DEL SANTO.
Non v’ha cosa, che renda altrui più ridicolo al
Mondo della Povertà esteriore: non v’ha cosa, che renda altrui più spettabile
al Cielo della Povertà interna.
Sozza si chiama l’una, che è generata dal
mancamento delle Ricchezze: Bella si chiama l’altra, che partorisce l’abbondanza
delle Virtù.
L’Huomo, che è Povero, come Scommunicato è
fuggito; perché la necessità (secondo il Proverbio Spagnuolo) tiene cara de
Hereie; ma più ha faccia d’Heretico chi con torvo sostegno, e con
accigliate occhiaie la mira. Ogn’un è solito ad abbandonare il Povero, perché
questi non ha che donare, e come da vecchia, e rovinosa Casaccia, ogn’un ne
passa lontano per timore, che non gli cada in testa. Chi non ha Giove chiuso
nell’Arca, e stillatogli in pioggia d’oro nel grembo, è cacciato via da’
Conviti, come un Vulcano [386] affumato, costretto a zoppicare
affamato. Nelle Corti non entra la Povertà, che fu anche favoleggiata star alla
porta giù dell’Inferno, perché fra tanti Pavoni, & Avoltoi, che s’aggirano
nelle Reggie non istà ben quell’Oca spennata; e fra tanti, che merleggiano
lusinghieri, non ben s’intrude una così garrula Gazza. Oh come Sparuta cagiona
horrore a chiunque non la vuol seco, perché l’Avaritia tanto amica di mugnere,
e scorticare incontra senza pelle, né latte la Povertà, che come Fantasma
errante, Scheletro nudo, e Larva odiata si aggira, e perciò la schernisce, e
discaccia.
A questa nulladimento si strinse il Verbo
humanandosi; e benché fosse il Rege dell’Universo, non fe’ la sua Entrata nel
Mondo, che in Equipaggio di Mendicante. Limosinò la Culla, & hebbe per
Trono un Presepe. Il fieno tappezzogli agreste la Stanza, & un Giumento
infingardo fu il Cameriere. Accorsero Bifolchi Montani al Corteggio del
Principe della Gloria, ristretto, in povere fascie, e necessitoso, per
iscaldarsi, dell’alito di un Giovenco. O Prodigio! O Stupore! In così strano
Apparecchio fiammeggiò fulgido l’Amor Divino, della Povertà innamorato, ne’
suoi Cenci così luminoso, che tanto non brilla il Sole nel Cielo, fra quelle
nubi squarciate, che procurano di oscurarlo.
[387] Tutta, tutta la Vita del
nostro Christo fu continuato Esercitio di Povertà. Patì nel Diserto
volontariamente la fame, nella Croce volentieri la sete. Si vide nudo sopra il
Calvario, e perciò come povero impudentemente; ma non impunemente, deriso. Non
isdegnò di haver per Compagni i Ladri nella sua Morte, perché soliti a
spogliar’altri, & impoverire, chiunque incontrano.
Di una Stella fu sol Proprietario
nascendo, benché le havesse tutte create: onde dissero i Magi: Vidimus
Stellam eius. Di un’Hora fu sol Padrone morendo, benché fosse il Signor de’
Tempi: così attestollo il Cronista Celibe, di lui favellando: Sciens quia
venit Hora eius; Ma la Stella di Christo fu così sprezzadrice delle
Ricchezze, che se ben verticale portolli l’Oro di Saba dall’Oriente, Egli se ‘l
fe’ presentar da’ Magi a’ auoi piedi in contrasegno, che volea calpestarlo. Fu
l’Hora sua così d’ogni bene spogliata, che lo spogliò anche della pelle:
All’hora, ch’ei non trovò un cappezzale su cui appoggiasse il capo cadente, né
pietosa una mano, che gli ammorbidisse il labbro spirante.
Fulli ben sì presentata una Spugna
inzuppata di Aceto; ma la rifiutò stomacato, come Simbolo dell’Avaritia vorace.
Volle morir come nacque: Se nacque in paglia, morì nelle spine: se il
Bettelemme [388] fu stretto in anguste fasce, sul Golgota fu confitto
da’ chiodi aguti: e per morire mendico affatto, come affatto nacque mendico,
sempre andò scalzo dalla culla alla Croce: e fu saccheggiato dall’Impietà più
barbarica, che gli svenò nel Sangue pretioso un infinito Tesoro.
Così per noi si fe’ Povero, famelico e
sitibondo: e fu veduto, benché Fattore degli Elementi, mendicar gli Alimenti,
solo per arricchirci cogli Elementi della sua Gratia, e per nodrirci cogli
Alimenti della sua Gloria.
Hor su questa gran Base della Povertà
capace di Machine così sublimi, fabbricò FRANCESCO l’Edificio della sua
Santità, eresse il Colosso della sua Vita, che giunse a toccar le Stelle col di
lui Merito.
Detestò FRANCESCO gli Honori mondani vago
sol de’ Celesti. Avvolticchiato alla Croce non vi trovò, che nudezza: e pur
riportonne tanti ornamenti. Non vi colse, che spine sterili pungenti, e pur
coronossi di Rose immortali.
Concentrossi Fanciullo in un Antro, per
imitarne spogliato la Povertà. Nelle viscere di una Spelonca apprese le
tenerezze delle sue viscere. Sopra fi un Sasso posò le sue stanche membra,
perché non può imaginarsi letto più molle da Chi, [389] della Povertà
innamorato, dove la trova l’abbraccia. Un garrulo fiumicello, benché vestito di
argento, gli andò col gorgoglio intimando la ritirata dalle ricchezze, mentre
si ravvolgeva humilissimo col serpeggiar fra le Pietre.
Andò sempre FRANCESCO camminando co’ piedi
scalzi, per conformarsi al Sentiero da lui calcato. Lasciò cogli Apostoli
molto, per haver deposto il desiderio di posseder tutto. Altro interesse non
hebbe, che della salute dell’Anime, e tutto il suo Tesoro fu il Crocifisso. La
Cella di lui fu tappezzata di Discipline, dipinta di Sangue, guernita di
Cilicij. Il di lui letto fu il nudo suolo: non poteva perciò dormire sonno più
duro. Tal’hor anche fu di Sarmenti: non poteva stendersi letto più povero.
Non sentì con l’orecchio incerato dalla
Povertà gl’Incanti del Rege delle Sirene, che pretese al suon dell’Argento trattener
questo Ulisse, il quale, se haveva già prostrato il Polifemo della Superbia;
all’hora deluse la Circe della Ricchezza. Il Re de’ Galli nol mosse al canto
dell’Oro: dell’Oro, che fa caminare meglio le Selci, marchiar i Tronchi, e
volar le pietre, che non feano gli Orfei, perché il suon delle Lire, è più
possente che l’armonia delle Cetere. La Lira che fe’ mover FRANCESCO fu quella
Croce sulla quale, Musico il Verbo, sopra il Registro [390] della sua
Carne, rubricata di Sangue, cantò l’ultimo, e più alto tuono, clamans voce magna, della
nostra Redentione.
Il Fuoco prova l’Oro, e questa volta l’Oro
provò il Fuoco. Il medesimo Re di Francia volle, ad istanza de’ Cortigiani, che
sempre cavan la mina ad abbatter i Giusti, provar FRANCESCO colle reiterate
missive dell’Oro inviatoli; ma egli stette sempre a coppella, e si potè dir
all’hora che fosse coppellato il Paragone coll’Oro, e non l’Oro col Paragone.
Sprezzò FRANCESCO i Donativi in Francia, come spezzò in Napoli le Monete. Da
queste fe’ uscir il Sangue; in quelli fe’, ch’entrasse la maraviglia.
Stupito quel Monarca a tal Continenza
inviò a FRANCESCO una grande Statua di Nostra Dama tutta di Oro ingioiellata, e
carica di Pietre Pretiose. S’inchinò il Santo alla Vergine, non all’Oro:
rifiutò la Statua, e ritenne l’Imagine: L’Imagine della Vergine, che si portata
sempre impressa nel cuore; non già l’Oro, che non mai v’hebbe impresso. Si rise
del Dono, & arrise al Mistero adorò la Vergine, non come nell’Oro
effigiata, ma come Madre della Purità, e dell’Oro più pretiosa. Non l’allucinò
il bagliore di quelle Pietre, che non fecero colpo, perché FRANCESCO non si
lasciò mai ferire, che dalla Pietra del Crocifisso.
[391] Io non penso, che possa
trovarsi in tutta la Sfera degli Huomini puri un altro più disinteressato di
lui. Hebbe sol mira al profitto eterno: del temporaneo mai non fe’ conto. Una
stupidezza sì santa parve ch’Egli innestasse dal Ciel ne’ suoi Minimi, il quali
non affettano d’ingrandirsi con le ricchezze nel Mondo, ma colla Povertà di
arricchirsi nel Paradiso. Non han raggiri, perché son Punti; né stendono vaste
circonferenze, perché sono Centri. Centri dell’Humiltà, e perciò poveri: Centri
della povertà, e perciò Minimi!
Tali li vuol FRANCESCO; e supplicando essi
tutto il giorno il Signore con quelle profunde parole: da nobis alta non
sapere, non si sollevano come Humili, non si arricchiscono come Poveri. Non
cercano perciò d’haver molta entrata quaggiù, ma quanta sol basta a vivere
penosamente, aspirando solo ad havere quella al fine lassù, con cui felicemente
si vive.
Del Barone di Brandicourt ricusò FRANCESCO
le rendite generose, per rendere i suoi Religiosi, men carichi, nel cammino
della Perfettione, su cui volle, che si avanzassero svelti, e non si fermassero
pingui. Volle leggiere le Tavole de’ suoi Minimi, perché non fossero soggette
al naufragio: Le Camere strette, perché non vi entrasse la Vanità: L’Habito
[392] abietto, perché no ‘l gonfiasse il Vento.
In lui si osservò sempre Augusta, e non
mai angusta la Povertà, mortal nemica di quella fallacissima Hipocrisia, che
quanto più suol comparir rappezzata, squallida, e curva, tanto meno è intera,
ingenua, e retta.
Ma col privarsi di tutto FRANCESCO, di
tutto FRANCESCO si fe’ Padrone: & hebbe gli Angioli providi Vivandieri,
quando mancarongli scarsi gli humani sussidij.
Hor tu Mortale tanto più Povero, quanto
più ricco, perché ti consumi per ciò, che lasci, lasciando ciò, per cui ti
consumi? Infelicità degli Huomini Goccioloni (scriveva Agostino) propter que
peceant morientes hic dimittunt; & ipsa peccata secum portant. Sognano
sempre, ancorché non dormano, e non mai dormono, perché sempre sognano. O tu,
ch’entrasti nel Mondo Povero, nudo ti partirai com’entrasti. Entrasti senza
entrata, e partirai co’ tuoi falli fallito. Chimereggiasti, tutt’hora, per
arricchirti; & alla fine non porterai teco dal tuo fuoco, che fumo, dalla
tua terra, che ombra, dal tuo Oro, che peso. Succhiasti, o Migniatta avara, il
Sangue di mille operai: Svenasti tanti Mendichi, quanti ne dispregiasti. Arpia
rapace divorasti il tuo Prossimo; e bastò l’esser tuo Vicino per [393]
esser da te distrutto. Come la Pece ti attaccasti, e tingesti; onde si potè dir
di te il vero ancora scherzando: dum tangit tingit. Hor potrai un poco
teco il tuo Palagio sotto la cui Fabrica spallasti mille Giornalieri
scorticandoli col non pagarli, che a prezzo basso, e stentando più che non
fossero le pietre gravi, e strascinate da essi, più che quelle da loro, da te
strascinati, mentre ne bevesti i sudori, & havesti più calli alla
coscienza, che alle mani i medesimi, tante volte a maledirti proclivi, quante
tu fosti a rimunerarli restìo. Portati li tuoi scrigni pieni d’oro, le tue
casse gravide di monete, i tuoi Poderi, Paradisi delle tue delitie, le tue
Mense superbamente fumanti, i tuoi Vini dolci, le tue commodità studiate. Ah,
che laggiù nell’Inferno non entran gioie; e se ben Plutone delle Ricchezze fu
finto il Dio, laggiù si muor di sete, di fame, di caldo, e di freddo. Di sete
della perduta Beatitudine, di fame della Divinità eternamente invisibile, di
caldo cagionato dall’ardore della propria concupiscenza, di freddo lasciato
nelle fibbre dell’Anima da quel frigidum Verbum meum, che sempre
articolò l’Avaritia.
Oh Microcosmo più fortunoso, che
fortunato! Huomo, che quanto più vivi ricco, tanto più muori povero; e dopo di
haver ben’empiuti i tuoi sacchi, tu alla fin resti in sacco; e di tante tue
delitie [394] non puoi portar teco, che la memoria tormentadrice, non
di haverle lasciate, ma di haverle seguite: e di tanti tuoi Diletti non puoi
recar in tua compagnia, che i Delitti: Che fai, che pensi, che risolvi?
Aspettano i tuoi Heredi la tua disfatta finale, e sospirano, perché ancora non
muori: Hor considera, se vorranno piangere alla tua morte. Dunque per
lasciargli agiati vorrai restar’incommodato per sempre? Ingannasti molti; ma
più te stesso; e quanto più acquistasti di Capitale, tanto meno havesti di Capo
per conoscere le tue perdite. Quanto più di Credito fosti, tanto meno credesti,
più puntuale cogli Huomini, che con Dio; a cui mancasti tante volte la Fede,
per vergognarti d’essere a quegli infido. Se ben non so, se mai mantenesti la
Fede al tuo Prossimo, poiché violasti quella del tuo Sovrano.
Deh come puoi pretendere di veder il tuo
Creatore, se ti acciecò l’Interesse, col gittarti negli occhi dell’Anima tanta
polve. Deh voglia il Cielo, che il tuo Danaro non t’habbia dannato. Il Paradiso
per forza, e non per inganno si prende; e tu fosti sempre un Volpone, che ti
aggirasti a far prede, per essere al fin predato.
Ma la mia penna trascorre, perché gli si
apre il campo di fare su questo Assunto, col suo volo un Volume. La ristringo
[395] alla Pratica, e così, con chi legge, di questo modo discorro, e
do questa gran Massima per Ricordo. Se tu sei Ricco di Facultà, sij Povero di
Spirito: E per Contraposto sij ricco di Spirito, se sei Povero di Facultà.
Questo è un bellissimo Documento del gran Santo di Sales, che portò di
FRANCESCO il Nome, e ne fu legato col Cingolo, partialissimo Divoto, & imitatore
di esso. Sarai Povero di Spirito, se non haverai le Ricchezze nel tuo Spirito,
né il tuo Spirito nelle Ricchezze. Sarai Ricco di Spirito, se non havendo
Ricchezze nello Scrigno, haverai Dio nel tuo Cuore, Gesù Mendico nella mente,
FRANCESCO Mendicante nel tuo pensiero, per amar’il Primo, per imitar il
Secondo, e per supplicar il Terzo, a presentarti, con questi amorosi
AFFETTI AL CROCIFISSO.
Io sì, che sono, mio vero Sole, una Talpa cieca,
poiché mi son cibato sempre di terra, e nella terra sempre restai sepolto.
Povero è questo mio Spirito, perché mai si ridusse a servirvi: Infelice questo
mio cuore, che mai s’indusse ad amarvi Nuda quest’Anima mia, che mai si
condusse a vestir co’ vostri Santi Precetti la vostra pretiosissima Gratia.
Perché vi vidi piagato i piedi, sdegnai di seguirvi; perché [396]
spogliato, v’incontrai sulla Croce, ricusai d’imitarvi; perché tenere il ferro
nelle mani, e non l’oro, da voi mi appartai. E pur le piaghe de’ vostri piedi
sono i Poli della mia Salvezza: la vostra Povertà mi arricchisce; & il
Chiodo, che vi configge, mi bea. Oh bontà di un Dio senza pari! Oh malvagità di
un Peccator senza fine! Non più mio Redentore; non più! Voi non più Pene, &
Io non più Colpe. Deh sia svelto da me tutto ciò, che non pullula da questo
Tronco di Gloria, in cui l’Ignominia si è resa nobile, l’Obbrobrio adorabile, e
la Mendicità dovitiosa. Mio Dio! Non vi chiederò mai altra ricchezza, che voi,
il quale per me impoveriste fino all’estrema goccia del vostro pretiosissimo
Sangue. Da voi dunque spero Perdono: Voi solo chieggo perdono; e strignendomi a
voi, spogliatomi d’ogni altra Passione, che della vostra, non diffido poi di
ottenere tutte le Gratie, ricorrendo a voi, che ne sete il Fonte.
SUPPLICA AL SANTO.
Al Fonte delle Gratie, a cui tante voi ne bevesti
mi accosto, adorato FRANCESCO, e mentre
tanto presumo, vi prego di torcere que’ pretiosi canali a disgorgar su
quest’Anima così secca, & innaridita. So, che non merito i vostri [397]
sguardi, perché non ho internamente l’Habito di quella Povertà Volontaria, che
cotanto vi piacque. Deh compatite; e se fu per l’addietro ribelle il mio Senso
al suo Dio, impetratemi nell’avvenire la riforma de’ miei costumi mondani, e
l’ornamento delle Virtù sovranaturali. L’Interesse di questa Vita cauda colla
sua vampa mi ha seccate le lagrime; e l’Avaritia col suo freddore mi ha gelate
le Viscere; perciò non piango, e non ardo. A voi tocca, che tanto ardente vi
disfaceste in lagrime a’ piedi del Crocifisso, communicarmi una portione del vostro
Spirito, così povero nell’humiltà e così ricco di Divotione. Voi severissimo
Amante di un Dio Nudo, vi spogliaste d’ogni affetto mortale: quaggiù
abbracciando povero Crocifisso, per goderlo lassù Tesoro glorificante.
Impetratemi dunque col vostro aiuto una Virtù, che vi rese così perfetto,
accioché col mezo di essa Io vaglia a discacciare quella Tribulatione, che
tanto mi tiene afflitto.
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[398]
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