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Nicola Misasi
In Magna Sila

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  • Vallone di Rovito PAESAGGIO TRAGICO
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Vallone di Rovito

PAESAGGIO TRAGICO

 

La casetta è bianca coi tetti rossi. Agli angoli dei tre balconcini, vasi di fiori ed erbe odorose. È posta all'estremità del paese, talchè è la prima se venendo dalla montagna si entra in città, l'ultima se da questa si va a quella. Nelle colline a destra e di rimpette, si distendono, salendo fino al sommo, le case ed i palazzi, fra i quali si ergono, con le banderuole al vento, i campanili. In alto, il castello screpolato e muscoso; presso al castello il convento, bianco fra il verde dei pini.

La casetta è fiancheggiata dalla via che si eleva sulla diga del fiume, il quale vien giù dai monti di rimpetto, poi, appena in città, devìa formando un angolo. Nell'angolo havvi il ponte cui mette capo la via, affollata nel sabato da contadini che vanno al mercato o ne tornano. Nel balcone di mezzo di quella casetta, siede, quando ci è il sole, un vecchio. È alto, magro, stecchito; rughe profonde s'intrecciano sul viso smunto, nel quale brillano due occhi dalle palpebre orlate di rosso. Si avvolge in un pastrano di panno nero; un gran cappello di feltro gli copre il capo e da sotto il cappello escono alcune ciocche di capelli bianchi dai riflessi argentini. C'è una grande dolcezza negli occhi e nella bocca di quell'uomo, che con una mano sulla balaustrata del balcone, la testa sulla mano, guarda per ore ed ore in un punto della campagna.

Quel vecchio è un sacerdote.

A sinistra della casetta, circa ad un trar di pietra, incomincia il greto, quasi sempre a secco, del torrente di Rovito, accavalcato anche esso da un ponte. Di , il torrente sale fra due colline verdi: da sotto il ponte si vede a poco a poco restringersi, salendo, quel greto, finchè lontano lontano appare come angusta fessura tra le montagne. Dirimpetto ed assai lungi, ove il cielo par che si abbassi, i monti della Sila, dai fianchi scuri e dalle creste bianche, si elevano giganti. A 360 metri dal ponte, havvi un acquedotto, il cui grande arco unisce le due colline. Alle basi dell'arco crescono folte vegetazioni di erbe parassite che si arrampicano, si intrecciano, e alcune spingono in alto i loro steli e tappezzano delle loro foglie le muraglie muscose e stillanti. Tra il ponte e l'acquedotto, il greto si allarga e le colline scendono con dolce pendìo coltivato a grano ed a legumi; qua e , fra le erbe verdi, elevasi qualche alberetto dal tronco rugoso e dai rami contorti. Siepi, steccati, muricciuoli dividono il greto dal terreno coltivato. Sulle siepi, sui muricciuoli, su gli alberetti, le lavandaie sciorinano i panni che ondeggiano lievi al soffio del vento: le capre, inerpicate su le balze, brucano l'erbe con un monotono tintinno di campanelli, mentre fra due massi, sdraiato, il pastore caccia note spaventose dal suo fischietto. Le lavandaie, curve su le sponde del fiume, battono i panni e cantano.

Il luogo è deserto: inondato di sole è malinconico, ammantato di tenebre è sinistro. La notte, quel greto che sale fra le colline, sembra il lungo corridoio nero di una casa fatta di tenebre, di cui l'arco dell'acquedotto sia la porta. Da quel corridoio scende giù sibilando il vento dalla montagna e mugola e rugge e geme e si lamenta e va a percuotere furioso la città dirimpetto. La città dorme, ma quel vallone veglia. Vi guizzan fiammelle rapide, vi splendon chiarori fugaci, vi si odono voci indistinte e sinistre, frulli d'ale, latrati sordi, schianti di rami, rovinii di massi, cui succedono lunghi e paurosi silenzi. — Al mattino, tornano le lavandaie a sciorinare i panni al sole, tornano le capre a inerpicarsi su le balze, torna il pecoraro a rompere i silenzi melanconici con le note del suo fischietto.

Quando il temporale nereggia ed imperversa su la montagna, da prima a ruscello con lieve murmure, poscia a torrente con gran fragore scendono le acque, che vanno col loro impeto, con la loro ira ad accrescere l'impeto e l'ira del Crati. Da lungi la gran massa fangosa e rossiccia, stretta fra le due sponde, si gonfia e ribolle precipitando; strappa i cespugli e le siepi, spezza e travolge gli arboscelli, rode e precipita i muricciuoli, rotola i massi enormi, e qui, ove è più angusto il greto e robusta la ripa, striscia spumando e rombando; , dove il greto è più ampio, si allarga fragorosa, finchè di nuovo raccogliesi per passare strisciando, gonfiando e spruzzando in alto la spuma rossiccia, sotto il ponte che trema e risuona cupo all'urto poderoso, e talvolta anche esso battuto a breccia precipita e sparisce sotto l'acque, che ne divelgono e via trascinano i massi e riempiono gli archi di fango e di arene. Poi, a poco a poco, le acque si abbassano, le ire si calmano, cessa il fragore, ed un lento ruscello, avanzo del torrente impetuoso, scorre per breve tempo, lambendo con dolce murmure le colline davastate e il ponte rotto e cadente. Tra il ponte e l'acquedotto, ove il greto si allarga, a ridosso di una collinetta coltivata a legumi, sorge una colonna con una croce in cima. La croce è rôsa dalla ruggine, la colonna è rôsa dalle piogge e dal tempo. Una siepe la divide dal greto. Su quella colonna e su quella siepe spesso le lavandaie sciorinano i loro panni.

L'arco dell'acquedotto si delinea come l'arco di un palcoscenico. Al di di quell'arco si rappresentarono tragedie terribili e sanguinose, le quali ebbero per scenario gigantesco e solenne le montagne della Sila, che attraverso quell'arco si veggono delineare nell'orizzonte; per palchi, le colline che fan ripa al torrente, ove la folla prendeva posto; per platea, il greto tra il ponte e l'acquedotto. Erano attori il carnefice ed i condannati a morte. Tutta notte, al buio di quel vallone, ci era stato un affaccendarsi di ombre, un martellar sordo alla luce rossa delle fiaccole. Pochi passi al di di quell'arco, si ergeva una piattaforma, sulla piattaforma un ceppo, sul ceppo un cerchio, sul cerchio due assi fra le quali scorreva una mannaia. La mannaia, assicurata in alto con una corda, era tersa, forbita, spalmata d'olio. Al mattino l'opra di quelle ombre era compiuta, nera, formidabile, sul fondo verde delle dietrostanti montagne, e la mannaia in alto, fra le assi, scintillava come argento.

La gente a poco a poco veniva a prender posto sul greto, sul ponte, sulle colline. Si assideva sui sassi, sui muricciuoli, con gli occhi fisi su quel palco. Susurrava, discorreva, rideva. Già uno degli attori era salito sulla piattaforma ed aspettava. Vestito di rosso, con le braccia nude e pelose conserte al seno, con le gambe accavalcate, con l'aria di chi aspetta e si annoia, si appoggiava ad una delle travi di sostegno. Di tanto in tanto rispondeva un po' brusco ai più vicini che gli chiedevano spiegazioni e che s'interessavano alle sue risposte. Ma gli spettatori si impazientivano: i monelli si rincorrevano. Il sole splendeva in alto; la città dirimpetto riguardava. Pareva un grande occhio bianco senza pupilla.

Poi dalle carceri vicine si udiva uno squillo di campana a morto; era segno che la rappresentazione incominciava. Un fremito correva per la folla; l'uomo rosso si apprestava a far la sua parte, si scoteva, si aggirava qua e pel palco. Da sopra il ponte vedeasi scendere un corteo; due fila di soldati, in mezzo un uomo livido vestito di nero, sostenuto per le braccia da due secondini. Presso all'uomo livido vestito di nero, un prete che teneva alto un crocifisso e mormorava non so che parole; poi la confraternita della Morte con una gran croce di metallo lucente che si elevava su tutti, e il sole traeva scintille da quella croce e da quella mannaia.

La folla si apriva silenziosa; il corteo, giunto all'arco dell'acquedotto, si divideva in due ali: il palco era in mezzo. La croce, tenuta alta da uno dei confratelli, splendeva irraggiata dal sole, rimpetto al palco. Quell'uomo livido e nero era spinto su per la scaletta, sostenuto dal prete, tirato su per un braccio dal carnefice, spinto dai secondini, si trascinava sulla piattaforma.

Il cerchio sul ceppo si apriva; il carnefice, stringendo con le braccia robuste il condannato, lo costringeva a chinarsi, a piegare il collo, a posar la testa in quel cerchio che si racchiudeva. Il prete, in fondo del palco, con gli occhi fisi sul crocifisso, mormorava le preci dei defunti: le campane della città sonavano a mortorio: il sole, in alto, sul cielo azzurro, traeva scintille dalla mannaia e dalla croce.

Poi l'uomo rosso snodava la fune assicurata od un chiodo della piattaforma: un lampo bianco guizzava dall'alto in basso, un tonfo sordo si udiva, una testa di qua, un corpo di cadevano tra fiotti di sangue. Quella testa, presa pei capelli, era mostrata al popolo silenzioso da quell'uomo rosso che aveva le braccia e il viso macchiati di sangue: poi quel corpo che ancor torcevasi, quel capo che apriva e chiudeva le palpebre, digrignava i denti e pioveva sangue dalle carni sfilacciate del collo, erano gittati in una cassa. Fra il cerchio, in luogo di una testa, striata di sangue vedevasi la mannaia.

E da lontano la città guardava come un grande occhio bianco senza pupilla.

 

Oggi quel luogo è deserto. Il sole malinconico di ottobre lo rischiara coi suoi raggi gialli. Sull'alto delle balze alcune capre brucano l'erba: laggiù le lavandaie battono i panni sulle pietre del fiume e cantano. Sotto l'arco dell'acquedotto passa qualche contadino fumando la pipa di creta e menandosi innanzi l'asinello. L'arena morbida e gialliccia del greto smorza il rumore dei passi; ma il silenzio è rotto dal fischietto del pecoraio, triste anche esso. Si ode sommesso e ad intervalli anche un canto; vien dalle finestre del carcere, chiuse da sbarre incrociate, attraverso le quali s'intravvedono facce sinistre, barbe nere e folte, occhi che lampeggiane. Al basso, un soldato col fucile al braccio passeggia. Poi il canto tace, il fischietto tace: il greto del torrente sale silenzioso su per le colline verdi e va a perdersi lontano lontano, ove incontra, come immensa barriera, le montagne della Sila.

 

Quel vecchio scarno e bianco, con tanta dolcezza negli occhi e nella bocca, che seduto sul balcone della sua casetta, guarda pensoso e raccolto quella colonna, quella croce, quel letto di torrente, è il sacerdote Beniamino De Rose.

Il 25 luglio 1844, dove ora sorge quella colonna, alcuni giovani, che la storia ricorda col nome dei fratelli Bandiera, si schierarono baldi e sicuri innanzi una fila di soldati commossi, ma costretti ad uccidere. E mentre la folla piangente li contemplava; mentre la città, che pochi giorni innanzi aveva visto uccidere sei dei suoi figliuoli, ricordati appena dalla storia, ma gloriosi ed eroici anche essi, guardava dall'alto delle colline come un grande occhio bianco senza pupilla, essi, col petto ai fucili spianati, cantavano:

Chi per la patria muor vissuto è assai!

e a mezzo del verso cadevano fulminati, col petto rotto, con la testa forata, , su quel greto, ove ora sorge una colonna ed una croce.

Quel sacerdote, in carcere, ne aveva raccolto le ultime parole: li aveva accompagnati dal carcere al luogo del supplizio, parlando loro di Dio, della patria e della dolce madre lontana. Attraverso le lagrime li aveva visti sorridere quando i fucili si spianarono; li aveva visti, tra una nuvola di fumo, cader fulminati e sanguinanti. Quando fu solo con quei morti, li aveva baciati in fronte come fratello a fratello: e per 22 anni aveva custodito gelosamente in cuore gli ultimi voleri, gli ultimi saluti, le ultime parole di quei giovinetti. Nel 1866, quel sacerdote, fatto vecchio, aveva affrontato i disagi di un lungo cammino per visitare la vegliarda madre di quei morti, per portare a lei, sconsolata, i ricordi, i saluti degli eroici figliuoli, i quali alle parole di quel vecchio rivissero agli occhi della madre, come alla vista della madre rivissero agli occhi di quel vecchio.

Ora quel sacerdote è , sul balconcino della sua casetta, e guarda pensoso e raccolto quel memore luogo.

Forse favella coi morti delle miserie dei vivi!

 

 




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