La casetta è
bianca coi tetti rossi. Agli angoli dei tre balconcini, vasi di fiori ed erbe odorose.
È posta all'estremità del paese, talchè è la prima se venendo dalla montagna si
entra in città, l'ultima se da questa si va a quella. Nelle colline a destra e
di rimpette, si distendono, salendo fino al sommo, le case ed i palazzi, fra i
quali si ergono, con le banderuole al vento, i campanili. In alto, il castello
screpolato e muscoso; presso al castello il convento, bianco fra il verde dei
pini.
La casetta è
fiancheggiata dalla via che si eleva sulla diga del fiume, il quale vien giù
dai monti di rimpetto, poi, appena in città, devìa formando un angolo.
Nell'angolo havvi il ponte cui mette capo la via, affollata nel sabato da
contadini che vanno al mercato o ne tornano. Nel balcone di mezzo di quella
casetta, siede, quando ci è il sole, un vecchio. È alto, magro, stecchito;
rughe profonde s'intrecciano sul viso smunto, nel quale brillano due occhi
dalle palpebre orlate di rosso. Si avvolge in un pastrano di panno nero; un
gran cappello di feltro gli copre il capo e da sotto il cappello escono alcune
ciocche di capelli bianchi dai riflessi argentini. C'è una grande dolcezza
negli occhi e nella bocca di quell'uomo, che con una mano sulla balaustrata del
balcone, la testa sulla mano, guarda per ore ed ore in un punto della campagna.
Quel vecchio è un
sacerdote.
A sinistra della
casetta, circa ad un trar di pietra, incomincia il greto, quasi sempre a secco,
del torrente di Rovito, accavalcato anche esso da un ponte. Di là, il torrente
sale fra due colline verdi: da sotto il ponte si vede a poco a poco
restringersi, salendo, quel greto, finchè lontano lontano appare come angusta
fessura tra le montagne. Dirimpetto ed assai lungi, ove il cielo par che si
abbassi, i monti della Sila, dai fianchi scuri e dalle creste bianche, si
elevano giganti. A 360 metri dal ponte, havvi un acquedotto, il cui grande arco
unisce le due colline. Alle basi dell'arco crescono folte vegetazioni di erbe
parassite che si arrampicano, si intrecciano, e alcune spingono in alto i loro
steli e tappezzano delle loro foglie le muraglie muscose e stillanti. Tra il
ponte e l'acquedotto, il greto si allarga e le colline scendono con dolce
pendìo coltivato a grano ed a legumi; qua e là, fra le erbe verdi, elevasi
qualche alberetto dal tronco rugoso e dai rami contorti. Siepi, steccati, muricciuoli
dividono il greto dal terreno coltivato. Sulle siepi, sui muricciuoli, su gli
alberetti, le lavandaie sciorinano i panni che ondeggiano lievi al soffio del
vento: le capre, inerpicate su le balze, brucano l'erbe con un monotono
tintinno di campanelli, mentre fra due massi, sdraiato, il pastore caccia note
spaventose dal suo fischietto. Le lavandaie, curve su le sponde del fiume,
battono i panni e cantano.
Il luogo è
deserto: inondato di sole è malinconico, ammantato di tenebre è sinistro. La
notte, quel greto che sale fra le colline, sembra il lungo corridoio nero di
una casa fatta di tenebre, di cui l'arco dell'acquedotto sia la porta. Da quel
corridoio scende giù sibilando il vento dalla montagna e mugola e rugge e geme
e si lamenta e va a percuotere furioso la città dirimpetto. La città dorme, ma
quel vallone veglia. Vi guizzan fiammelle rapide, vi splendon chiarori fugaci,
vi si odono voci indistinte e sinistre, frulli d'ale, latrati sordi, schianti
di rami, rovinii di massi, cui succedono lunghi e paurosi silenzi. — Al
mattino, tornano le lavandaie a sciorinare i panni al sole, tornano le capre a
inerpicarsi su le balze, torna il pecoraro a rompere i silenzi melanconici con
le note del suo fischietto.
Quando il
temporale nereggia ed imperversa su la montagna, da prima a ruscello con lieve
murmure, poscia a torrente con gran fragore scendono le acque, che vanno col
loro impeto, con la loro ira ad accrescere l'impeto e l'ira del Crati. Da lungi
la gran massa fangosa e rossiccia, stretta fra le due sponde, si gonfia e
ribolle precipitando; strappa i cespugli e le siepi, spezza e travolge gli
arboscelli, rode e precipita i muricciuoli, rotola i massi enormi, e qui, ove è
più angusto il greto e robusta la ripa, striscia spumando e rombando; là, dove il
greto è più ampio, si allarga fragorosa, finchè di nuovo raccogliesi per
passare strisciando, gonfiando e spruzzando in alto la spuma rossiccia, sotto
il ponte che trema e risuona cupo all'urto poderoso, e talvolta anche esso
battuto a breccia precipita e sparisce sotto l'acque, che ne divelgono e via
trascinano i massi e riempiono gli archi di fango e di arene. Poi, a poco a
poco, le acque si abbassano, le ire si calmano, cessa il fragore, ed un lento
ruscello, avanzo del torrente impetuoso, scorre per breve tempo, lambendo con
dolce murmure le colline davastate e il ponte rotto e cadente. Tra il ponte e
l'acquedotto, ove il greto si allarga, a ridosso di una collinetta coltivata a
legumi, sorge una colonna con una croce in cima. La croce è rôsa dalla ruggine,
la colonna è rôsa dalle piogge e dal tempo. Una siepe la divide dal greto. Su
quella colonna e su quella siepe spesso le lavandaie sciorinano i loro panni.
L'arco
dell'acquedotto si delinea come l'arco di un palcoscenico. Al di là di
quell'arco si rappresentarono tragedie terribili e sanguinose, le quali ebbero
per scenario gigantesco e solenne le montagne della Sila, che attraverso
quell'arco si veggono delineare nell'orizzonte; per palchi, le colline che fan
ripa al torrente, ove la folla prendeva posto; per platea, il greto tra il
ponte e l'acquedotto. Erano attori il carnefice ed i condannati a morte. Tutta
notte, al buio di quel vallone, ci era stato un affaccendarsi di ombre, un
martellar sordo alla luce rossa delle fiaccole. Pochi passi al di là di
quell'arco, si ergeva una piattaforma, sulla piattaforma un ceppo, sul ceppo un
cerchio, sul cerchio due assi fra le quali scorreva una mannaia. La mannaia,
assicurata in alto con una corda, era tersa, forbita, spalmata d'olio. Al
mattino l'opra di quelle ombre era compiuta, nera, formidabile, sul fondo verde
delle dietrostanti montagne, e la mannaia in alto, fra le assi, scintillava
come argento.
La gente a poco a
poco veniva a prender posto sul greto, sul ponte, sulle colline. Si assideva
sui sassi, sui muricciuoli, con gli occhi fisi su quel palco. Susurrava,
discorreva, rideva. Già uno degli attori era salito sulla piattaforma ed
aspettava. Vestito di rosso, con le braccia nude e pelose conserte al seno, con
le gambe accavalcate, con l'aria di chi aspetta e si annoia, si appoggiava ad
una delle travi di sostegno. Di tanto in tanto rispondeva un po' brusco ai più
vicini che gli chiedevano spiegazioni e che s'interessavano alle sue risposte.
Ma gli spettatori si impazientivano: i monelli si rincorrevano. Il sole
splendeva in alto; la città dirimpetto riguardava. Pareva un grande occhio
bianco senza pupilla.
Poi dalle carceri
vicine si udiva uno squillo di campana a morto; era segno che la
rappresentazione incominciava. Un fremito correva per la folla; l'uomo rosso si
apprestava a far la sua parte, si scoteva, si aggirava qua e là pel palco. Da
sopra il ponte vedeasi scendere un corteo; due fila di soldati, in mezzo un
uomo livido vestito di nero, sostenuto per le braccia da due secondini. Presso
all'uomo livido vestito di nero, un prete che teneva alto un crocifisso e
mormorava non so che parole; poi la confraternita della Morte con una gran
croce di metallo lucente che si elevava su tutti, e il sole traeva scintille da
quella croce e da quella mannaia.
La folla si
apriva silenziosa; il corteo, giunto all'arco dell'acquedotto, si divideva in
due ali: il palco era in mezzo. La croce, tenuta alta da uno dei confratelli,
splendeva irraggiata dal sole, rimpetto al palco. Quell'uomo livido e nero era
spinto su per la scaletta, sostenuto dal prete, tirato su per un braccio dal
carnefice, spinto dai secondini, si trascinava sulla piattaforma.
Il cerchio sul
ceppo si apriva; il carnefice, stringendo con le braccia robuste il condannato,
lo costringeva a chinarsi, a piegare il collo, a posar la testa in quel cerchio
che si racchiudeva. Il prete, in fondo del palco, con gli occhi fisi sul
crocifisso, mormorava le preci dei defunti: le campane della città sonavano a
mortorio: il sole, in alto, sul cielo azzurro, traeva scintille dalla mannaia e
dalla croce.
Poi l'uomo rosso
snodava la fune assicurata od un chiodo della piattaforma: un lampo bianco
guizzava dall'alto in basso, un tonfo sordo si udiva, una testa di qua, un
corpo di là cadevano tra fiotti di sangue. Quella testa, presa pei capelli, era
mostrata al popolo silenzioso da quell'uomo rosso che aveva le braccia e il
viso macchiati di sangue: poi quel corpo che ancor torcevasi, quel capo che
apriva e chiudeva le palpebre, digrignava i denti e pioveva sangue dalle carni
sfilacciate del collo, erano gittati in una cassa. Fra il cerchio, in luogo di
una testa, striata di sangue vedevasi la mannaia.
E da lontano la
città guardava come un grande occhio bianco senza pupilla.
Oggi quel luogo è
deserto. Il sole malinconico di ottobre lo rischiara coi suoi raggi gialli.
Sull'alto delle balze alcune capre brucano l'erba: laggiù le lavandaie battono
i panni sulle pietre del fiume e cantano. Sotto l'arco dell'acquedotto passa
qualche contadino fumando la pipa di creta e menandosi innanzi l'asinello.
L'arena morbida e gialliccia del greto smorza il rumore dei passi; ma il
silenzio è rotto dal fischietto del pecoraio, triste anche esso. Si ode
sommesso e ad intervalli anche un canto; vien dalle finestre del carcere, chiuse
da sbarre incrociate, attraverso le quali s'intravvedono facce sinistre, barbe
nere e folte, occhi che lampeggiane. Al basso, un soldato col fucile al braccio
passeggia. Poi il canto tace, il fischietto tace: il greto del torrente sale
silenzioso su per le colline verdi e va a perdersi lontano lontano, ove
incontra, come immensa barriera, le montagne della Sila.
Quel vecchio
scarno e bianco, con tanta dolcezza negli occhi e nella bocca, che seduto sul
balcone della sua casetta, guarda pensoso e raccolto quella colonna, quella
croce, quel letto di torrente, è il sacerdote Beniamino De Rose.
Il 25 luglio
1844, dove ora sorge quella colonna, alcuni giovani, che la storia ricorda col
nome dei fratelli Bandiera, si schierarono baldi e sicuri innanzi una fila di
soldati commossi, ma costretti ad uccidere. E mentre la folla piangente li
contemplava; mentre la città, che pochi giorni innanzi aveva visto uccidere sei
dei suoi figliuoli, ricordati appena dalla storia, ma gloriosi ed eroici anche
essi, guardava dall'alto delle colline come un grande occhio bianco senza
pupilla, essi, col petto ai fucili spianati, cantavano:
Chi per la
patria muor vissuto è assai!
e a mezzo del verso cadevano
fulminati, col petto rotto, con la testa forata, là, su quel greto, ove ora
sorge una colonna ed una croce.
Quel sacerdote,
in carcere, ne aveva raccolto le ultime parole: li aveva accompagnati dal
carcere al luogo del supplizio, parlando loro di Dio, della patria e della
dolce madre lontana. Attraverso le lagrime li aveva visti sorridere quando i
fucili si spianarono; li aveva visti, tra una nuvola di fumo, cader fulminati e
sanguinanti. Quando fu solo con quei morti, li aveva baciati in fronte come
fratello a fratello: e per 22 anni aveva custodito gelosamente in cuore gli ultimi
voleri, gli ultimi saluti, le ultime parole di quei giovinetti. Nel 1866, quel
sacerdote, fatto vecchio, aveva affrontato i disagi di un lungo cammino per
visitare la vegliarda madre di quei morti, per portare a lei, sconsolata, i
ricordi, i saluti degli eroici figliuoli, i quali alle parole di quel vecchio
rivissero agli occhi della madre, come alla vista della madre rivissero agli
occhi di quel vecchio.
Ora quel
sacerdote è là, sul balconcino della sua casetta, e guarda pensoso e raccolto
quel memore luogo.
Forse favella coi
morti delle miserie dei vivi!