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Francesco Fulvio Frugoni I fasti del miracoloso S. Francesco di Paula IntraText CT - Lettura del testo |
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VENERDÌDODICESIMO
DEDICATO
ALLA PATIENZADEL SANTO.
Non è la Patienza una Virtù sola, come il Nome la circoscrive; ma un Aggregato di tutte le Virtù, come la pratica lo dimostra. Ella, essendo di tutte l’Anima, in tutto si trovano, e tutte si trovano in Essa. Appunto come la Prudenza per le Morali, la Patienza è trascendente per le Celesti. La Verginità non fiorisce, la Povertà non germoglia, l’Ubbidienza non frutta, la Continenza non pulla senza di Essa. La Mansuetudine è Spettro, l’Astinenza è Larva. L’Oratione è Sogno, [410] la Modestia è Fantasima, la Divotione è fumo, la Fede è vapore, la Speranza è Cadavere, la Carità è Chimera senza la Patienza. Questa tutti i colpi rintuzza, a guisa di Scudo; da tutti i fendenti difende, come celata; tutte le punte ribatte, come corazza; da tutte le ferite schermisce, a guisa di maglia. Non ne cerchiamo le prove, che nel nostro Patientissimo Amore. Predisse il Profeta di lui, che dovea satollarsi di obbrobrij; Tertulliano il descrive ghiottissimo di Patimenti: Così discese quegli quaggiù d’ingiurie famelico, per iscontare l’innumerabili fatte dal Genere Humano, disumanato, e degnere, per l’Ingratitudine continua de’ Peccatori contra la Bontà Eterna del nostro Dio. Oh quanto pretiose, e belle ci adornano del nostro accordogliato Confitto le Pene atroci, fabbricate, e battute nell’Officina della Patienza, dove Mastro di Dolore, a forza di Martellate, sopra l’Incudine della Costanza, col fuoco Divino, a’ fiati avvivato del desiderio, formolle! Christo sciolse, legato; Honorò oltragiato; Assolvè giudicato; Redimette comprato; Decorò flagellato; Rammolcì spinato; Mosse inchiodato; Esaltò humiliato; Sanò Infermato; Ravvivò esanimato; Risuscitò interrato: E di tante Machine così belle la Patienza sola fu l’Ingegniera. [411] Ma deh quanti, e quanti pochi dalla Sommità del Calvario osserva il Crocifisso seguaci, che ascendono colla Croce Patienti. La Dilicatezza del Mondo cerca di coglier le Rose, e di lasciare le Spine; che rari son quelli, come FRANCESCO, a quali fu il non patire morire. Cominciò il nostro Santo la sua Vita morendo nelle angustie di una Penitenza non intermessa, né mai la raddolcì con un lieve regalo; non mai refrigerolla con un respiro mondano; non mai la rilassò con un lecito divertimento. La strascinò fra gli Sterpi fiorita: l’alimentò coll’inedia satolla, la logorò co’ sassi dormendo, la lacerò co’ flagelli vegliando; né stimò mai più gran Festa per lui, che quando fece Vigilia. Oh quante volte il rinvenne sol di preghiere nodrito, sulle stesse ginocchia curvo, il Sole, che cadendo l’havea lasciato ad orare, & ad adorare digiuno, come l’havea trovato nascente! Infaticabile FRANCESCO gode penando, e non si satia di Penitenze, benché non habbia gustati i Diletti. I Diletti di lui son le noie, che l’amareggiano: Le sue Amate sono le Peste, che l’amoreggiano: Le sue Delirie son i Cilicij, che il cingono: Le sue Rose sono le Spine, che il pungono. La sua Mensa è Parca, e perciò più atta ad ucciderlo, che a mantenerlo. Il suo [412] Pranzo sta tutto in un pugno: pur gli fugge sovente dalla bocca scordato, mentre la mano impugna la Sferza. La sua Bevanda non gli riesce mai dolce, se non glie la temprano le lagrime amare. Per non far naufragio nel vino, vuol solo l’acqua alla gola. Bacco non mai gli comparisce dinanzi; o sia perché solito a recar fumo, non è ben veduto da un Humile; o pure, perché spumando con quella Venere, che dalle Spume nata dell’acque salse, nelle spume de’ vini dolci galleggia; non è ben accolto da un Casto; o forse, perché piccante, non è gradito da quella lingua, che mai non punge. Il Letto di FRANCESCO è la Terra nuda, che l’accoglie vestito, e cadente più in sembianza di morto, che di riposante. Tal’è il Giacitoio della Patienza, che non sa dormir nella Morbidezza; tal’è quello di FRANCESCO, che non sa dormir senza haver a canto la Patienza. Questa è la Patienza, che altro non gli recò in dote, che stenti. Egli amoroso la strigne, né si può dir, che non la conosca, perché l’ha sempre negli occhi piangenti; né si può dubitar, che non l’ami, perché sempre la tiene nel cuor’avvampante; né si può presumere, che non l’habbia, perché la porta sul dorso scorticato dalle battiture, e dalla Croce, più che dalla Vecchiaia curvato. Oh Santo Stoico, che così ben praticasti il sustine, e l’abstine. Sostenesti; e la Patienza [413] fu la tua Base. Ti astenesti, e fu tua Economa la Patienza. Questa fu la bella Foriera delle tue Penitenze. Tanto più forte quanto più indebolito, co’ tuoi Digiuni, l’alimentasti; colle tue sferze la battesti; co’ tuoi Cilici l’assediasti; co’ tuoi sfinimenti la ripigliasti sempre più vigorosa. Bella sì, bella teco la Patienza, perché co’ tuoi pallori la coloristi, co’ tuoi deliquij la ravvivasti, col tuo pianto lavandola la mantenesti. Ella cercò di distruggerti, e tu procurasti di sostenerla. Ti tormentò, e l’accarezzasti: ti afflisse, e la conservasti, ti macerò, e la trattenesti. Fosti assodato più che Diamante, perché di Dio amante, da quella, che spezza i Diamanti più sodi. Quanto più ti percosse, tanto più ti fissò nel Cielo; e quanto più caricotti, tanto più sollevotti alla Gloria. Alla Gloria sì, a cui giugnesti colla Scala del Crocifisso, ch’altra non fu, che la Patienza. Oh FRANCESCO, FRANCESCO, Io non so trovar ne’ tuoi Fasti Miracolo maggior di te stesso, e della tua Patienza! Armossi perfido il Mondo ad abbatterlo con sovrassalti maligni: Armossi Patiente un FRANCESCO a far petto con sofferenze ammirabili. Un Religioso, Oratore di un Ordine Illustrissimo, declama publicamente contra i di lui Miracoli, e FRANCESCO ne fa di tutti il Maggiore [414] sopportandolo in Patienza. Qual più evidente dimostratione potea prodursi, che la Santità di FRANCESCO havesse gran fondo, come gran fondamento? Se dall’Hipocrita è proprio il risentirsi punto, perché sotto pelle ovina nasconde il Lupo: dell’Humile è circostanza il tacer pacifico quando è ferito, perché non sa lagnarsi l’Agnello quando è tosato, anche da chi volendolo tondere per l’ufficio che fa di Pastore, indiscreto lo scortica per la razza, che ha di Villano. Un Cameriere del Papa, rimproverando a FRANCESCO la Vita Quaresimale, da lui introdotta, il motteggia di rusticano; & Egli riceve mansueto il pungolo, come un favo, & il disprezzo, come un favore. Il Cardinal di Ungheria fa discacciar malmenat’i Religiosi Minimi da’ Chiostri sorgenti di Castellamare. Egli sopporta l’affronto, e ne sorride (benché gli penetri al cuore), come, che li vedesse entrar Trionfanti nel Campidoglio. Il Re di Napoli manda una Ciurma di Sgherri, accioché il conducano a lui legato, qual Criminoso: & Egli con amorevoli abbracciamenti gli strigne, con dolcissimi trattamenti li regala, all’hor, che stavano, per caricarlo d’ingiurie, e di funi. Un Medico del Re de’ Galli, per iscreditarlo appresso la Corte tutta, si accigne a soffocar questo Semplice del Paradiso colle gramigne della sua lingua infernale; [415] & Egli non prepara altro Antidoto contra di Antimonio, così mal preparato, che la sua Patienza. Ama i suoi Nemici, perché ama il suo Dio. Come il Re delle Api non ha pungolo da infierir contra tante Vespe. Benché si ravvolga tuttodì fra le Spine, non è punto Spinoso. Altre punte non gli passano il cuore, che quelle de’ Chiodi del suo Caro Confitto: Altro fiele non ha sulle labbra, che quello del suo Redentore moribondo. Schiaffeggiato offerisce l’altra sua guancia, perché non habbia ad invidiar questa la Porpora a quella, che inostra la Patienza. Oh Stupore! Oh Prodigio! La Croce continua, sulla quale sagrificossi lo fe’ Imagine del Crocifisso; ma scarpellolla con un Chiodo la Patienza, solita a far sempre le sue Opere di Rilievo, e non di superficie. Fu Sasso nelle sue tenerezze col sostener tanta mole di Patimenti, colla quale giunse a toccar’il Cielo. Accatastò non meno delle maraviglie le pene, per posarvisi sopra Fenice di Patienza, a rinascere nel Secolo Eterno di Gloria. Se in questa entrò Christo, non men coronato di Pene, che di Trionfi, in quella entrò pur FRANCESCO non men coronato di Trionfi, che di Pene. Di Pene, che l’ingemmarono, e come le Pietre pretiose quanto più dure, tanto più fulgide, l’arrichirono [416] col caricarlo, il fregiarono col ferirlo. Non si lamenta FRANCESCO solo perché non gli si raddoppia il motivo di lamentarsi. Partecipa della sete del suo Diletto, che la patì, benché fosse Fonte; e perché non può estinguerla, come vorrebbe, al Torrente della Passione, la va stuzzicando cogli spruzzoli delle sue lagrime. Trova nel Pianto un piacere, che nol satolla, ma lo solletica; e nel prurito del suo patire prova la gioia del suo contento. Goderebbe di potere stillar tutto il suo cuore al suo Dio, giaché non può stillarli tutto il suo sangue; ma poi si ravvede, e ritiene il suo cuore negli occhi suoi, sempre più voglioso di stillarlo a quel Nume, che osserva, e custodisce, come pupilla, e lume degli occhi medesimi. A’ tanti riverberati, ma più ripercossi splendori, arrossisca l’Anima dilicata, che si uniforma al suo Senso, non al suo Dio. Sospiri pure, perché non respira alla Gratia, e si creda dalla sua creatione degenere, perché Dio, che il tutto fe’ con un Fiat, non volle redimerla con un fiato, ma col midollo delle sue viscere. Ahi quanta effeminatezza avvilisce i nostri pensieri! Deh come codardi siamo al travaglio, come valorosi al Peccato! Un Sonno interrotto ci turba; e la quiete eterna della Beatitudine non ci sveglia. Una Vivanda mal imbandita ci mette nel [417] capo il suo fumo; & un Dio per noi Crocifisso non ci mette nel cuore il suo fuoco! Hor come la passerebbe il nostro Appetito con un proseguito digiuno, nelle frequenti Vigilie, colle punte di acciaro indivise a’ fianchi, co’ ferrati flagelli tre volte, ogni notte, al tergo, come fe’ il nostro FRANCESCO? Per un Interesse, che ci rovina è il patir’insensibile; e per un Dio, che ci creò, che ci ha redenti, che ci aspetta a gioire, il travaglio è duro! Oh Dio troppo Buono! Oh Peccator troppo Empio! Se si tratta di corteggiar’un Principe, la tempra de’ nostri Corpi è di diamante: se si tratta di servire un Dio, Re de’ Principi, e Principe de’ Regi la tempra de’ nostri Corpi è di fango. Per un guadagno di fumo siam tutti fuoco; e per un guadagno di fuoco siam tutti fumo, Iddio non ci accende col suo Santo Amore; & il Mondo col suo profano ci abbrustolisce. Il Negotio dell’Anima nostra è l’ultimo, quando per esser l’ultimo dovrebbe essere il primo. I nostri Sudori son per la messe terrena, e non per l’Eterna. A far vendetta de’ nostri torti siam’aquile co’ fulmini nella destra: a far lo sborso de’ nostri debiti siam Conigli col laccio al piede. Ahi quanti sonni c’interruppe il desiderio di vendicarsi de’ nostri nemici; e quante volte habbiam noi dormito sull’oblivione de’ nostri peccati. Per lo Mondo tutto, e [418] per Chi fe’ il Mondo nulla. Il patir per lo Mondo è gloria: il patire per Dio è vergogna. O Patienza dove ti ricovrasti! Nelle Selve co’ Romìti: ne’ Chiostri co’ Religiosi: nelle Catapecchie co’ Poverelli: nelle Carceri co’ perseguitati: ma non già ne’ Palagi de’ Grandi, di dove ti scacciò il Regàlo: non già nelle Combricole degli ammorbiditi Mortali, di dove ti tiene lontana il lusso. Nelle Corti tu forse accovacciata ti annidi, ma senza frutto, e lacerata dalle tue passioni, quella non sei, che adorna, ma che dispoglia, non quella, che fa l’ale, ma che spenna i cuori: non quella, che vola, ma che serpeggia. Patienza mascherata, e perciò infedele, quanto più doppia tanto più manchevole; quanto più dura tanto più durevole meno; quanto più tormentosa tanto più imagine dell’Inferno. Oh quanti Tantali tu lusinghi famelici, & assettati colla frutta sul labro, e coll’onda alla gola? Oh quant’Issioni tu riscuoti, che non si fermano mai, e perciò non han mai riposo, e mai nella tua Ruota non inchiodano la Fortuna, che li crocifigge, non li risuscita! Oh quanti Sisifi ti portano sulle spalle, e quando pensano di haverti fissata; come Pietra Filosofale, teco ripiombano all’imo delle sciagure? Oh quanti Titij hanno da te divorate le viscere sempre rinascenti a patire per un bene, che non genera solo, che [419] pene, perché prodotto da’ Patimenti! Non è, non è così la Patienza, che si ha per Dio, per essere la medesima, che Iddio hebbe, e quella appunto, che tanto illustrò FRANCESCO in limargl’il cuore: Tutta diversa da quella, che rodendo più il Peccatore, anche più l’oscura. Ma non più, non più. La sola confusione proceduta dall’esito degl’Interessi mondani ci debbe convincere, già che non ci può vincere quella Patienza, che ci fa trionfare vincendoci. Hor tu, se brami di salvare l’anima tua, in tanti naufragi, attaccati ad uno Scoglio così stabile come la Patienza, dimanda una Virtù così necessaria alla tua Salvezza con questi
AFFETTI AL CROCIFISSO.
O mio Patientissimo Amante; e tanto Amante, quant’Io Ingrato, Voi tutto cinto di Spine, & Io nelle Rose tutto sommerso! Voi nelle Piaghe, & Io ne’ piaceri! E pur vi miro, e non piango? E pur vi contemplo, e non gemo? Non gemo, perché son di sasso, per non amarvi, per non patire. Son di Sasso per voi, e son così molle per questa mia Carne Pietra di Scandalo. L’amicitia col Senso, più, che la vostra mi piace; ma quanto più fuggo il patire, tanto più da voi mi allontano: Dunque perché vi cerco, quando così mi dilungo da voi, Ribello della vostra Legge per ubbidire [420] al mio Genio. Ricalcitro alla vostra Gratia, perché m’imbriglia la mia Concupiscenza sboccata, più che il vostro Santo Timore. In me non ha forza sol, che il Piacere; ma non già il piacervi; e la vostra Croce non trova un angolo da piantarsi in questo mio cuore, perché la Delicatezza l’ha tutto occupato. Ah, che pur troppo infruttifera è quest’Anima mia, perché non mai coltivolla la Patienza, gran Giardiniera, che fa rampollar dalle Spine le Rose, gli Anemoni delle Cicute. Hor come potrò trovarvi, se non cammino sulla strada corsa da voi? Come ardirò di aspirare a veder la vostra faccia glorificante, se mai non volli dar’un’occhiata al vostro tergo da’ flagelli scarnato? Pietà mio Dio, Pietà di me; per cui se così foste Patiente, vi prego ad esserlo ancora tanto in aspettarmi alla Penitenza, accioch’Io possa ottener col patire non solo le vostre Gratie; ma ancora le vostre Glorie.
Ma voi io austerissimo Santo, che colla Sofferenza non meno, che coll’Astinenza, oltre le innumerabili vostre Virtù, cotanto vi segnalaste, perché non mi rendete colla vostra Intercessione, come col vostro Esempio tanto sensibile, quanto imitabile quella Croce, che vi germogliò tanta Gloria, quanta speraste patendo. [421] Deh datemi un’Inclinatione a penare per amor del mio Dio, tutta diversa da quella, che ho di godere per amor del mio Senso. Ripugna, pur troppo il so, che questo mio cuore, a voi si presenti essendo in me così ravvolto nelle panie del Mondo, così lontano dagl’Interessi del Cielo: Non è giusto, che quest’Anima mia, così perduta in cercar i diletti del Corpo, trovi diletto nelle Piaghe del Crocifisso: E pure presumo d’importunarvi, non so, se più temerario, o se più peccatore, accioché col Merito della vostra incontrastabile Patienza abollate il Demerito della mia colpabile Dilicatezza. Voi, che favoriste ancora la Salvaggine, che a’ vostri piedi ricorsero perseguitate da’ Cani, favorite, ve ne supplico, quest’Anima mia perseguitata dalle Passioni. Ottenetemi colla Patienza ne’ miei Travagli, il perdono delle mie Colpe. Fate, ch’Io habbia quella costanza nel sofferire le cose avverse, che non hebbi nel resistere alle felici, le quali quando m’incontrarono mi abbatterono: Protestando qui, del Mondo. X X X
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