Erano in sedici
in uno stanzone umido, buio, dalle mura scalcinate, dal pavimento rotto e
disuguale. Lungo le pareti due fila di letti; in un canto un barile ed altri
recipienti luridi. In mezzo pendeva una lampada che si accendeva la notte e
rischiarava lo stanzone di una luce pallida e gialliccia. Al capo di ogni
letto, sulle tavole poggiate sui piuoli infissi al muro, fagottini, orciuoli,
cestini sgangherati, bottiglie rotte, qualche paio di scarpe, qualche pane nero
ed ammuffito. Sui capezzali, incollate al muro con pane ammollito, figurine di
santi e di madonne.
In fondo alla
stanza, dirimpetto alla porta, chiusa anche essa, oltre all'imposta in legno
massiccia e inchiavardata, da un cancello che si apriva al basso appena da far
passare un uomo carpone, era la finestra, più lunga che larga, difesa da grosse
sbarre di ferro che s'incrociavano. Al di là, lo sguardo scorreva su i tetti
delle case, fra i quali qua e là innalzavansi i campanili delle chiese con le
banderuole al vento; dopo i tetti, la campagna verde, disseminata di casette bianche,
fra i gruppi d'alberi sul declivio delle colline o a capo dei sentieruoli. Tra
il verde le pozze d'acqua luccicanti, i ruscelli limpidi che scorrevano lungo i
fossati, ed in mezzo il fiume gialliccio sul greto bianco fra due siepi
d'alberi e di cespugli. In alto il sole splendido che copriva di luce quelle
case e quelle campagne.
Dei prigionieri,
alcuni sedevano sul letto con le spalle al pagliericcio abballinato, intesi
alla lettura di un logoro libraccio; altri rammendavano i loro cenci o incollavano
figurine su scatolette di legno. Due di essi, in mezzo alla stanza, seduti su
sgabelletti, con le mani stese ad un tegame rotto mutato in braciere, con la
pipa in bocca ed il cappotto gittato sugli omeri, discorrevano sottovoce. Nella
penombra di quella stanza bassa ed umida quegli uomini sinistri avevan movenze
angolose e atteggiamenti strani. Un raggio di sole passando fra le grate
disegnava una striscia giallastra sul davanzale e si stendeva fino alla metà
della stanza; su di esso si agitava il polviscolo biondo.
Un prigioniero
sedeva sulla finestra con le spalle alla parete del davanzale e le gambe
penzoloni. Fumava in una corta pipa di creta, con la fronte alle sbarre della
grata, e di tanto in tanto alzava gli occhi per fissarli in una casa di contro,
lontana un 30 metri dal carcere; poi li chinava per guardare al basso la
sentinella, che, nel corridoio formato dalle mura del carcere e da quelle di
cinta, andava e veniva dall'uno all'altro spigolo. Talora, sbadigliando, si
fermava presso il casotto col braccio sulla bocca del fucile, contemplando le
pietre del selciato in atto di chi rifletta; poi alzava gli occhi, e gli
sguardi del soldato s'incontravano in quelli del prigioniero. Quei due non si
conoscevano, pure erano e si sentivano nemici.
Il prigioniero
sdraiato a mezzo sul davanzale era un uomo in su i quaranta anni. Aveva la
barba ispida e brizzolata, le sopracciglia nere, folte, che si ricongiungevano;
la persona tozza e le spalle quadre.
Era là dentro da
un anno ed aveva vissuto come appartato dagli altri, che lo rispettavano per la
sua forza ed il suo coraggio, di cui in più di un tafferuglio aveva dato prova.
Era taciturno,
pensoso, triste. Quando gli altri cantavano, egli se ne stava come ingrugnito.
Quelle canzoni gli facevano male. Di sicuro la vita del carcere non gli aveva
fatto dimenticare, come agli altri, quella vissuta fuori, all'aperto, sotto il
sole. La sera andava a letto appena sonava il silenzio, ma non dormiva:
l'udivano voltarsi e rivoltarsi sul suo letticciolo di paglia; e ciò
infastidiva i vicini che non potevano pigliar sonno per lo scricchiolìo delle
tavole ed il fruscio della paglia. Pure non osavano lagnarsi, perchè lo
temevano, quantunque ei non fosse un attaccabrighe; anzi gli altri carcerati,
nelle loro liti frequenti, a lui ricorrevano come a giudice; egli con poche
parole rendeva giustizia e spesso i contendenti si pacificavano. Nei
tafferugli, quando gli sgabelli volavano per l'aria e i letti si mettevano
sossopra per toglierne le tavole e farsene un'arma, egli, sempre sdraiato sul
davanzale della finestra, guardava freddamente dapprima, continuando a fumare
la sua pipa, ma poi, quando gli sembrava troppo accesa la rissa, balzava in
piedi, si faceva largo fra i combattenti, acciuffava i più accaniti e
distribuendo ceffoni e calci ristabiliva la quiete. Indi tornava al suo posto
riaccendendo la pipa.
Quel davanzale
era suo: lo doveva ai suoi pugni che gli avean fatto acquistare un certo
ascendente su i suoi compagni. Se ne stava là al sole, alla pioggia, al vento, e
nessuno osava contrastarglielo. Era arrivato a considerarlo come sua proprietà,
e gli altri a poco a poco avevano riconosciuto il suo diritto.
Di rimpetto a
quella finestra, lontana un 30 metri, c'era una casetta bianca con le persiane
vedi. Agli angoli dei balconi alcuni vasi di tuberose e di garofani facevano
sfoggio dei loro fiori bianchi e rossi, che si piegavano col loro stelo verso
la via. Nei vani biancheggiavano le tendine di mussola, che s'appuntavano ad
angolo nel sommo e scendevano allargandosi. Nella stanza di mezzo, il salotto,
coi mobili ricoperti di fodera bianca, con le poltroncine ai due capi del
divano; sopra una tavola rotonda e inverniciata un vassoio con le tazze e la
caffettiera. Il resto del salotto si confondeva nella penombra; ma quando il
sole era ad un terzo dell'orizzonte, un raggio di esso penetrava più addentro
in quella stanza e si rifletteva in qualche specchio, nella cornice e nei vetri
dei quadri, traendone lampe e luccichìi.
A destra ed a
sinistra del salotto due stanze da letto; attraverso le cortine s'intravedevano
i materassi abballinati su le spalliere di ferro. A capo ai letti alcune sacre
immagini, una pila di porcellana per l'acqua benedetta, e un ramoscello di
ulivo. Seggiole, ed armadi dalla vernice rossa e lucida s'intravvedevano fra le
ombre, talvolta diradate da un raggio di sole.
In quella casetta
modesta e pulita abitava la famigliuola di qualche impiegatuccio o di qualche
negoziante a minuto.
Era però piena di
grida e di festa. Tre fanciulli, due maschietti ed una bambina, cinguettavano,
saltellavano, pispigliavano come uccelletti in quella gabbia bianca e pulita.
Il loro chiasso aveva qualcosa del pigolìo dei pulcini che hanno il gozzo
pieno, degli svolazzamenti dei passerotti sicuri dell'imbeccata. Si intravedevano
nell'ombra di quelle stanze ove si rincorrevano, ruzzolavano, si ammucchiavano
in un viluppo grazioso di braccia, di gambine, di testine dagli occhietti vivi
e ridenti. Se ne udivano le voci acute ed allegre, alle quali spesso si univa
qualcuna di pianto, ed allora vedevasi una donna bella e giovine, la madre, col
grembiule rialzato, con le falde della veste annodate alla cinta, con le
maniche rimboccate su le braccia bianche e grassocce. I piccini le si
afferravano alle ginocchia con le testine riverse e gli occhietti vivi e dolci
fisi in quelli della madre, che si chinava per cingerli tutti e tre con le sue
braccia e per accostare al suo i visetti rosei e gentili dei fanciullini; poi
tornava alle sue faccende. Talvolta i due maschietti venivano a lite per un
balocco che cercavano strapparsi, mentre la bambina seduta in un canto piangeva
fregandosi gli occhi; tal'altra uno di essi si rifugiava singhiozzando in un
angolo, mentre gli altri due giocavano ridendo. A merenda, venivano a mettersi
in fila presso il balcone, del quale non sorpassavano la balaustrata, e
addentavano, guardando in giù, una fetta di pane che masticavano con la bocca
piena. La bambina metteva nel suo grembiule le frutta che i fratelli cercavano
rubarle destramente dapprima, poi facendole violenza, ed ella cercava
difendersi stringendo al petto le cocche del grembiule, ripiegandosi e gridando
lasciandosi cadere per terra, rotolando e mettendo allo scoperto le gambe
grassocce e la schiena rosea e paffuta. Alle volte sedevano taciti e quieti sul
davanzale del balcone, con le gambe tra l'inferriata, guardando attentamente i
viandanti e battendo le mani ogni volta che passava un cane, o un cavallo a
galoppo. Poi balzavano in piedi gridando e ridendo, chè da lontano avevan visto
venire il babbo; e sparivano dal balcone per andare ad assieparsi alla porta di
strada.
Il prigioniero,
con la fronte alla grata, li guardava. In sulle prime i fanciulli, usi a veder
sempre brutti visi fra quelle sbarre nere, non avevano badato a lui, ma un giorno
che la bambina piangeva per un balocco strappatole dal fratellino, questi le
disse, additandole quel viso barbuto fra le sbarre della prigione:
— Zitta, zitta,
quello lì ci guarda!
Anche lui però
non aveva saputo trattenere un certo tremito di paura nella voce. La bambina
nell'alzar gli occhi si era fatta bianca bianca, e l'altro fratellino era
rimasto anche esso immobile ed ammutolito. Tutti e tre erano come affascinati
da quello sguardo fisso fra le palpebre nere, da quella faccia barbuta, di cui
non vedevano il corpo fra le sbarre incrociate. Poi il prigioniero aveva visto
accorrere la madre, fra le cui vesti i fanciullini erano corsi a nascondere la
faccia, mentre la bimba, vieppiù stringendosi alla mamma, stendeva la manina
verso quella faccia nera e barbuta.
— State queti e
non vi farà male, — aveva detto la madre; se stasera non andrete presto a
letto, se farete impertinenze a tavola, gli dirò che venga a punirvi.
I fanciulli mogi mogi
avean chinato la testa, mentre la madre chiudeva le imposte del balcone.
Il giorno dopo,
quando il carcerato tornò al solito posto sul davanzale della finestra, i
fanciulli giocavano presso il balcone; però di tanto in tanto la bambina alzava
timidamente gli occhi verso la grata. Allorchè lo vide, diè in un grido; egli
cercò sorridere più dolcemente che seppe, e fe' un gesto amichevole ai
fanciulli che sbigottiti scapparon via. Il prigioniero rimase lì tutto il
giorno, aspettando invano di vederli ricomparire.
— Ho fatto loro
paura — mormorò — ed han ragione... Oh se sapessero!
Il mattino
appresso li rivide ma non fuggirono: però si fermavano spesso a mezzo dei loro
giuochi, e sbirciando impauriti parlavano sottovoce. Il più grandetto crollava
la testa, gonfiando le guance, sporgendo il musino, agitando le mani come fanno
i fanciulli quando narrano qualche cosa di terribile; gli altri lo ascoltavano
trepidanti, guardando di sottecchi quella faccia nera, che invano si sforzava
di sorridere fra le sbarre del carcere.
Poi venne la
madre. Prese in braccio la bambina e incominciò a baciucchiarla. Ella rideva
contorcendosi, stirandosi sulle ginocchia della giovine donna, che sedeva su di
una seggiola bassa presso al balcone; mentre gli altri fanciulli le facevano il
chiasso intorno.
Era di estate;
quella donna vestiva una gonnella stretta ai fianchi e una camiciuola, che nel
chinarsi della giovine madre si apriva e ne metteva in mostra il petto bianco e
pieno.
Il prigioniero
guardava con la fronte ai ferri, con le mani avvinghiate alle sbarre. Uno dei
fanciulli lo additò alla madre, che, con subito atto, ricompose la camiciuola e
corse a chiudere le imposte.
Però quel
prigioniero e quei fanciulli divennero amici; essi non fuggivano più vedendolo;
il più grandetto si era arrischiato financo a fargli un cenno con la mano; il
prigioniero aveva risposto ed aveva sorriso. Si erano avvezzati a vederlo
sempre lì, con la fronte ai ferri e le mani alle sbarre, e non ne avevano più
paura; anzi, quando egli prendeva la zuppa, o perchè chiamato alla visita non
mostravasi alla inferriata, i fanciulli alzavano gli occhi interrompendo i loro
giuochi per domandarsi: — dov'è l'uomo?
Quando
ricompariva, l'accoglievano con gridi di gioia, battendo le manine; egli
sorrideva e salutava col capo. Fra quei fanciulli e quel recluso c'era come una
intelligenza affettuosa; egli teneva dietro ai loro giuochi, ne rideva, si
divertiva, parteggiava per questo o quello nelle liti frequenti, faceva loro il
broncio, che si manifestava con uno sgranar d'occhi e con gesti d'impazienza e
di collera. Pareva però che la preferita fosse la bambina, alla quale egli
inviava i baci più sonori accompagnati dai sorrisi più carezzevoli. Un giorno,
era salita su di una seggiola e si spenzolava dal balcone; stava quasi per
cadere, quando egli die' in un grido di spavento acutissimo e si afferrò,
scrollandola, alla inferriata; allorchè vide accorrere la madre, sospirò di
sollievo. La madre prese in braccio la bambina e trattala dentro stava per
chiudere il balcone; vide quell'uomo e gli sorrise; l'amore materno le aveva
fatto comprendere che quel poveretto aveva tremato per la figliuola di lei:
forse ne aveva inteso il grido, di sicuro ne vide lo sguardo dolce e
carezzevole.
Ma il grido era
stato inteso anche dai secondini, ed il poveretto fu punito, perchè non è
lecito ai prigionieri parlar con la gente di fuori. Stette tre giorni in
carcere duro. Quando ne uscì, tornò alla finestra. I fanciulli che non lo
avevano visto da tre giorni, lo accolsero con gridi di gioia e battimani. Egli
inviava loro baci e sorrisi tenerissimi.
Un giorno, un
compagno si avvicinò a lui e gli disse ridendo:
—
Di' un po', fai l'amore con la madre o coi bambini?
—
Il prigioniero crollò la testa.
— Ho tre bambini
anch'io, due maschietti, e una bambina. Avevo la moglie anche... Ecco...
E due lagrime gli
scorsero giù per le gote.
Il compagno alzò
le spalle e non ci capì nulla; non aveva nè figli, nè moglie. Accese la pipa e
si allontanò mormorando:
— Che sciocco!
Una mattina, quel
prigioniero fu chiamato per comparire avanti i suoi giudici. Aveva scalato la
casa di un signore per derubarlo. Egli diceva che c'era stato spinto dalla
miseria della sua famigliuola che moriva di fame; i bambini ammalati, la moglie
ammalata, lui senza lavoro. Dovevano morir di fame dunque? A lui non dava il
cuore di veder morire di fame i suoi figliuoli, e di fame e di febbre la
moglie. Perciò, quasi pazzo, avendo visto aperta la finestra di quel palazzo,
l'aveva scalata. Era stato sorpreso e non aveva opposto resistenza. Poi
l'avevano trascinato in carcere... La moglie era morta, e i fanciulli, i suoi
fanciulli... chi sa!... Il processo durò un giorno; l'avvocato d'ufficio disse
belle parole, ma il suo cliente fu condannato a 20 anni di lavori forzati.
Tornò in carcere
la sera, sull'imbrunire. Lo slegarono e lo spinsero carponi per la stretta
porticciuola della prigione. I compagni erano a letto. Nel mezzo dello stanzone
ardeva fiocamente la lampada. Sulle tavole del letto trovò la minestra fredda
ed il pane. Con un gesto fe' cadere pane e scodella e stette immobile.
I compagni,
immersi nel sonno, russavano.
Sotto le mura la
sentinella gridava “all'erta”; il grido ripetuto faceva il giro del recinto e a
poco a poco si affievoliva. L'orologio del carcere batteva le ore e gli squilli
acuti si perdevano per lo spazio silenzioso. Pel corridoio passavano i
secondini agitando il mazzo delle chiavi — poi di nuovo silenzio. Gli altri
carcerati intanto russavano, voltandosi e rivoltandosi su i lettucci, di cui
facevano scricchiolar le tavole e frusciar la paglia. Verso la mezzanotte entrò
un secondino preceduto da un gran cigolìo di catenacci e da uno stridor di
cardini: si diresse verso l'inferriata, ne aprì le imposte e battè su i ferri
dal basso in alto, dall'alto in basso, traendone tintinnii sordi e lunghi,
colpi or secchi, ora strisciati ed ora con un tal ritmo lamentoso. Di fuori, la
città dormiva sotto un bel chiaro di luna, che si rifletteva, inargentandoli,
su i vetri delle case. In quel chiarore bianco e diffuso le fiammelle dei
fanali lungo le vie apparivano come punti rossi.
Anche la casa
dirimpetto al carcere dormiva. Il prigioniero si volse lentamente, e attraverso
l'inferriata, mentre il secondino continuava a battere, vi fissò lo sguardo.
— Dormono —
mormorò. — Ed essi? chissà! come i cani in mezzo alle vie… forse son morti come
la madre, e sarebbe meglio. Poi riprese, dopo un istante di silenzio:
— Non mi hanno
voluto credere, non hanno voluto credere nemmeno all'avvocato! Forse non hanno
avuto figliuoli morenti di fame, quelli lì!...
Il secondino
continuava a battere su i ferri. Sulla città silenziosa si spandevano quei
tintinnii sinistri, lunghi, come gemiti striduli, come urli di dolore: parea che
tutta la gente rinchiusa in quel carcere si fosse fatta a quella grata per
gridare imprecando, digrignando i denti e scotendo le sbarre.
Il prigioniero
pensava.
— I fanciulli di
quel signore avevano pane bianco e begli abiti e letticcioli caldi, e i miei no
— non avevano che paglia raccolta per le vie. Tremavano pel freddo, piangevano
di fame. Zitti, che la mamma è ammalata! Ma sì, andate a dir zitti allo stomaco
vuoto! E il parroco dice che Dio c'è per tutti? Sicuro, Dio c'è per i ricchi...
Io non ci credo, a Dio.
Il secondino,
dopo aver di nuovo strisciato col mazzuolo sulle sbarre che fremettero
squillando, chiuse le imposte; poi, visto quel prigioniero seduto sulla sponda
del letto con la testa china e le mani fra le ginocchia, gli disse:
— Ne avrai per
vent'anni, eh? Non è poi troppo. Via su, va' a letto.
— No — rispose
lui.
— Fa' come vuoi,
ma non disturbar gli altri. — E se ne andò; il mazzo di chiavi che gli pendeva
dalla cintola tintinnava: la porta del carcere stridette su i cardini, i catenacci
cigolarono, scattò la molla della serratura: poi silenzio.
Il prigioniero
rimase tutta la notte là, con la testa sul petto e le mani fra le ginocchia.
Una domenica, si
chiamò il condannato in direzione. Gli si disse che allora allora doveva partire
pel bagno.
Tornò alla sua
prigione per far fagotto delle sue poche robe. Si accostò alla finestra e
guardò verso i balconi dirimpetto.
I fanciulli non
c'erano.
— Non li vedrò
più! — disse lui.
Dei compagni di
stanza, alcuni sedevano su la sponda dei letti, leggendo in certi libracci
sucidi e laceri, altri incollavano figurine di carta su scatolette di legno;
due o tre fumavano intorno a un tegame rosso con pochi carboni accesi. Quando
die' loro l'addio nessuno si mosse: lo seguirono con gli occhi finchè lo videro
chinarsi per passare carpone sotto il cancello; poi, quando questo si
rinchiuse, tornarono ai loro discorsi ed alle loro faccende. Nel corridoio due
carabinieri aspettavano il condannato; gli fecero stendere i polsi, che
strinsero in un cerchietto di ferro a vite poi si avviarono.
Era una bella
mattina di inverno: c'era il sole sull'orizzonte azzurro, un sole limpido che
si stendeva su tutti i tetti rossi e su le mura bianche delle case. Era una
domenica; uno scampanìo continuo e festevole si era udito fin dal mattino e la
gente traeva in chiesa ad udir la messa. Il condannato, con la testa china e i
pollici stretti dalla vite, passava, fra i due carabinieri, in mezzo alla folla
che si fermava a guardarlo. Allorchè giunse presso la casetta di quei
fanciulli, la luce intensa lo abbagliava, quella gente freddamente curiosa lo
indispettiva.
Quando fu quasi
dinnanzi, si fermò; aveva visto ritti sullo scalino della porta i tre fanciulli
vestiti a festa: aspettavano la mamma per andare in chiesa. La bambina aveva un
vestitino rosso guernito alla scollatura di un giro di pelliccia bianca e le
scendeva un po' più su delle ginocchia. Le gambette tornite e dritte erano
calzate di rosso: in alto fra la veste e le ginocchia appariva la trina delle
mutande. I maschi vestivano da marinaio. Tutti e tre tronfi nei loro abitucci
di festa, s'impazientivano, gridavano alla mamma di far presto a scendere: la
bambina stendeva la gamba per ammirare lo stivalino giallo allacciato fino alla
caviglia.
Quando il prigioniero
passò loro vicino, la madre scendeva le scale: si sentiva il fruscìo dell'abito
di seta; poi comparve. Era bella e gentile nel suo abito scuro con largo fisciù
di pelliccia a metà del petto ben rilevato. Rimase ferma per calzare un guanto,
raccomandò ai fanciulli che non le si stringessero attorno per non sciuparle i
rigonfi del vestito. Il prigioniero si fermò a guardarli, cercando di
sorridere, ma una lagrima gli tremava sul ciglio e quel suo sorriso era più
amaro di un singhiozzo. I fanciulli, che non lo riconobbero, n'ebbero paura, e
si strinsero alla madre.
— Cammina — gli
gridarono bruscamente i carabinieri.
Egli chinò il
capo, poi sollevando le due mani strette ai pollici si asciugò una lagrima.
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