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Nicola Misasi
In Magna Sila

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  • In carcere
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In carcere

 

Erano in sedici in uno stanzone umido, buio, dalle mura scalcinate, dal pavimento rotto e disuguale. Lungo le pareti due fila di letti; in un canto un barile ed altri recipienti luridi. In mezzo pendeva una lampada che si accendeva la notte e rischiarava lo stanzone di una luce pallida e gialliccia. Al capo di ogni letto, sulle tavole poggiate sui piuoli infissi al muro, fagottini, orciuoli, cestini sgangherati, bottiglie rotte, qualche paio di scarpe, qualche pane nero ed ammuffito. Sui capezzali, incollate al muro con pane ammollito, figurine di santi e di madonne.

In fondo alla stanza, dirimpetto alla porta, chiusa anche essa, oltre all'imposta in legno massiccia e inchiavardata, da un cancello che si apriva al basso appena da far passare un uomo carpone, era la finestra, più lunga che larga, difesa da grosse sbarre di ferro che s'incrociavano. Al di , lo sguardo scorreva su i tetti delle case, fra i quali qua e innalzavansi i campanili delle chiese con le banderuole al vento; dopo i tetti, la campagna verde, disseminata di casette bianche, fra i gruppi d'alberi sul declivio delle colline o a capo dei sentieruoli. Tra il verde le pozze d'acqua luccicanti, i ruscelli limpidi che scorrevano lungo i fossati, ed in mezzo il fiume gialliccio sul greto bianco fra due siepi d'alberi e di cespugli. In alto il sole splendido che copriva di luce quelle case e quelle campagne.

Dei prigionieri, alcuni sedevano sul letto con le spalle al pagliericcio abballinato, intesi alla lettura di un logoro libraccio; altri rammendavano i loro cenci o incollavano figurine su scatolette di legno. Due di essi, in mezzo alla stanza, seduti su sgabelletti, con le mani stese ad un tegame rotto mutato in braciere, con la pipa in bocca ed il cappotto gittato sugli omeri, discorrevano sottovoce. Nella penombra di quella stanza bassa ed umida quegli uomini sinistri avevan movenze angolose e atteggiamenti strani. Un raggio di sole passando fra le grate disegnava una striscia giallastra sul davanzale e si stendeva fino alla metà della stanza; su di esso si agitava il polviscolo biondo.

Un prigioniero sedeva sulla finestra con le spalle alla parete del davanzale e le gambe penzoloni. Fumava in una corta pipa di creta, con la fronte alle sbarre della grata, e di tanto in tanto alzava gli occhi per fissarli in una casa di contro, lontana un 30 metri dal carcere; poi li chinava per guardare al basso la sentinella, che, nel corridoio formato dalle mura del carcere e da quelle di cinta, andava e veniva dall'uno all'altro spigolo. Talora, sbadigliando, si fermava presso il casotto col braccio sulla bocca del fucile, contemplando le pietre del selciato in atto di chi rifletta; poi alzava gli occhi, e gli sguardi del soldato s'incontravano in quelli del prigioniero. Quei due non si conoscevano, pure erano e si sentivano nemici.

Il prigioniero sdraiato a mezzo sul davanzale era un uomo in su i quaranta anni. Aveva la barba ispida e brizzolata, le sopracciglia nere, folte, che si ricongiungevano; la persona tozza e le spalle quadre.

Era dentro da un anno ed aveva vissuto come appartato dagli altri, che lo rispettavano per la sua forza ed il suo coraggio, di cui in più di un tafferuglio aveva dato prova.

Era taciturno, pensoso, triste. Quando gli altri cantavano, egli se ne stava come ingrugnito. Quelle canzoni gli facevano male. Di sicuro la vita del carcere non gli aveva fatto dimenticare, come agli altri, quella vissuta fuori, all'aperto, sotto il sole. La sera andava a letto appena sonava il silenzio, ma non dormiva: l'udivano voltarsi e rivoltarsi sul suo letticciolo di paglia; e ciò infastidiva i vicini che non potevano pigliar sonno per lo scricchiolìo delle tavole ed il fruscio della paglia. Pure non osavano lagnarsi, perchè lo temevano, quantunque ei non fosse un attaccabrighe; anzi gli altri carcerati, nelle loro liti frequenti, a lui ricorrevano come a giudice; egli con poche parole rendeva giustizia e spesso i contendenti si pacificavano. Nei tafferugli, quando gli sgabelli volavano per l'aria e i letti si mettevano sossopra per toglierne le tavole e farsene un'arma, egli, sempre sdraiato sul davanzale della finestra, guardava freddamente dapprima, continuando a fumare la sua pipa, ma poi, quando gli sembrava troppo accesa la rissa, balzava in piedi, si faceva largo fra i combattenti, acciuffava i più accaniti e distribuendo ceffoni e calci ristabiliva la quiete. Indi tornava al suo posto riaccendendo la pipa.

Quel davanzale era suo: lo doveva ai suoi pugni che gli avean fatto acquistare un certo ascendente su i suoi compagni. Se ne stava al sole, alla pioggia, al vento, e nessuno osava contrastarglielo. Era arrivato a considerarlo come sua proprietà, e gli altri a poco a poco avevano riconosciuto il suo diritto.

 

Di rimpetto a quella finestra, lontana un 30 metri, c'era una casetta bianca con le persiane vedi. Agli angoli dei balconi alcuni vasi di tuberose e di garofani facevano sfoggio dei loro fiori bianchi e rossi, che si piegavano col loro stelo verso la via. Nei vani biancheggiavano le tendine di mussola, che s'appuntavano ad angolo nel sommo e scendevano allargandosi. Nella stanza di mezzo, il salotto, coi mobili ricoperti di fodera bianca, con le poltroncine ai due capi del divano; sopra una tavola rotonda e inverniciata un vassoio con le tazze e la caffettiera. Il resto del salotto si confondeva nella penombra; ma quando il sole era ad un terzo dell'orizzonte, un raggio di esso penetrava più addentro in quella stanza e si rifletteva in qualche specchio, nella cornice e nei vetri dei quadri, traendone lampe e luccichìi.

A destra ed a sinistra del salotto due stanze da letto; attraverso le cortine s'intravedevano i materassi abballinati su le spalliere di ferro. A capo ai letti alcune sacre immagini, una pila di porcellana per l'acqua benedetta, e un ramoscello di ulivo. Seggiole, ed armadi dalla vernice rossa e lucida s'intravvedevano fra le ombre, talvolta diradate da un raggio di sole.

In quella casetta modesta e pulita abitava la famigliuola di qualche impiegatuccio o di qualche negoziante a minuto.

Era però piena di grida e di festa. Tre fanciulli, due maschietti ed una bambina, cinguettavano, saltellavano, pispigliavano come uccelletti in quella gabbia bianca e pulita. Il loro chiasso aveva qualcosa del pigolìo dei pulcini che hanno il gozzo pieno, degli svolazzamenti dei passerotti sicuri dell'imbeccata. Si intravedevano nell'ombra di quelle stanze ove si rincorrevano, ruzzolavano, si ammucchiavano in un viluppo grazioso di braccia, di gambine, di testine dagli occhietti vivi e ridenti. Se ne udivano le voci acute ed allegre, alle quali spesso si univa qualcuna di pianto, ed allora vedevasi una donna bella e giovine, la madre, col grembiule rialzato, con le falde della veste annodate alla cinta, con le maniche rimboccate su le braccia bianche e grassocce. I piccini le si afferravano alle ginocchia con le testine riverse e gli occhietti vivi e dolci fisi in quelli della madre, che si chinava per cingerli tutti e tre con le sue braccia e per accostare al suo i visetti rosei e gentili dei fanciullini; poi tornava alle sue faccende. Talvolta i due maschietti venivano a lite per un balocco che cercavano strapparsi, mentre la bambina seduta in un canto piangeva fregandosi gli occhi; tal'altra uno di essi si rifugiava singhiozzando in un angolo, mentre gli altri due giocavano ridendo. A merenda, venivano a mettersi in fila presso il balcone, del quale non sorpassavano la balaustrata, e addentavano, guardando in giù, una fetta di pane che masticavano con la bocca piena. La bambina metteva nel suo grembiule le frutta che i fratelli cercavano rubarle destramente dapprima, poi facendole violenza, ed ella cercava difendersi stringendo al petto le cocche del grembiule, ripiegandosi e gridando lasciandosi cadere per terra, rotolando e mettendo allo scoperto le gambe grassocce e la schiena rosea e paffuta. Alle volte sedevano taciti e quieti sul davanzale del balcone, con le gambe tra l'inferriata, guardando attentamente i viandanti e battendo le mani ogni volta che passava un cane, o un cavallo a galoppo. Poi balzavano in piedi gridando e ridendo, chè da lontano avevan visto venire il babbo; e sparivano dal balcone per andare ad assieparsi alla porta di strada.

Il prigioniero, con la fronte alla grata, li guardava. In sulle prime i fanciulli, usi a veder sempre brutti visi fra quelle sbarre nere, non avevano badato a lui, ma un giorno che la bambina piangeva per un balocco strappatole dal fratellino, questi le disse, additandole quel viso barbuto fra le sbarre della prigione:

Zitta, zitta, quello ci guarda!

Anche lui però non aveva saputo trattenere un certo tremito di paura nella voce. La bambina nell'alzar gli occhi si era fatta bianca bianca, e l'altro fratellino era rimasto anche esso immobile ed ammutolito. Tutti e tre erano come affascinati da quello sguardo fisso fra le palpebre nere, da quella faccia barbuta, di cui non vedevano il corpo fra le sbarre incrociate. Poi il prigioniero aveva visto accorrere la madre, fra le cui vesti i fanciullini erano corsi a nascondere la faccia, mentre la bimba, vieppiù stringendosi alla mamma, stendeva la manina verso quella faccia nera e barbuta.

— State queti e non vi farà male, — aveva detto la madre; se stasera non andrete presto a letto, se farete impertinenze a tavola, gli dirò che venga a punirvi.

I fanciulli mogi mogi avean chinato la testa, mentre la madre chiudeva le imposte del balcone.

Il giorno dopo, quando il carcerato tornò al solito posto sul davanzale della finestra, i fanciulli giocavano presso il balcone; però di tanto in tanto la bambina alzava timidamente gli occhi verso la grata. Allorchè lo vide, diè in un grido; egli cercò sorridere più dolcemente che seppe, e fe' un gesto amichevole ai fanciulli che sbigottiti scapparon via. Il prigioniero rimase tutto il giorno, aspettando invano di vederli ricomparire.

— Ho fatto loro pauramormorò — ed han ragione... Oh se sapessero!

Il mattino appresso li rivide ma non fuggirono: però si fermavano spesso a mezzo dei loro giuochi, e sbirciando impauriti parlavano sottovoce. Il più grandetto crollava la testa, gonfiando le guance, sporgendo il musino, agitando le mani come fanno i fanciulli quando narrano qualche cosa di terribile; gli altri lo ascoltavano trepidanti, guardando di sottecchi quella faccia nera, che invano si sforzava di sorridere fra le sbarre del carcere.

Poi venne la madre. Prese in braccio la bambina e incominciò a baciucchiarla. Ella rideva contorcendosi, stirandosi sulle ginocchia della giovine donna, che sedeva su di una seggiola bassa presso al balcone; mentre gli altri fanciulli le facevano il chiasso intorno.

Era di estate; quella donna vestiva una gonnella stretta ai fianchi e una camiciuola, che nel chinarsi della giovine madre si apriva e ne metteva in mostra il petto bianco e pieno.

Il prigioniero guardava con la fronte ai ferri, con le mani avvinghiate alle sbarre. Uno dei fanciulli lo additò alla madre, che, con subito atto, ricompose la camiciuola e corse a chiudere le imposte.

Però quel prigioniero e quei fanciulli divennero amici; essi non fuggivano più vedendolo; il più grandetto si era arrischiato financo a fargli un cenno con la mano; il prigioniero aveva risposto ed aveva sorriso. Si erano avvezzati a vederlo sempre , con la fronte ai ferri e le mani alle sbarre, e non ne avevano più paura; anzi, quando egli prendeva la zuppa, o perchè chiamato alla visita non mostravasi alla inferriata, i fanciulli alzavano gli occhi interrompendo i loro giuochi per domandarsi: — dov'è l'uomo?

Quando ricompariva, l'accoglievano con gridi di gioia, battendo le manine; egli sorrideva e salutava col capo. Fra quei fanciulli e quel recluso c'era come una intelligenza affettuosa; egli teneva dietro ai loro giuochi, ne rideva, si divertiva, parteggiava per questo o quello nelle liti frequenti, faceva loro il broncio, che si manifestava con uno sgranar d'occhi e con gesti d'impazienza e di collera. Pareva però che la preferita fosse la bambina, alla quale egli inviava i baci più sonori accompagnati dai sorrisi più carezzevoli. Un giorno, era salita su di una seggiola e si spenzolava dal balcone; stava quasi per cadere, quando egli die' in un grido di spavento acutissimo e si afferrò, scrollandola, alla inferriata; allorchè vide accorrere la madre, sospirò di sollievo. La madre prese in braccio la bambina e trattala dentro stava per chiudere il balcone; vide quell'uomo e gli sorrise; l'amore materno le aveva fatto comprendere che quel poveretto aveva tremato per la figliuola di lei: forse ne aveva inteso il grido, di sicuro ne vide lo sguardo dolce e carezzevole.

Ma il grido era stato inteso anche dai secondini, ed il poveretto fu punito, perchè non è lecito ai prigionieri parlar con la gente di fuori. Stette tre giorni in carcere duro. Quando ne uscì, tornò alla finestra. I fanciulli che non lo avevano visto da tre giorni, lo accolsero con gridi di gioia e battimani. Egli inviava loro baci e sorrisi tenerissimi.

Un giorno, un compagno si avvicinò a lui e gli disse ridendo:

—    Di' un po', fai l'amore con la madre o coi bambini?

—    Il prigioniero crollò la testa.

— Ho tre bambini anch'io, due maschietti, e una bambina. Avevo la moglie anche... Ecco...

E due lagrime gli scorsero giù per le gote.

Il compagno alzò le spalle e non ci capì nulla; non aveva figli, moglie. Accese la pipa e si allontanò mormorando:

— Che sciocco!

 

Una mattina, quel prigioniero fu chiamato per comparire avanti i suoi giudici. Aveva scalato la casa di un signore per derubarlo. Egli diceva che c'era stato spinto dalla miseria della sua famigliuola che moriva di fame; i bambini ammalati, la moglie ammalata, lui senza lavoro. Dovevano morir di fame dunque? A lui non dava il cuore di veder morire di fame i suoi figliuoli, e di fame e di febbre la moglie. Perciò, quasi pazzo, avendo visto aperta la finestra di quel palazzo, l'aveva scalata. Era stato sorpreso e non aveva opposto resistenza. Poi l'avevano trascinato in carcere... La moglie era morta, e i fanciulli, i suoi fanciulli... chi sa!... Il processo durò un giorno; l'avvocato d'ufficio disse belle parole, ma il suo cliente fu condannato a 20 anni di lavori forzati.

Tornò in carcere la sera, sull'imbrunire. Lo slegarono e lo spinsero carponi per la stretta porticciuola della prigione. I compagni erano a letto. Nel mezzo dello stanzone ardeva fiocamente la lampada. Sulle tavole del letto trovò la minestra fredda ed il pane. Con un gesto fe' cadere pane e scodella e stette immobile.

I compagni, immersi nel sonno, russavano.

Sotto le mura la sentinella gridava “all'erta”; il grido ripetuto faceva il giro del recinto e a poco a poco si affievoliva. L'orologio del carcere batteva le ore e gli squilli acuti si perdevano per lo spazio silenzioso. Pel corridoio passavano i secondini agitando il mazzo delle chiavi — poi di nuovo silenzio. Gli altri carcerati intanto russavano, voltandosi e rivoltandosi su i lettucci, di cui facevano scricchiolar le tavole e frusciar la paglia. Verso la mezzanotte entrò un secondino preceduto da un gran cigolìo di catenacci e da uno stridor di cardini: si diresse verso l'inferriata, ne aprì le imposte e battè su i ferri dal basso in alto, dall'alto in basso, traendone tintinnii sordi e lunghi, colpi or secchi, ora strisciati ed ora con un tal ritmo lamentoso. Di fuori, la città dormiva sotto un bel chiaro di luna, che si rifletteva, inargentandoli, su i vetri delle case. In quel chiarore bianco e diffuso le fiammelle dei fanali lungo le vie apparivano come punti rossi.

Anche la casa dirimpetto al carcere dormiva. Il prigioniero si volse lentamente, e attraverso l'inferriata, mentre il secondino continuava a battere, vi fissò lo sguardo.

Dormonomormorò. — Ed essi? chissà! come i cani in mezzo alle vie… forse son morti come la madre, e sarebbe meglio. Poi riprese, dopo un istante di silenzio:

— Non mi hanno voluto credere, non hanno voluto credere nemmeno all'avvocato! Forse non hanno avuto figliuoli morenti di fame, quelli !...

Il secondino continuava a battere su i ferri. Sulla città silenziosa si spandevano quei tintinnii sinistri, lunghi, come gemiti striduli, come urli di dolore: parea che tutta la gente rinchiusa in quel carcere si fosse fatta a quella grata per gridare imprecando, digrignando i denti e scotendo le sbarre.

Il prigioniero pensava.

— I fanciulli di quel signore avevano pane bianco e begli abiti e letticcioli caldi, e i miei no — non avevano che paglia raccolta per le vie. Tremavano pel freddo, piangevano di fame. Zitti, che la mamma è ammalata! Ma sì, andate a dir zitti allo stomaco vuoto! E il parroco dice che Dio c'è per tutti? Sicuro, Dio c'è per i ricchi... Io non ci credo, a Dio.

Il secondino, dopo aver di nuovo strisciato col mazzuolo sulle sbarre che fremettero squillando, chiuse le imposte; poi, visto quel prigioniero seduto sulla sponda del letto con la testa china e le mani fra le ginocchia, gli disse:

— Ne avrai per vent'anni, eh? Non è poi troppo. Via su, va' a letto.

— No — rispose lui.

Fa' come vuoi, ma non disturbar gli altri. — E se ne andò; il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintola tintinnava: la porta del carcere stridette su i cardini, i catenacci cigolarono, scattò la molla della serratura: poi silenzio.

Il prigioniero rimase tutta la notte , con la testa sul petto e le mani fra le ginocchia.

 

Una domenica, si chiamò il condannato in direzione. Gli si disse che allora allora doveva partire pel bagno.

Tornò alla sua prigione per far fagotto delle sue poche robe. Si accostò alla finestra e guardò verso i balconi dirimpetto.

I fanciulli non c'erano.

— Non li vedrò più! — disse lui.

Dei compagni di stanza, alcuni sedevano su la sponda dei letti, leggendo in certi libracci sucidi e laceri, altri incollavano figurine di carta su scatolette di legno; due o tre fumavano intorno a un tegame rosso con pochi carboni accesi. Quando die' loro l'addio nessuno si mosse: lo seguirono con gli occhi finchè lo videro chinarsi per passare carpone sotto il cancello; poi, quando questo si rinchiuse, tornarono ai loro discorsi ed alle loro faccende. Nel corridoio due carabinieri aspettavano il condannato; gli fecero stendere i polsi, che strinsero in un cerchietto di ferro a vite poi si avviarono.

Era una bella mattina di inverno: c'era il sole sull'orizzonte azzurro, un sole limpido che si stendeva su tutti i tetti rossi e su le mura bianche delle case. Era una domenica; uno scampanìo continuo e festevole si era udito fin dal mattino e la gente traeva in chiesa ad udir la messa. Il condannato, con la testa china e i pollici stretti dalla vite, passava, fra i due carabinieri, in mezzo alla folla che si fermava a guardarlo. Allorchè giunse presso la casetta di quei fanciulli, la luce intensa lo abbagliava, quella gente freddamente curiosa lo indispettiva.

Quando fu quasi dinnanzi, si fermò; aveva visto ritti sullo scalino della porta i tre fanciulli vestiti a festa: aspettavano la mamma per andare in chiesa. La bambina aveva un vestitino rosso guernito alla scollatura di un giro di pelliccia bianca e le scendeva un po' più su delle ginocchia. Le gambette tornite e dritte erano calzate di rosso: in alto fra la veste e le ginocchia appariva la trina delle mutande. I maschi vestivano da marinaio. Tutti e tre tronfi nei loro abitucci di festa, s'impazientivano, gridavano alla mamma di far presto a scendere: la bambina stendeva la gamba per ammirare lo stivalino giallo allacciato fino alla caviglia.

Quando il prigioniero passò loro vicino, la madre scendeva le scale: si sentiva il fruscìo dell'abito di seta; poi comparve. Era bella e gentile nel suo abito scuro con largo fisciù di pelliccia a metà del petto ben rilevato. Rimase ferma per calzare un guanto, raccomandò ai fanciulli che non le si stringessero attorno per non sciuparle i rigonfi del vestito. Il prigioniero si fermò a guardarli, cercando di sorridere, ma una lagrima gli tremava sul ciglio e quel suo sorriso era più amaro di un singhiozzo. I fanciulli, che non lo riconobbero, n'ebbero paura, e si strinsero alla madre.

Cammina — gli gridarono bruscamente i carabinieri.

Egli chinò il capo, poi sollevando le due mani strette ai pollici si asciugò una lagrima.

 

 




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