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Francesco Fulvio Frugoni
I fasti del miracoloso S. Francesco di Paula

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  • I FASTI DEL MIRACOLOSO S. FRANCESCO DI PAULA,   CANTATI   SOPRA LE DI LUI GESTE MARAVIGLIOSE   PARTE TERZA.
    • INTRODUTTIONE.
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I FASTI

DEL MIRACOLOSO

S. FRANCESCO

DI PAULA,

 

CANTATI

 

SOPRA LE DI LUI GESTE

MARAVIGLIOSE

 

PARTE TERZA.

 

[440]

 

* * * * * * * * * *

 

[441]

INTRODUTTIONE.

 

Ed eccomi ad ingolfarmi colla piccola Caravella del mio mal veliero Ingegno a discoprire una Florida. È questa la Vita del Prodigioso SAN FRANCESCO DI PAULA, la cui Santità Portentosa sempre nuovi Mostri produce di Maraviglie; appunto qual’Africa: e pur Io, come un’India la scuopro, e non son Colombo. Con tante Miniere, che in sé contiene m’impoverisce, confondendomi con la Copia degli stupori, che mi opprimono l’Intelletto gelato, quando mi sollevano il cuore ardente.

Quanto più m’inoltro, tanto più mi resta Paese da camminare, e prima stanco la lena, che da me si appaghi il disio. È questa la Terra incognita Australe, la cui vastità non ho delineata sol, che con punti. Bisognerebbe, che la mia Musa si somigliasse alla famosa Nave Vittoria, che diede la volta intorno al Mondo; ma non giugnerebbe a circoscrivere tutto quel Globo, che per non haver di terreno Nulla, è tutto Celeste.

[442] Un Cielo carico di fulgide Stelle è la Vita Chiarissima di questo Heroico Santo. Errai; che non ha di Notte solo, che il fosco de’ miei Inchiostri. Pur la considero come Cielo notturno, poiché non vi posso fissar lo sguardo di mezo , che troppo abbaglia, se pur non saetta, questo mio Sole, a cui si addatta letteralmente: In Auge Minimus.

Dall’ombra delle di lui Humiltà proruppero tante Stelle quanti Miracoli. Egli hebbe la Fede per Tramontana non mai tramontante. Direi la Carità se una Virtù così accesa si potesse simboleggiar con un’Orsa algente. Quanto più avvicinossi al suo Polo, tanto più fe’ sfolgorar le sue Glorie.

Fu FRANCESCO una Palma, che si curvò co’ suoi frutti, per far di sé un Arco Trionfale a quelle Vittorie, che guadagnò con le punte, che lo trafissero. Egli è appunto un Albero così di Poma ferace, che non istesse mai braccio senza dar frutto. Non so discernere nel castissimo Stelo della di lui Vita, tanto più verde, quanto più secca, se fossero maggiori le Spine di una Penitenza continua; o pur le Rose di una Primavera continuata. A lui convenne tutta la Diffinitione Metaforica dell’Huomo: Arbor inversa, perché tenne sempre le sue radici nel Cielo fisse, come le cime de’ suoi pensieri humilissimi in terra, abbattuti dall’Humiltà.

[443] Buon Dio, che non operò? Egli repilogò le Geste di un Mosè, di un Elia, di un Eliseo, di un Giosuè; & in un Secolo quasi, che visse, fe’ tanto, che soverchia a dar materia di Elogi per tutta l’Eternità. Io dunque gemo, perché nelle angustie di queste Pagine mi metto a descrivere ciò, che richiede la vastità delle Sfere per Fogli. Gli Astri del Fermamento, e non questi miei Caratteri di tanta Trepidatione, ponno abbozzare i Viaggi di un Pianeta, così benefico, e luminoso, che non fe’ mai movimento senza risplendere, o senza giovare.

A me dunque intraviene come a Chi volle racchiudere un Mare dentro a fossicella ristretta. Merito perciò d’essere paragonato, non so se con vanto, a colui, che intagliò nel convesso di un Nocciolo tutta l’Illiade. Ma per essermi messo a cantar’i Fasti di questo grand’Ulisse di Santità non pretendo già d’esser riputato un Homero, benché Cieco mi sia.

Il mio Intelletto, qui si confessa snervato, perché il peso è troppo eccessivo. Non principeggia, perché paga Tributi; e nelle sue genialissime Espressioni si professa più, che sublime divoto; & altretanto debole quanto ossequioso.

Sopra tutto mi affida la riflessione, che al mio Santo piaccia così l’Humiltà; onde mi assicuro, che non la debba sdegnar nel mio Stile, il quale serpeggia sotto di un’Aquila, che tanto s’innalza.

[444] Paragon della mia inchiesta sarà colui, che si mette a contar l’onde di un Mare all’hor, che le increspa un Zeffiro. Pur mi avvaloro vedendo, che in brieve Mappa si suoleffigiar tutto l’Emisfero.

Ciò, che non esprimo, è molto più di quello, che scrivo; e ciò, che scrivo è men assai di quello, che penso. Nelle membrane del mio cuore stampo ciò, che non imprimo sulla superficie delle mie carte.

Questo mio Tratto di Penna è uno sborso, che fa il mio debito. Se le Monete non son di peso, ho a far con un benignissimo Creditore, che tante volte ha condonate a me le mie leggierezze. Un Padre Amorevole suol compatir gli errori de’ Figli; Et il mio gran Santo, che così

sovente libera i Naufraghi, e tanto

spesso fertilizza gli Sterili,

mi condurrà col suo

Lume in Porto;

e renderammi

co’ suoi influssi di

Concetti fecondo.

 

X X X

X X

X

 

[445]

 




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