzo a vampe di forno e a zaffate di
sorbettiera; quando poi la pupilla arriva a raccogliere la scarsa luce, che
discende da una gotica ogiva o da un pertugio di cànova, or da una fiamma di
gas o da una bugia di sego, ti accorgi di camminare in un magazzeno da
rigattiere antiquario. Roba di tutti i tempi e le foggie, dalla più goffa alla
più di buon gusto. Correggesche pitture nel bujo, sgorbi alla Bertini in pieno
lume: litografie del Gonin con cornice dorata, acqueforti di Rembrand incollate
sui parafochi. E qui incontri, ad esempio, un tripode pompeiano dal severo
profilo con su un vaso chinese (una pazzia di porcellana) e, dentro il vaso,
fiori di serra stradoppi, leandri che pajono rose, rose imitanti dalie, dalie
che si direbbero camelie, - freschissimi per la metà, ma per l'altra metà
marci; là un poltronone barocco, che sarebbe il trionfo della comodità, se non
gli mancasse una gamba, sovra il quale riposa un elmetto dell'omerica Grecia,
oltraggiato da una visiera medioevale in cartone e da un pennacchio di
carabiniere... Quindi e ammassi di cenci infagottati in manti porpurei, e
boccali di bettole contenente Tokai e pietre murrine scavate ad orinale e
aquilotti in catene imbalsamati con rospi che strillano da usignolo e usignoli
che rantolano rospinamente. Nè va taciuto di un violoncello di Stradivari cui
servirebbe da archetto un bastante da scopa, nè un topo nella gabbia di un
canarino, che invece resta intrappolato, nè i diritti dell'uomo, cuciti
colla cabala e il sillabo; e Rousseau sposato a De-Maistre, e
Omero a Merlin Coccajo. Ma quel che vedi gli è il meno. Più l'occhio insiste in
quel folto di roba e più ne discopre. C'è, dico, roba da insuperbire mille
palazzi. Di chissà quanti - morto chi la possiede e distribuita con senno -
farà mai la nomea! Chè, se ora c'è tutto, pur manca tutto. È luogo più fatto
per imbrogliare che per sviluppare le idee. A volta ti sembra di essere nella
magnifica confusione di una foresta vergine; ti miri attorno - sei fra il
prezzemolo... Provi, insomma, la nausea del toujours perdrix, della
essenza, che, per troppo sapore, è una offesa al palato; provi il disagio di
una interminabile scala senza ripiani e di una biblioteca senza catalogo. E
però t'allontani alla svelta, non degnando pure di un guardo la soglia, che, in
un mosaico di tutti i colori, vuol rammentato, con modestia superba, il nome di
Carlo Dossi».
Non formalizzatevene; egli usa codesto garbo; sente di esservi più
comprensibile; dà di sè stesso l'apologo e l'apologia; non diversamente usò con
Rovani, descrivendone il tempio: in cui «entrare163 e sentirsi il
cappello di troppo è tutt'uno. È una fuga d'imponenti saloni, sulle cui vôlte
si stende l'ampia pittura del Tiepolo e dalle cui immense pareti pendono
arazzi, tessuti a disegni di Raffaello immichelangiolito... Qui, non la boria
fracassona del ricco, ma la silente maestà del Signore. Particolari ed insieme
vi hanno pari valore e i più modesti mobili respirano solennità; qui, insomma,
ammiri, non fai la stima. E tutto, vedi, è massiccio. Niente indorature, niente
impiallacciatura. Mogano e rovere fin all'ultima fibra, oro sino all'ultima
scaglia. I sedili comodi tanto per invitarci al riposo, non al dormire; i
camini vasti abbastanza perchè il calore si diffonda egualmente in quanti mai
vi si assidono. E nella splendida calma di queste sale reali, i pensieri vanno
pigliando un far grave e svolgonsi grandiosamente; più non rammenti le
piccolezze del vivere quotidiano se non per deriderle, nè la famiglia ti appare
fuor dallo sfondo della umanità. Sono sale per un congresso di legislatori e di
principi. In ogni dove, l'invisibil presenza del nume. - È la reggia di
Giuseppe Rovani».
E ripeterà il suo giuoco malizioso anche per Edmondo De Amicis: «È
il quartierino164 di un impiegato a duemila. Gli amici di chi vi dimora
lo dicono un primo piano, ma, in verità, è un puro ammezzato sopra terreno.
Stanze poche, mobiglia poca; tutto è veduto in una sola occhiata nè si domanda
che cosa c'è negli armadi perchè si sa già. Domina il pino. I mobili, a uno a
uno, non tengon valore, infimi come sono per la materia e la forma, pur, tutti
insieme, ne acquistano perchè fanno la casa. Nella stanza da letto - e
da pranzo - la tappezzeria par tela ed è carta; alcuni dipinti paesaggi sulle
pareti - un vaso d'erbasavia sul tavolo - un casco di fanteria in un canto -
radi i libri i quali ci avvertono che chi li legge non ha oltrepassato il liceo
(benchè non sia detto con ciò che l'Università abbia per privilegio la
creazione del genio) e un letto di una persona e mezza, con la sua brava
Madonna a capezzale e i suoi lini, piuttosto grossi, ma di bucato. Nè fatevi in
là, mie ragazze. È letto riconosciuto dallo Stato Civile. - E, sulla porta di
abete, ma che a forza di gomito è diventata quale acero, sta un biglietto di
visita in cartoncino bristol, con scritto su da mano femminea il simpaticissimo
nome di Edmondo De Amicis». Il quale, breve arte, ma grande cuore, ne lo
ringrazia: «Affretto165 coi voti un occasione qualsiasi che mi sia
concesso di mostrarti quanto ti sia verace ed amoroso amico, e di
contraccambiarti, anche inadeguatamente, qualcuna delle tante gentilezze che mi
hai usate. Se questa occasione tu vorrai fornirmela, anche di ciò ti sarò
grato». Ma Carlo Dossi non gliela porse mai, tuttora postumo creditore e
debitore di lui. Carlo Dossi è letterato eroico e stoico nel senso della
schietta integrità del suo pensiero, della deliberata e profonda sincerità del
suo stile: egli non ha sottintesi e tornaconti che non siano d'arte. Alcuni
giudizii, che volle esporre sopra li autori contemporanei, pur unilaterali,
rispondono ad una certa ed esemplare responsabilità, dote aurea di carattere,
in questi tempi di sommessa e vagellante preoccupazione del non offendere per
rivalersene. Egli può chiamare qualche volta Carducci un gramatico adulatore di
popolo, sovvenutosi di Correnti quando diffamò la luna in celeste paolotta,
ma lo inchinerà, decretando monumentale la sua poesia, per cui:166
«Italia riebbe la lingua di Dante e la romana maestà, almeno, nella parola» -
Egli invita a leggere Victor Hugo in riva al mare, ma subito, ricopia per lui
una definizione dell'Heine «Un genio gibboso»: - può paragonare l'Aleardi ad
una querula e gemente colomba amorosa; ma, nel riordinare la biblioteca di
Alberto Pisani, lo pone vicino a Foscolo; - e Leopardi foggiare a serbatojo di
perpetua infelicità, ma proporrà a ciascuno di imbeversi della sua chiarezza
adamantina, di cui la lucidezza vince l'acqua fresca di una fonte indorata dal
sole. Per ciò, egli è permalosissimo letterato, difficile a leggersi; bisogna
che ci accostiamo a lui, intonando il nostro momento al suo, non ascoltandolo
nelle sue bizze, concedendogli le sue troppo squisite bontà, interpretandolo e
ricordando spesso i suoi pensieri da pagina a pagina, da imagine a imagine,
valicando periodi, distanze, apparenti contraddizioni. Egli stesso si vanta di
scrupolosa e meticolosa incontentabilità. Richiede lettori a sua imagine e
somiglianza; que' lettori ideali che augurò ai poeti grandi Pietro Verri, nel Discorso
sull'indole del Piacere e del Dolore, e precisamente questi, ch'io invoco a
me stesso ed a chi amo, ammirando, dalle pagine clandestine (pur troppo! perchè
nessuno v'ha che abbia avuto la malinconia di proporlo o di citarlo) del mio Verso
Libero, quando desidero che il Libro viva nelle mani del lettore.
Così, quante volte ho voluto avvicinare le mie opinioni sopra la lingua, lo
stile, la funzione del libro e l'obbligo de' lettori verso di noi,
riproponendole alle premessa dossiane; altrettante ho dovuto convincermi delle
ragioni che ci ricollegano, riconoscendo in lui un precursore di identiche
dottrine e di più sicura e provata esperienza. Per questo, il lettore venga a
noi e si eserciti a nostro paragone emulandoci, creandoci, dalla indicazione,
l'imagine completa, ricreandosi a foggiare, non inerte o distratto, ma
collaboratore.
Il suo pubblico, «il167 pubblico di un letterato, non è
già quello dell'uomo politico e del canterino (celebrità spesso e l'uno e
l'altro di gola) pei quali è indispensabile e folla e contemporaneità di
fautori; non ne occorrono a lui nè migliaia, nè centinaja, e neppure ventine ad
un tratto; glie ne bastano pochi, uno anche, purchè siano degni, a lor volta di
lode, e perchè si succedano - sentinelle d'onore - fino al più lontano
avvenire. - Stieno però tranquilli i pubblicisti che fanno missione, direbbesi,
di alimentare il cretinismo italiano; nè io, nè altri miei colleghi saremmo mai
rei di abigeato di qualche loro lettore». Per questo, il libro deve vivere
nelle sue mani, al suo contatto, vibrare, come un rocchetto elettrico e dar
scintille, comunicando, nel circuito funzionale di una corrente, imagini, idee,
passioni,
Veramente, a stile d'eccezione, comportano lettori armati a tutta
prova ed intelligentissimi: Carlo Dossi se ne era fabricato uno a suo modo,
avendo trattato la lingua di tutti come un volgare, su cui operar de
condendo non accettar còndito. Si sentiva un Dante per qualcuno, che
si sarebbe innamorato de' suoi tentativi e de' singolarissimi processi, mentre
ripugnava dal lasciarsi ammirare ed imitare. «Alla168 domanda - qual
sia la miglior lingua - si può sempre rispondere: leggete Shakespeare è
l'inglese; leggete Richter, è il tedesco: è l'italiano con Foscolo; è il
milanese con Porta». A Gian Paolo Richter, sopra tutto, cui venne a conoscere
prima de' simbolisti francesi e ch'era sgusciato dalle mani ortogoniche, e per
ciò stroppiatici, della signora Kalb, riuscito senza avarie dalla piegatura
gibbosa, cui il salotto di Goethe a Weimar, imponeva a chiunque lo
frequentasse; - a Gian Paolo ricercò la vergine emozionalità idealista verbale,
per cui veniva reso il mondo e si foggiavano i suoi fenomeni in figurazione,
preindicando Nietzsche: «Il mondo è l'espressione della mia volontà». Questo
suo stile «a169 viluppi, ad intoppi, a tranelli, obbligando il lettore
a proceder guardingo ed a sostare in tempo - parlo sempre del non dozzinale
lettore, ossia scaltrito in quei docks di pensiero che si chiamano e
Lamb e Montaigne e Swift e Jean Paul - segnala cose che una lettura veloce
nasconderebbe. Per contraccambio, le idee, o sottintese, o mezzo accennate,
fanno sì che egli prenda interesse al libro; perocchè, interpretandolo, gli
sembra quasi di scriverlo. Aggiungi, che una simile illuminazione a traverso la
nebbia, facendo aguzzare al lettore la vista dell'intelletto, non solo lo guida
nelle idee dell'autore assai più addentro che se queste gli si fossero, di
bella prima, sfacciatamente presentate, ma insensibilmente gli attira il
cervello - a modo di quei poppatoi artificiali che avviano il latte alla
mammella restia - a meditarne di proprie. In altre parole, dall'addentellato di
una fabbrica letteraria, egli trae invito e possibilità di appoggiarvene contro
un'altra, - la sua - e, da lettore, mutatosi in collaboratore, è naturalmente
condotto ad amar l'opera altrui divenuta propria».
Che altro può dire di più Mallarmé nel Quant au livre? Che
altro noi? - Riunito, con estrema sottigliezza di sapere e sensibilità, il suo
eloquio, compostolo di una efficacia e vivacità personale, di una abitudine
determinata e potenziale, presta a scattare a muoversi, ad assumere tutti i
gesti, le pose, dalla corsa al raccoglimento, senza ricorrere a stampi, a
reminiscenze, a ricalchi, a strofinature pedagogiche, volle una sua
interpunzione, una ortografia sua, volendoci attestare, che, «lo170
scrittore il quale infrange l'ortografia tradizionale, prova luminosamente il
valore della sua forza creatrice». Qui egli impiegò la sua dote di
assimilazione e di conio novissimo; estrasse, dai dialetti, dall'anticaglie,
dal gergo furbesco, dalle parole passate in disuso, dalle lingue straniere;
rimestò, impastò, condensò, con sua fatica, con perseveranza, mentre li altri,
scombussolati, intontiti, fuori di pista e di stalla, andavano urlando: «Il
pensiero è oscuro, contorto; è barbaro, incomprensibile»; lo accusavano di
forzata originalità, di ostentata lambiccatura, di manieratezza, di
insufficienza, di tracciar rebus e sciarade, assolutamente, come i simbolisti
di dieci anni fa.
Ed egli a non udirli, a non accorgersi delle loro grida, delle
loro lamentazioni; ad aggiungere al suo stile il profitto di una vastissima
erudizione, che, passata a traverso il ciarpame secentesco delle frasi e delle
superstizioni, si era imbevuta dell'ambiguo, del pauroso, del cinereo verbale,
di quella trepidazione continuativa, di quei vocaboli massicci come i cantarani
del tempo, o scorrevoli inafferrabili, come una vena di ruscello rapidissima, i
quali rappresentano la trovata ed il valore estetico del barocchismo ed hanno
sopravissuto al suo discredito ed alla immeritata dimenticanza.
Quindi inalza la sua creazione; la dipinge, la scolpisce, le dà
respiro, la circonda di fiori, di puzze, di gioielli e di detriti. Egli vuole
una solida casa di immarcescibile materia, ben piombata nel suolo e tanto alta
da salir alla luna, verso cui lunaticamente sermoneggia e schernisce. Tutti i
materiali gli servono per ornarla; come al pittore di genio tutte le materie
colorate, non distinguendone i generi, confondendo pastello, vernici,
acquarello, tempera, guazzo, alluminatura, disegno con matite d'ogni tono e
durezza, pur di compiere il capolavoro, che è fuori d'ogni scuola e d'ogni
regola; perchè la bellezza naturale non sottopone sè alla regola, ma la
incomincia e la detta.
Poi, diffida ancora del lettore per quanto sapiente ed esperto:
gli mette in sulla bocca i suoi accenti, come li appostilla sopra le parole
stampate. Vuole ch'egli pronunci in questo modo e con questo ritmo; gli insegna
a scandere la sua prosa in questo suono, con questa pastosità, con questo
calore, fermandosi sulle apostrofi, sulle elisioni, sui tronchi, determinando
specificatamente, da questo complesso di vicinanze e di visione tipografica, la
suggestione che ne riesce, guidandola, come egli desidera, per il completo
attuarsi del suo magistero. Ci chiama a fabricare con lui il suo e nostro
palazzo, ma cum medicamine, desiderando di essere il solo architetto,
responsabile ed ubbidito: il lettore non può divagare, aggiungere o togliere
ciò ch'egli non voglia; nulla è lasciato all'arbitrio suo, al suo troppo presumere:
l'autore non abdica al droit de maîtrise; e la facoltà che egli ha
consentito di indovinare e di completare è diretta dall'altra volontà, che, a
distanza, la comanda pena il perdersi dentro la boscaglia impervia, ciottolosa
ed inspinata di quei periodi, alli orecchi domesticati dalla melopea, striduli
e disarmonici, ma, alli altri, che percepiscono l'armonia morale e l'omotopea,
sonori ed euritmici di una profonda pienezza wagneriana.
Perchè Carlo Dossi pregia e non lamenta la fortuna vituperata da
Jean Moréas, ritornato alla academia, dopo le brevi rivoluzioni simboliste
quando, nelli Equisses et Souvenir allude a sè stesso, discorrendo di
Goethe: «Infelice il poeta che nasce in uno de' momenti equivoci in cui la
tradizione dell'arte è passata a caducità ed è necessario distruggere l'ordine
per cercare di ristabilirlo sopra di una più solida base. Può darsi che si
invidii la gloria di tale artefice, ma la vita sua, in quell'immenso sforzo, è
pur sempre avvelenata». Ora, se l'autore di Colonia Felice prese luce in
una di queste crisi, come Goethe, come il Moreas - in cui la genialità per
essere feconda deve prestarsi ad assumere l'aspetto di una originale pazzia -
non ne farà mai ammenda coll'imitare il greco-francese, al quale lascerà
digitare da solo l'alessandrino classico
«Vos scrupules
font voir trop de delicatesse;»
egli rimane il barbaro e si compiace di attestarlo, già che almeno
in arte non si smentirà mai. - «Dossi171 è nato per essere un corruttore
delle lettere italiane: - dice egli di sè stesso. - Ed in ciò gli Italiani gli
dovrebbero riconoscenza, perchè, così, egli prepara loro un nuovo rinascimento.
I libri del Dossi sono, quanto al carattere, un misto di scetticismo e di
sentimentalità. E due sono i periodi dello stile di lui: I. di avviluppamento,
II. di sviluppo - L'Altrieri, ad esempio, si compone di tre parti che
sono come le tre persone della Trinità. In uno, il Dossi si rimane terra, terra
(parte seconda) nell'altro sta a terra, guardando il cielo (parte
prima) nell'ultimo, in cielo e guarda in terra. - Dei tre generi è riuscito
passabilmente nei due primi. Egli del resto, vorrebbe dedicarsi al solo primo,
il quale è a pari distanza dalle due esagerazioni della odierna letteratura
(1880). Ma nel terzo non è riuscito, un po' per le sue inerenti difficoltà, un
po' per la lingua e l'indole italiana che male si presta, in un cielo così
azzurro, alle nebbiosità». Chè, s'egli non è della opinione di Giuseppe
Ferrari, il quale esagerò G. B. Vico, nel presumere la lingua italiana
reazionaria, cercando di scriverla con genio e capriccio originale; vi
incontrava però la scarsità dei tempi e de' modi verbali, invocando la greca
abbondanza luminosa, colorita e sonante a cui appetiva, sforzando il carattere
chiuso della nostra. «Dossi172 aveva tentato non di far sentire le
parole, ma i suoni; di avvicinarsi, cioè, più che fosse possibile alla musica,
come già aveva tentato di rendere la letteratura una pittura» impresa
ripropostasi da' simbolisti italiani ultimi venuti sotto il nome di Futuristi;
i quali osarono il processo dossiano ad oltranza, e, sforzando la rude e
ferrigna materia del vocabolario nostro, lo fanno vivere come armonia, lo
avvampano di luci colorate come una cinematografia erotta sulla notazione della
realtà, alla rappresentazione imaginata e leggendaria della più sicura verità
sostanziale ed umana.
Per tal modo, il fare dossiano raggiunge il vertice della nostra
eloquenza, oltre la quale, di una linea, si gonfiano la caricatura ed il
grottesco letterario, un'altra e peggiore retorica d'impotenza e d'imprudenza
menzognera. - Nello svolgersi del secolo, seguendone le fasi, con Foscolo, la
prosa italiana ha assunto muscoli e coraggio repubblicano e guerriero, per
maggiori libertà e nobile indipendenza, contrastando a Napoleone e pur
napoleonica, poi che senza di questi, lo Zacinzio stesso avrebbe assunta altra
e meno rappresentativa fisionomia: con Manzoni, ha pulsato il suo cuore in
ritmo col cuore della ristaurazione, vagheggiando una tranquillità mite,
fingendo una sicurezza per questa e per l'altra vita, volendosi persuadere, col
persuadere altrui, nelle necessarie virtù cattoliche, ogni giorno più rare: con
Carducci, esercitò le membra ben nutrite sui campi del Risorgimento e pretese a
sè Roma completamente romana, invano: con Carlo Dossi, piange e ride, nel
medesimo tempo, lo spasimo della gioia e dell'angoscia, sensitivamente
raggricciata; si aumentò di tutte le squisitezze, che i sensi acutissimi le
obbligavano, raggiungendo il confine dell'ineffabile, in bilancia sulla parodia
e la caricatura, tal di qua del grottesco, ma quasi in aspettazione paurosa e
patologica della pienezza totale, cui, in alcuni istanti, raggiunse: si rivela,
insomma, padrona dell'inesprimibile e lo rende come la cosa più semplice, senza
urtare l'educazione. Con Gabriele D'Annunzio, la forma è tutto un rappezzo
d'abiti d'imprestito, decaduta nell'arlecchineria della moda che rimpicciolì la
sua figura, prima così diritta e schietta, sopra di uno scheletro
elegantissimo, su cui s'inturgidiva carne per l'eroica. Per ciò Foscolo,
Manzoni, Carducci e Carlo Dossi non furono mai, nè saranno, cantori alla moda -
per quanto la vera critica li faccia stipiti di loro arte distintissima; e
Gabriele D'Annunzio rappresenta la pura moda; ma ciò, che questa crea, spazza
pur via; e costui, abile sartore da rigattiere, durerà sin che vive e gli
staranno intorno a trombettarlo i commessi viaggiatori delle sue specifiche.
Se non che Carlo Dossi rimarrà sempre un caso difficile di
cui daranno la soluzione rari spiriti di eccellenza; i quali non professeranno
la critica ma sentiranno, per affinità di indole e di carattere, un'arte di
astruse intensità. Lo prova la stessa Critica173 di Benedetto
Croce, il geniale senatore novello e principe, a detta di tutti, in quella
professione. Ed egli dimostra di aver compreso non troppo dell'opera dossiana
se ributta Colonia Felice. Ritratti umani, Desinenza in A, Amori, tra le
scorie della sua produzione. Così, essendo egli, come meridionale, un emotivo,
afferrato dalla Vita di Alberto Pisani, di L'Altrieri, di Goccie
d'inchiostro; e, come riflesivo di metafisiche tedesche, cercando un sistema
in arte, non avvide il bell'esempio di un artista che sa dare, con'eguale
intensità nel male e nel bene. Anatomico specialista il Croce, - cioè critico e
non costruttore - può conoscere esattamente la topografia dei visceri
esenziali, ma difettoso biologo non sa l'ufficio e le relazioni di questi nei
processi differenziali della vita particolare d'ogni individuo. Dunque,
sapientissimo di nomenclature - di sistemi - è improprio a rilevare le
funzioni, cioè le attitudini, le attività, i gesti, la sequenza del moto e del
divenire; ond'io diffido di quelli che sanno troppo di una cosa sola, e
Benedetto Croce è con loro. In fondo, borghese, per quanto imbevuto di
socialismo hegeliano si sente scandolezzato alle pitture della giusta malignità
dossiana; gli sembra d'aver davanti qualche cosa di furioso e di perverso;
rimasto alle categorie, isola li apparati in una necrofilia di dilettante, non
li considera nell'organismo in totalità; giudica quindi ab inferiori, di
sotto in su, errando nel caso generale, doppiamente nel caso specifico; poichè
non devesi mai definire su una estetica, ma semplicemente sentirla.
- Con maggior ragione, allora la folla che pesa è sucida, il greggie, non si
ritroverà in Carlo Dossi; e Pipitone Federico lo ha già notato: «A
chi174 sappia intenderlo, apparirà forse il più meraviglioso ed
efficace prosatore d'Italia, dopo il Foscolo e il Guerrazzi, l'unico credo, che
sappia lottare vittoriosamente colla lingua restia; pure, affermo, che solo
pochi riescono a intenderlo, perchè al pubblico non corre obbligo di educarsi a
un'aristocrazia fuor di moda adesso». E però, quanti ha egli trovato che si
piegassero alla sua difficile disciplina?
Che sian pochi, qualche volta, l'autore di Desinenza in A
ha rammaricato per le solite ed umane contradizioni; e l'ho visto rimbrunito
davanti alla indifferenza de' più, e, ne' colloqui in cui mi apriva il suo
animo ed il suo affanno, recitare un de profundis di amara
rassegnazione. Riguardo a sè stesso, dechinato a precoce vecchiaia, ascendeva a
generalizzare: «Ad una certa età, come non si può più coitare, così non si ha
più la capacità di voler bene, di essere buoni ed onesti:» riguardo alla sua
epoca, di una gagliardia che fu, insisteva particolarmente: «Morto Cremona, il
mio Perelli, Grandi e Crispi, il mio tempo e l'opera mia hanno cessato di
agire» In altri istanti, più scorati e di una sincera umiltà, suggeritagli
dalle malinconiche riflessioni del dolore fisico, sottopose sè stesso mancipio
di una dispettosa e crudele reversibilità: «Tolto di carriera, nessun onore
letterario, salute mala: oggi, per quale giusta ragione, ch'io non conosco,
sconto con queste pene una mia incosciente malvagità, o la cattiveria de' miei
maggiori?» Ed enormizza i suoi difetti davanti alla scrupolosa rassegna del suo
esame di coscienza; com'egli, malato imaginario, parevagli di sentire
l'avvicinarsi della agonia, e, sospeso, soffocato dalla imminenza, diveniva di
sè stesso il tormentatore emerito, mentre il suo polso numerava battute
isocrone, i suoi polmoni respiravano in ritmo, il suo cervello auscoltava il
fenomeno della autosuggestione, notandone le fasi per un bozzetto del Campionario.
Allora e dianzi egli, esagerando, errava addolorandosi di chimere.
Abituato alla società di chiarissimi ingegni, al contatto ed all'attrito de'
quali, in reciproca emulazione, si raffinava allenandosi a sempre nuove audacie,
il disertare dalle lettere, l'immettersi per altra via, lo portarono in un
deserto, in cui, unica voce a rispondergli, l'eco della sua. Concentrò la
sottigliezza; lambiccò un'altra volta, sino alla morbosità, la essenza
singolarissima; e, non badando che a sè, non uscendo nel mondo, che lo
circondava e che pur riteneva memoria del suo passaggio ed impronta del suo
pollice, si è creduto dimenticato. Certo, con lui e dietro di lui, non erano
interessi da soddisfare, non ambizioni, che, agevolando la sua, potessero
avvantaggiarsi, ma l'affetto semplice, l'amicizia che non ha prezzo, ed è
perciò esemplarmente gratuita anzi, quanto meno rimunerata, più profonda. -
Nessuna ditta editrice aveva assunto, in blocco, il monopolio sfruttatore del
suo ingegno; nessun incettatore di genialità era venuto a proporglisi come
impresario, per cartellonarlo, in vedetta, sulli angoli delle vie per farne
strombazzare il nome da tutti i lestofanti, che quando meno intendono, più
forte sbraitano nell'arringo piazzajuolo. Solo, colli amici, a lottare contro
l'ignoranza e la mala grazia del pubblico, riuscì per altro ad incidere la sua
presenza, se non in latitudine, in profondità. È la sementa immessa profonda, a
contatto delli strati più densi e meno depauperati dell'humus, quella che
meglio rigoglia a sua stagione; ora, è la stagione di Carlo Dossi, se,
annusatane l'aria dal più esperto editore italiano, questi protegge e spande,
con sicuro profitto, l'opera di lui e se ne assume la ristampa completa.
Lontana dalla insistenza personale di chi scrisse Colonia
Felice, una sua propaggine continuò crittogama; la sua tendenza, che
sboccia coi giovani, covata da buon fomento, si conservò senza nulla perdere
della sua virtù criptografa. Raccolti in un corpo solo i suoi Margini,
le Note gramaticali le Etichette, le Prefazioni
formerebbero una recentissima Ars poetica anche ad uso de' più esigenti
futuristi, per le più libere proposte ed attestazioni estetiche, da cui, per
citare, non sai che trascegliere innamorandovisi dietro; e non si terminerebbe
più. - Che cosa ha detto di più, in fatti, il futurismo, il quale non rispetta
i termini del prima e del poi? Risponderei: Che cosa ha detto di meno? È tutto
qui: «L'imitazione175 ritrae la linea esterna ed alto lì; lo studio fa
scoprire la interna, che in tutte le opere eccelse, per quanto fra loro lontane
e di specie e di lingua e di epoca, è eternamente quella. Vuoi che il tuo libro
possa vincere il tempo? Sia in istile tuo, in parole dell'oggi, in idee
dell'indomani, in arte del sempre». - Ed ama i libri piccoli, li opuscoletti
leggieri e volanti, che si portano, senza fatica, in tasca, e, da lontano,
colpiscono, scagliati, sempre nel segno, giavellotti, da mano maestra e sicura:
ed odia i grossi libracci sesquipedali, li in folio buttirosi ed
impeciati fratescamente, dove la massa delle sciocchezze si fa piramide; perchè
pochissime sono le cose buone, belle e nuove che si possono dire: ma, per
intanto consiglia che converrebbe aggiungere, nelle gazzette letterarie, alla
rubrica libri nuovi, l'altra vecchi libri, perchè questi
contengono, virtualmente, come ghiandole seminali della letteratura tutto
quanto di... inedito i libri, che verranno, potranno stampare.
Così, egli sempre interruppe la consuetudine; l'obbligò a pensar
molto, prima di poterlo giudicare; tutto quanto sciorinò, evidentemente, la sua
prosa è il meno di quanto ha dato; suscita, coll'emozione di sentimento, come
un romantico, l'emozione di pensiero, come un classico; ed è continuativo. -
Non permette che venga osservato sotto il semplice schermo naturalista, nè a
traverso alla lente azzurra romantica; s'adatterebbe a prender posto tra i
simbolisti. Il suo processo estetico, col quale riguarda il suo interno ed
espone le scoperte ch'egli fa sopra il mondo, lo manifestano tale. L'idea, il
pensiero, l'emozione che ne risultano vengono esposti non in forma narrativa,
ma colla satira, coll'epica, colla lirica, facendoli parte integrante del suo sentire,
non del suo aver saputo, del suo conoscere. Ed in questa schiera,
che dovrebbe essere, quella senza etichetta ed in cui dovrebbero raggrupparsi
tutti che danno suggello indelebile di sè; in questo ambito di grande libertà e
di massima sincerità senza disciplina, in cui ognuno che vi si presenta è pari,
quindi senza gerarchia, consuonerebbe il nome di Carlo Dossi.
Perchè, ogni cosa umana concorda con lui, dall'amore al
ragionamento, dalle Pandette al Contratto sociale, dalle Serate
di Pietroburgo alla Micceide. In tal modo manifesta la sua sensibilità
coll'essere universale; vibrare a tutto quanto esorbita dalla lenta e comune
pigrizia, dalla fortunata ed accidiosa ignoranza della mediocrità; e però
sfoggia la sua dottrina, la sua pratica, la sua ironia, che, qualche volta,
eccede e diventa sarcasmo, conservando, nel suo ribrezzo, nel suo scatto
d'odio, nel suo rifiuto, una grande indulgenza ed una misericordia che non si
meraviglia nè del miracolo, nè del più comune e disgraziato delitto. Ma col
sicuro osservare le smorfie dell'uomo civile, spesso si sentì preso dalla
nostalgia del selvaggio: notò le piccolezze, le grette sparagnerie, le povertà
del cuore, della borsa e del cervello borghese italiano, non lo risparmiò, nè
se gli piace, si risparmia con lui: il sorriso maschera il singulto, la risata
le lacrime; ègli sofre mentre maledice la miseria, la laidezza, il delitto e li
trova pur sempre necessari alla vita.
Nel giuoco del parallelogramma delle tendenze morali, comprende ed
avvalora ogni direttiva ed ogni forza per quanto contraria; compassionando, si
vale per burlare e burlarsi: mente, sesso, scherno, applauso applica, intende,
amministra. Grande psicologo, sotto le vesti, l'apparato, l'ornamento dei
fronzoli delle sopraposizioni e delli incrostati depositi della civiltà, ha
scoperto ancora l'uomo nudo; ed oltre ai giardini, ai parchi circoscritti e
tosati dal giardiniere e dalle cesoje dell'ars topiaria, la natura:
merito enorme, che sa svellere i veli della ipocrisia e spogliare i falbalà
della gente per bene, onde si vedano le miserabili anatomie; si che noi, amando
di riguardarci nello specchio azzimati, vi ci possiamo, con orrore, scorgere
nani, gobbi, sciancati, animali lupini incontro ad imagine e crudeli. Gli servì
e s'impose freddezza di cuore, quasi una logica crudeltà; nelli istanti
dell'osservazione, sicura maestria del gesto; quando viviseziona,
imperturbabile serenità, se anche sopra sè stesso ed i suoi operi,
notomizzando, sulli organi vivi che pulsano, sul cervello che farnetica; usò
metodo d'ordine; ripristinò, per suo conto, delle categorie prima di lui non
autorizzate a comparire in filosofia ed in estetica: egli stesso fu la sua
pietra di paragone, perchè ebbe il più grande e meritato disprezzo per la folla
che fischia ed applaude: libero uomo, sopra tutti i pregiudizi, tanto da
sapersene usare contro coloro che ne abbondano e di piegarli alla sua volontà,
uomo forte.
Carlo Dossi ci ha arricchiti di un'opera singolare, intensa e
completa come un Albero della Scienza del Bene e del Male. Volle in fatti che si
frescasse, sulla parete e la volta del suo studio, al Dosso, il serpente
incollarato di perle e di fisciù a stringerlo, ascendendo, nel tronco. Anche
s'indora, in sul frontone del palazzo, la divisa che lo afferma: «Pax
candida fortis»; antica leggenda che arreca una colomba araldica, sullo
smalto azzurro della pezza, sin dal lontano tredicesimo secolo. - Egli ha
vinto; quindi sta in pace. Rivide sè stesso in trasmutazione estetica e il suo
tempo; ripassò il mondo come una successione di fenomeni, di anime; rifuse la
critica e l'avviò per altra via, concretò le sue idee, le rivestì di panni
tagliati su misura esatta. Voltosi per altro campo non venne abbandonato dalle
sue distintive qualità; diplomatico seppe le sale auliche, ma non si dimenticò
delle foreste vergini e della sacra verginità delli artisti.
A lui, Francesco Crispi della Sinistra storica, chiese l'eloquenza
letteraria, come la Destra la imprestò da Correnti. Col Perelli e Primo Levi da
La Riforma era venuto allo statista siciliano in non dissimili
intenzioni di quelle che trassero Giosuè Carducci all'ode per nozze della
figlia di lui. Si era posto al fianco del ministro tra l'anarchia critica e
l'ammirazione per la italiana energia di quell'arditissimo tra li uomini di
politica attiva. Allora la giovane Italia bollente d'entusiasmo era uscita di
sotto la ferula e la melensaggine del Depretis. «Era176 stata per molto
tempo costretta a rimaner repressa dalla acciaccosa politica del vecchio di
Stradella, a mò di una giovane sposa, piena di vita, obbligata a giacersi con
un vecchio puzzolente ed a fasciargli le ferite di vergognose battaglie, in cui
essa non aveva combattuto»: - nello stesso modo che la spumante Donna Amalia
doveva subire il contatto del vinattiere tra la solita compagnia de'
suoi sozii: «il177 quadrilatero napolitano, cioè, composto da Nicotera,
De Zerbi, Bernardino Grimaldi e San Donato, tra cui si moveva, come sensale, il
Fazzari, se avessero potuto arrivare al potere avrebbero spadroneggiato il
Napolitano spogliandolo come lupi affamati».
Su queste indiscrezioni di utilissima opportunità storica, Carlo
Dossi ricordava volentieri quelli anni in cui, sbarazzinamente, Il Don
Chisciotte della Mancia pupazzettava, colla matita agile ed acuta di Gandolin:
La Real magione di Don Ciccio. E, là, tra un Capitan Fracassa di
carta, alabardiere real - guardaportone - un Don Achille Lanti, debellatore di
pacchi postali - un Don Emilio Buffardeci, primo capellano, direttore
spirituale, consultore teologo - un Don Petruccio Lacava, gran cacciatore
appariva pure una Donna Alessandrina Fortis, «dama di palazzo puramente
onorario, perchè le sue attribuzioni sono esaurite dal tempo in cui Berti
filava»; e si trovava en habit à la française con lavorini e
passamani sulla cucitura ed una gran chiave a battergli le polpe deretane e
magre «il Cavalier Pisani-Dossi, primo ciambellano del cifrario. L'autore della
Colonia Felice, colla quale vaticinava chiaramente l'Eritrea, è il
geloso depositario dei segreti grammaticali di Don Ciccio, la cui lingua
superiore non accetta la sintassi del volgo, nè la pedanteria delle vecchie
formole letterarie. Annesso alla carica di primo ciambellano, oltre ad uno
stipendio cospicuo, vi ha un proverbio onorifico: «La chiave non ha ossi, ma
fa rompere il Dossi».
Del resto la sua curiosità d'antitesi se ne è sempre
avvantaggiata. Mentre riconosceva in Crispi «una178 virtù massima, la
celerità; ed un massimo difetto: la fretta»; mentre rivolgeva in mente, e ve la
conservava per una colonna votiva al Dosso, l'epigrafe: «Francesco Crispi,
d'animo grande, fantasiò che l'Italia fosse grande o cercò suscitare negli
Italiani la coscienza del loro valore: ma la folla gli rispose che voleva
essere piccola e vile, e fra tanto volontari pigmei più gigantesca apparve la
sua figura» - non si dissimulava la meraviglia di trovarglisi vicino:
«Strana179 sorte la mia, questa di Carlo Dossi, d'essere diventato lui
- lui l'amante e l'entusiasta di ogni nuovo principio e forma avvenire - il
collaboratore di un uomo il cui pensiero e la cui dottrina è tutta roba da
rigattiere, roba vecchia, senz'essere antica, straccia ed usata». - Forse gli
pareva, come180 ad altri sognatorelli suoi pari, la molteplicità della
vita cosa interamente vera?»
Comunque, egli ne sperimentò l'efficacia; e se alcuno mai può
vantarsi d'aver visuto in triplice partita - novissimo calcolo che
esorbita dalla computisteria ma è tutto psicologico e letterario, - costui è
Carlo Alberto Pisani-Dossi.
Rappresentante del nome italiano al di là dei mari, dalla Columbia
portò in patria, nel suo museo di Corbetta, cimelii, studi sopra la civiltà
pre-colombiana; dalla Grecia vasi, cocci, memorie, ch'egli si scavò e rinvenne
nel suolo eroico, colle proprie mani. Ai gabellieri di Atene veniva, di quel tempo,
ordinato di lasciar entrare senza sospetto in città, quest'omino, col cappello
a cencio ed a sghimbescio impastranato ed impantanato, reggendo involti
preziosamente costuditi sotto il braccio, e che se ne veniva scantonando ratto
dalla postierla, guardingo, quasi temesse d'essere scovato: Carlo Dossi,
lasciata la politica internazionale, s'era dimenticato, su, alle rovine
dell'Acropoli, del Partenone, fuori per lo Stadio, ricercatore indefesso;
tornava, in quell'arnese da muratore anarchico bombardiere (e che altro poteva
essere l'involto prezioso?) la sera, a palazzo.
Da lui l'arenile di Assab e di Massaua, disgraziata conquista
intrapresa da un bluff italiano (inversione di natura, però che prima la
funzione e l'organo e dopo il gesto) ebbe il nome rubricante di una sperata
porpora coloniale: Eritrea: ed a lui, il Negus, gajo ed africanamente
volpino, mandò per insegne, sciamma bianco e scarlatto, scudo di cuojo, lancia
di frassino e d'acciajo mal temprato, nominandolo ras di sua corte,
donandogli denti di elefante con cuneiformi inscrizioni amariche.
Archeologo, consultò il ventre della nostra terra romana e
lombarda perchè ci indicasse l'età passata, la forma delle cose scomparse, in
cui è conservata l'anima delli avi. Infin il suo silenzio di venti anni è tale
e perfetto per coloro che non sono nella sua intimità. Senza dogmatismo, senza
preconcetti aperto a tutte le influenze, acuto e previdente per farne suo pro,
fu il primo, padroneggiando la forma con isfarziosità d'artista, ad accostarsi,
senza partito preso, senza pretesti d'utilità e di morale, senza smanie di
professore, alla vita ed alla natura. E di tutti i privilegi, che la natura e
la società gli hanno conferiti, solo accolse e pregiò l'aristocrazia,
designazione di nascita, genialità. Ha fatto più di quanto Bacone da Verulamio
assegna al gentiluomo; non un libro solo, non un solo figlio, ma una sola casa,
che sarà modello d'architettura nostra, a meraviglia ed a studio de' posteri.
Oggi, questo suo bel palazzo del Dosso, un'altra pagina letteraria
che volle di marmo e di cemento, si illumina di sole e di quiete. Vergine
gliela prepararono perchè vi scrivesse le sue memorie perennemente, la
genialità architettonica ed originale di Luigi Conconi, con cui, sui progetti
già chiaramente tracciati, intervenne l'ordine calmo e meticoloso della
materiale esecuzione di Luigi Perrone, felicemente compresi e rifusi nel
monumento, fatica di lavoro comacino, fervido disegno ed ordinanza italiana.
Biancheggia tra i cipressi ed i pini; vigila sul Lario si addita
da lungi. Dentro, le sale, che il pennello di Carlo Agazzi ha ornate e
decorano, ritratti di Tranquillo Cremona ricordano volti, aspetti cari per la
famiglia e per la storia; un secolo di passione italiana cantano le colonne del
Portico dell'Amicizia storiate coi più bei nomi, colla notizia delle più
belle gesta d'arte, di guerra e di pace. La piramide delle Tre Arti, dond'esce
il fumo culinario e famigliare sfolgora, col faro elettrico, la notte; come le
Tre Arti irraggiano dalla nostra terra benedetta: Cesare Ravasco le ha plasmate
giovani, possenti, bellissime. Si svolgono i viali tra i lauri ed i roseti. A
maggio, è un profumo di corolle aperte, rosse, rosee, bianche, pallide, tee,
aranciate, spioventi, piangenti, ridenti, pazze, chiuse, maliziose,
accartocciate, tra le sfumature di ogni tono di verde. E il giardino è un
immenso incensiere all'azzurro smagliante.
E, sbucano dalle macchie, curiose, bionde, adolescenti, sudate,
turgide, pei giuochi e le corse, ridendo, cantando, non più creature fittizie e
di sogno, ma forti persone vive cui la pubertà equivoca, i figli suoi; la
lietezza, la festosità; la razza fresca che si protende; la carne sua, concorsa
a attestarlo in tangibilità operante;
«......tre fortune
a tendere le braccia desiose
oh, rose umane!
per abbracciar l'evento non oscuro
de' calmi giorni prossimi.
nel presidio sicuro di leali virtù».
Ed è con loro la madre gentile a proteggerli, sorretta dalle
pregiudiziali cattoliche, e con loro il marito; «incomparabile esimia sposa ed
amica, ardentemente desiderata lungamente attesa»: colei che, titolare in sulla
soglia, appare e sorride in atto d'accoglienza tra i fiori all'ospite; colei di
cui parla la colonna votiva, «concessa a Carlo Dossi dalla preghiera della
santa sua madre e discesa quaggiù»; - chi trova al suo sguardo fiducioso e
prudente la domanda insistente e pia cui non si rifiuta mai:
«... e apporta la nepente
per il delirio dell'ammalato,
trema in le mani,
comprime il cor che palpita;
e porge la bevanda medicata,
come recando un calice a festa
di soavi tristezze,
invito suadente, tumida di carezze,
coll'angoscia nell'anima,
parole di speranza sopra le labra a sbocciare».
Vecchie canzoni; perpetue rispondenze, ritornano ad intonarsi in
sul motivo.
La mensa, al Dosso, riconferma l'ospitalità al visitatore; il
castaneto, che invade la collina, penetra dalle semilunari pareti di cristallo
e frascheggia sulla volta tra il motto che invita a cristiana sanità.
Ingannate, dalle foglie vive alle brezze ed al sole, ma fisse all'intonaco del
fresco dell'Agazzi, ronzano api e tentano farfalle: sorridono all'evidenza
della finzione i commensali; si sturano dalla memoria aneddoti al fomento del
vino che s'arrubina mei bicchiere. - Ma il vespero invita ad uscire: alla Vedetta,
che opposta impende colla balaustra barocca a Como, s'affacciano, col panorama,
a me lontanissime e recenti memorie.
Massiccia, quadrata, la città romana si imprime in un rilievo di
planimetria sotto la guardia delle torri, s'incurva ad ansa sulla spiaggia: il
lago la riflette. Il Broletto l'attesta comune e repubblica, s'accampano le
case disegnando le vie diritte, allineate sul'asse delle porte, in rassegna
legionaria e consolare; la Catedrale proclama lavoro ed arte comacina e
schietta; le fabriche dei sobborghi la invelettano, anacronismo, di fumi lunghi
e cinerei, come una miss romantica; e vi appunta rose il tramonto; le vetriate
fiammeggiano in una cipria d'oro. Orgoglio e mestizie galloppano, colle nubi
figuratrici, in cielo; insieme mi scendono in cuore e mi eccitano a ricordare
le avventure secolari della mia casa, glorie e dolori e sconfitte de' miei
maggiori. Rutilan armi, corsaletti bruniti, partigiane; portano le rotelle ed i
palvesi tre lucci voraci e ghibellini, embricati d'argento sulla porpora:
passano cavalcate splendide e ambascerie per isponsali viscontei, processioni
di lutto e di pompa ai mortorii ducali; evocansi magistero di magistrature
comunali, assunte porpore cardinalizie, pedanteschi roboni e concioni
secentesche; dottori d'academia, di toga e di stola; prelature e vaneggianti
isterismi ascetici di monache e di priori; libertini impiumati, instivalati, la
lunga toledana a battere ne' polpacci turgidi di spadaccino e di cacciatore,
patteggiatori per il Medeghino amici e rivali dell'Innominato e nell'Oldrado;
strascici di matrone: quindi, altre avventure napoleoniche, cariche garibaldine
a raggiare di sangue sull'ultimo sangue del cielo, versato dal sole morente.
Postremo ed ammalato, su vita incerta e breve a chiudere la razza, riguardo, a'
miei piedi, le squadre delle vie comasche intersecarsi, ricoprendosi della
cenere violetta della sera: le imagini smuntano all'allucinazione e sotto la
penna che cerca fermarle vive in altrui, come già mi smagliavano palpitando in
mente e dentro al cuore per famigliare pietà.
Ora, di me che importa? Qui non sono che araldo. Pe' giovani amici
e coetanei - alle vecchie pratiche non mi rivolgo - ho voluto spronare questa
bizzarra chinea avariata della estemporaneità, spingendola, al corso, meno
tarda e viziosa, per giungere primo a riconoscere Carlo Dossi tra noi. La
cavalla s'impunta inalberandosi, recalcitra, sbuffando, spara calci,
sgroppando, scrollandosi; un più mal destro scudiero avrebbe perso le staffe.
Ma sotto le mie ginocchie, il ventre, ecco, ansima, le costole piegano; alli
aculei d'acciajo delli speroni la pancia le si insanguina; il morso stira nella
barra, le apre la bocca; le froge rosse le schiumeggiano; lo staffile arguto e
vibrante fischia sulle terga. Onde, d'un balzo, si fa al galloppo dalle quattro
zampe ferrate; ed io su a dirigerla verso il Campidoglio della gloria. Vi
trombetto l'annuncio.
Perchè Carlo Dossi vi giunge dai gradini più alti, e la sua
persona, qui, ritta, viene accettata intiera; ed altri impazienti eccita a
seguirlo come un indice illuminato dal sole, coi restii che si affollano ancora
indecisi, ma che già ne sono attratti. Se verrà raggiunto da più alacri questi
lo accompagneranno, forse lo potranno continuare: ma badino alle sue parole:
«Voi vi181 fate, critici, una sbagliatissima idea di quello che sia la
società umana, ritenendola tutta compresa, insieme alla fama ed al resto, nei
pochi metri quadrati de' giornalistici uffici, che smerciano i vostri veleni,
sacri asili all'infuori de' quali non sarebbe che «lido e solitudine nera». -
Anch'io miro alla Fama, ma a patto solo di giungerla all'aria aperta e colla
trionfata quadriga de' cavalli bianchi, non sul carretto dell'immondizia di
Checco, non sul biroccio giallo-nero ed infangato di Cesare, non sulle penne
rubate, sempre vendibili a chi più paga, di Ruggero». E su questi tre ultimi
nomi, ai quali lascio libero chiunque di preporre il cognome, l'Araldo-Cintraco
trombetta l'ultimo squillo per
«L'ORA TOPICA».
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