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Nicola Misasi
In Magna Sila

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  • Un marito che si vendica
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Un marito che si vendica

 

Una sera, tornando affaticato dalla solfatara, dopo avere sgobbato per tutto il giorno sul libro degli introiti e delle spese, erasi imbattuto nel suo compare Giovanni, contadino allora allora giunto da Calabria, per chiedere anche esso lavoro, come tanti dei suoi compaesani, agli appaltatori delle solfatare.

— Oh, signor compare! — aveva esclamato Giovanni, togliendosi il cappellaccio.

Compare Giovanni! anche tu qui! Quando sei arrivato?

Stamattina.

— Ed hai nulla per me?

— Nulla, sor compare mio.

Vedesti mamma, prima di partire? vedesti... mia, moglie?

Sissignore; domenica alla messa di morsello vidi la signora comare donna Peppina, vostra madre; sta bene e vi saluta.

— E vedesti mia moglie?

— Sì, anche, dalla finestra. La salutai e le dissi se voleva darmi lettere per voi.

— E... nulla?

— Nulla: però vi saluta e vi manda a dire che sta bene.

Francesco si abbuiò in viso; stette pensoso per poco con gli occhi fisi sul contadino, il quale, come se avesse voluto evitarne lo sguardo, pareva intento ad aggiustarsi la bisaccia sul dorso.

Andiamo a bere un mezzo litrodisse infine Francesco — mi racconterai le novità del paese.

E s'incamminò, seguìto dal contadino. Imbruniva; i minatori col piccone ed il corbello sugli omeri tornavano dalla solfatara, a brigatelle ed alla spicciolata. Discorrevano sommessi, stanchi dalle aspre fatiche del giorno: predominava nelle voci l'accento aspro e nasale dei montanari silani, emigrati dalle montagne dopo la mietitura, per cercar lavoro nelle solfatare di Sicilia, ove, perchè forti e tenaci alla fatica, parchi al cibo e contenti di poca mercede, son preferiti ai lavoratori che colà si riversano dalle altre contrade. Passando vicino a Francesco, che aveva l'impiego di soprastante e di contabile nelle solfatare ed era loro compaesano, si sberrettavano con un “buonasera”. Egli rispondeva distratto con un cenno del capo e camminava silenzioso, seguìto dal contadino. Giunto alle prime case del villaggio, entrò nella tavernuola affollata dai lavoratori, i quali, alla luce fioca di una lucernetta a tre becchi pendente dal soffitto, seduti sopra sgabelletti di legno, coi gomiti sulle panche bisunte ingombre di bottiglie, di bicchieri, di piattelli e di grandi pezzi di pan nero, cenavano ciarlando, mentre alcuni, negli angoli più lontani, giocavano a tresette.

Buona sera, signor soprastantedissero i più vicino all'uscio, quando videro entrar quei due.

Buona sera. Portami un litro e due bicchierigridò Francesco al tavernaio, che sul banco in fondo misurava il vino e pesava agli avventori formaggi e salami.

Nell'angolo più buio in fondo alla cameraccia vide un deschetto non occupato. Sedè con le spalle agli avventori e dirimpetto a lui fe' sedere il suo compare Giovanni. Un ragazzo cencioso e sporco mise sulla tavola una bottiglia e due bicchieri: Francesco mescè il vino, porse un bicchiere al compagno e bevve l'altro di un fiato; tornò a mescere, tornò a bere, succhiò le punte dei baffi e posò con forza il bicchiere sulla tavola.

— Dunque nulla? mamma, Angela, nulla?

— Nulla. Però la signora comare vostra madre mi disse che vi aveva scritto e che non aveva niente altro a dirvi di nuovo.

— Sì, è verobalbettò lui con lo sguardo distratto e sonando con le dita il tamburello.

Di un tratto, bruscamante, poggiando i gomiti sulla tavola, si chinò verso il contadino, e con voce secca e breve:

— Che si dice di mia moglie nel paese?

Giovanni trasalì, posò il bicchiere che stava per accostare alle labbra e balbettò chinando gli occhi:

— Ma... che so io? niente.

Senti, compare Giovanni, parlami chiaro, che tu ne hai l'obbligo. C'è fra noi parentela spirituale, ricordati, e tu da casa mia fosti sempre beneficato.... Che si dice? sentiamo. Le male nuove le porta il vento, e la mala nuova è giunta, ma confusa alle mie orecchie. Voglio saper la verità. Son qui molti dei nostri paesani e tutti mi sfuggono; i nuovi venuti, alle mie domande rispondono come fai tu, imbarazzati ed esitanti. Mamma mi scrive lettere oscure... Quella ... quella non mi scrive da un mese. Sono quindici giorni che ci ho in testa un chiodo ed il presentimento di una disgrazia... Parlami chiaro, ti ascolterò con calma... Che è successo in casa mia?

— Nulla, fede di San Giovanni, nulla... però…

— Però?

— Foste condannato a tre anni di domicilio coatto qui in Sicilia, non è vero? Un anno è già passato; ebbene, perchè non obbligate vostra moglie a venirsene qui? Si eviterebbero tante calunnie, si eviterebbero.

Calunnie! — gridò lui con gli occhi lampeggianti e fisi sul compare, il quale imbarazzato tracciava con le unghie linee sulla tavolacalunnie! quali calunnie?

— Voi sapete che brutto paese è il nostro... Non foste calunniato voi? non foste accusato di manutengolismo e i vostri nemici non riuscirono a farvi condannare?

— Ma che si dice dunque? parla, che si dice? — bofonchiava lui, contenendo a stento la voce.

— Quel che i maligni dicono sempre di una donna giovane e bella il cui marito è lontano da un anno. Voi lo sapete, sor compare mio, che il vostro paese è tutto di maligni.

Dal suo petto ansante scoppiò un grido ch'era una bestemmia; alzossi in piedi, e come se l'ira gli avesse stretto la gola, restò muto e tremante.

— Che avete, signor soprastante? — chiesero i più vicini degli avventori.

Ricadde a sedere; poi, con quell'accento soffocato il quale più che voce è rantolo:

— Con chi? — chiese stringendo i pugni.

Giovanni esitava, pentito in cuor suo di aver detto troppo.

- - Con chi? — ripetè Francesco.

— Con don Pietro Calogerorispose il contadino: spaventato dal truce sguardo di Francesco e dalla voce sorda come un ruggito represso.

Ebbe come un buffo di sangue nel cervello; era parato a tutto, non a questo nome, che era quello del suo più fiero nemico, del suo denunciatore. Restò immobile, come fulminato, coi pugni chiusi fino a conficcarsi le ugne nella carne, coi denti stretti, col volto corso da brividi e le vene del collo e delle tempie turgide e palpitanti.

— Non bisogna poi darsi alla disperazione, — gli veniva dicendo Giovanni; — giuro che è una calunnia bell'e buona. Don Pietro, questo è vero, va spesso a farle visita, ma egli è sindaco ed ella è maestrina comunale... Da qui le voci...

Lui non l'ascoltava: alla tensione era seguìto un abbandono stanco. Con la testa fra le mani, col petto sulla tavola, pareva immerso nei suoi pensieri angosciosi, mentre Giovanni, per consolarsi, centellinava il vino assaporandolo con voluttà da beone.

Dunque, non c'era più dubbio, pensava il poveretto: già dalle mezze frasi nella lettera della madre, dalle reticenze dei suoi compaesani, dalle brevi e secche lettere della moglie, che si era ricusata di raggiungerlo, un sospetto vago gli era nato, che rodevagli atrocemente il cuore. Ora che il sospetto si era mutato in certezza, sentiva il vuoto angoscioso che tien dietro ai grandi dolori, come se di un subito il cuore gli si fosse spezzato e caduto nel petto. Del resto, più che a lei, pensava a lui; a caratteri di fuoco vedeva a dinnanzi quel nome di Pietro Calogero che gli era stato fatale fin dalla prima giovinezza, quando, fanciulli, andavano a scuola dal parroco e per rivalità di scolari si scambiavano calci e pugni. Quello , però, era un vigliacco e si vendicava denunciando e calunniando. Nella virilità, aveano continuato l'odio e il livore della giovinezza; nemici nelle lotte elettorali, nemici nel consiglio municipale, nemici acerrimi sempre. Quando Francesco fu eletto sindaco, Pietro Calogero arse di invidia, ma, vigliacco sorrideva al nemico, al quale aveva mosso una guerra sorda, sleale, di calunnie e denuncie. Per colmo di misura, furono rivali in amore. Francesco aveva sposato la maestrina comunale, una bellezza, di fresco uscita dalle scuole normali: Pietro Calogero, ricco giovane, influente, le aveva ronzato attorno invano, chè a lei conveniva meglio dar retta al sindaco, il quale era anche delegato scolastico e quindi arbitro dei destini di lei.

Ella era una giovinetta orfana di uno dei così detti martiri del 48. Martire, per modo di dire; quando scoppiò la rivolta, egli batteva la campagna cercato dai gendarmi per aver dato in una questione di giuoco tre o quattro coltellate. Errava fuggiasco per monti e per valli; poi, come tanti altri colpevoli di delitti comuni, si unì agli insorti. Fu condannato per ferite e per estorsione di danaro a mano armata: visse in galera due anni, poi ricorse per la grazia e gli fu accordata. Tornò nel paesello e fece la spia al sindaco ed allo intendente. Una bella mattina del 60 si svegliò martire, come tanti altri che la sera innanzi si erano addormentati spie; ebbe una pensione ed un impiego di segretario comunale nel suo paesello, in sostituzione di un povero padre di famiglia che per 30 anni aveva onestamente e laboriosamente servito il comune, ma non aveva mai accoltellato, estorto danaro, e non era stato martire, e poscia fu destituito e condannato alla miseria. Ciò era giusto, perchè come disse un tale — rimunerato dopo il 60 con un posto di giudice, per avere una notte in un caffè, ove si giuocava a zecchinetto, tagliato la testa ad un re di coppe che gli aveva fatto perdere mille ducati, e perciò poi fu processato e condannato, — si erano sfamati gli uni, ora faceva d'uopo che si sfamassero gli altri.

Quando il martire del 48 morì, la figliuola ottenne un posto a spese del municipio nelle scuole normali. Apprese colà tante cose belle, letteratura, storia, geografia, matematica, disegno, religione, morale — anche la morale — e tante cose brutte; anzi credo che le cose brutte superassero le cose buone. Alla goffaggine pettegola e paesana si innestò il vizio ipocrita degli istituti di educazione — tutte le malizie, tutte le brutture, tutte le corruzioni dell'ambiente vizioso dei convitti — qualunque ne sia il nome — i cui regolamenti, i cui programmi, se hanno per iscopo di promuovere l'intellettività, dimenticano e trascurano affatto l'educazione morale. Ebbe la sua amica intima, con la quale scambiava lettere cordiali, sul cui seno versava tutta la piena degli affetti prepotenti svegliati nel sangue caldo del suo corpo saturo di giovinezza; ebbe i suoi languori, le sue notti insonni, le acri e clandestine letture al fioco lume della lampa nei dormitorii. Negli esami riscosse le lodi più vive dei professori, estatici dinnanzi a quella bellezza forte e fresca, la cui voce argentina titillava delicatamente i loro nervi; e tutti intenti a covarla con gli occhi, ad accarezzarne con lo sguardo il bel corpo grassoccio, ad odorare l'alito profumato della bocca rosea, delle labbra carnose, non avrebber saputo ben ridire ciò che ella aveva risposto in letteratura ed in istoria. Quando tornò nel paesello, della goffa e rozza paesana restava ben poco - - certa inclinazione pei colori vivi, un po' dell'indole pettegola e curiosa, ma, nell'insieme, aveva acquistato un non so che di manierato e di lezioso che in un paesello di montagna poteva passare per eleganza di buon genere.

Quando nel paese la udirono discorrere con quello accento cadenzato che si acquista nella scuola, con quella artifiziosa e sforzata proprietà di linguaggio, con quelle frasi raccolte dai manuali di retorica, parve ai rozzi paesani un miracolo di sapere, e si impromisero in quella ragazza una maestra inapprezzabile per le loro figliuole. Le fanciulle la presero a modello nei fronzoli, nei cappellini, nel taglio delle vesti: appresero da lei tante cose nuove, ne ebbero in prestito tanti libri piacevoli. Cinguettava il francese, e si stava estatici nel sentirla parlare in quella lingua. Riceveva quattro o cinque lettere al giorno, e quattro o cinque ne scriveva alle sue amiche in convitto. La vecchia zia, con la quale abitava, diceva, a chi non voleva saperlo, che la notte era costretta a smorzare il lume per non far sciupare gli occhi e la salute alla nipote, che per ore ed ore si assorbiva nella lettura.

I giovani del paesello, goffi ed ignoranti per quanto ella era elegante e colta, le ronzavano con insistenza attorno. Ella rideva con tutti, civettava con tutti, ma non si appigliava a nessuno. Il preferito, ed anche il più innamorato, era appunto Francesco, sindaco allora della borgata e perciò in continua relazione con l'Angiolina, che aveva già aperto scuola. Egli in breve ne ammattì a dirittura e fe' proposito di sposarla, quantunque i suoi cercassero di dissuaderlo. Sordo, ei la sposò, e la sposò anche per far dispetto a quel Pietro Calogero che le faceva anche lui il patito.

La luna di miele durò ben poco. Ella era troppo indolente, le piacevan troppo i begli abiti, le festicciuole, le merende in campagna, i ballonzoli in casa delle amiche. Trascurava le faccende domestiche per leggiucchiar libri e gazzette, per sfogliar giornali di moda e per scrivere lettere alle amiche. Ai rimproveri del marito rispondeva sgarbata: non aveva fatto bene i conti se avea creduto di sposare una governante: se spendea, spendea del suo, ch'ella lavorava ben cinque ore al giorno nella scuola; ella non poteva occuparsi nelle faccende domestiche, perchè doveva con lo studio e la letteratura coltivar lo spirito per non scendere al livello degli ignoranti del paese, nessuno escluso, nemmeno il marito, il quale, poveretto, non poteva comprenderla e perciò lo compativa.

Quando Francesco, per le male arti di quel Pietro Calogero, il quale non aveva smesso di far gli occhi languidi all'Angiola, fu condannato a tre anni di domicilio coatto in Sicilia, bene avrebbe voluto che la moglie lo seguisse: ma questa gli fece comprendere che sarebbe stata una vera follia il lasciare una occupazione che dava da vivere a lei, e la metteva in grado di soccorrere il marito; che ella, dedicata e non avvezza a viver randagia, avrebbe sofferto molto e gli sarebbe stata di inciampo e di noia. Partisse, trovasse da lavorare, e poi lo raggiungerebbe. Ciò persuase la ragione di lui, ma non il cuore; ed un'altra amarezza si aggiunse alle tante sue amarezze.

Ella, per consolarlo, raddoppiò di premure, passò in pianto tutta la vigilia della partenza. Vegliò tutta notte per preparargli le valigie, e di tratto in tratto gli si gettava al collo singhiozzando. Il distacco fu doloroso; promesse, baci, giuramenti si alternavano fra le lagrime ed i singhiozzi. Infine si divisero; ella cadde come svenuta, egli partì con gli occhi rossi e col cuore gonfio di dolore.

Da quel giorno era scorso quasi un anno. Frequenti da prima, più rare di poi erano giunte lettere della moglie. La madre gli scriveva di tanto in tanto, ma o taceva o con freddezza gli dava notizie dell'Angiola; anzi in una lettera c'era una frase oscura, la quale aveva dato tante da pensare al poveretto, che vedeva i suoi compaesani, emigrati in Sicilia per cercar lavoro, imbarazzati a rispondergli quando cercava nuove della moglie. Le avea scritto che oramai avrebbe potuto andar con lui, che guadagnava bene e l'avrebbe fatta nominar maestra nel villaggetto presso la solfatara; ma ella non gli aveva risposto, ed era scorso un mese. Da principio un sospetto vago, poi il dubbio, avean torturato l'animo di quel poveretto, che infine dalle parole del compare Giovanni vedeva confermati i suoi timori.

— Mi vendicherò mormorava con la testa fra le mani, abbandonato sul margini della tavola — mi vendicherò, dovessi pagare un istante di vendetta con tutte le gocce del mio sangue!

 

Sdraiato sopra un divanetto a pie' del lettuccio chiuso da cortine bianche, Pietro Calogero fumava distratto battendo a piccoli colpi con una frusta da cavallerizzo i lunghi stivali di vacchetta, mentre l'Angiola seduta presso il canterano al chiarore mite e banco di un candeliere a petrolio, agucchiava silenziosa. Pietro Calogero era un giovane sui trenta anni, mingherlino, sparuto nel viso solcato da rughe precoci; vestiva una giacca alla cacciatora di lana oscura e calzoni di panno infilati negli stivali. Col cappello in testa, con una mano nell'apertura del panciotto, con una espressione di dispetto e di collera sul viso ombreggiato da una barbetta nera, masticava un sigaro, togliendolo talvolta di bocca per spruzzar lontano la saliva.

L'Angiola, come abbiam detto, era una bella donnina in su i venticinque anni; sulla veste, stretta alla vita, che si rigonfiava al seno ed ai fianchi era sovrapposto uno di quei grembiuli bianchi, detti all'educanda, ricordo della vita da lei vissuta nel convitto della scuola normale. Sul canterano, fra un mucchio di libri eleganti e laceri, un vassoio con le tazze e la zuccheriera, e dentro una campana di vetro una statuetta della Immacolata.

— I soliti nervi, non è vero? — disse infine Pietro Calogero, mandando uno schizzo di saliva.

Ella non rispose, continuando ad agucchiare con la testa bassa.

— Oh, infine, vuoi che te la dica chiara? — continuò lui: — di cotesta aria non so proprio che farne. A me non piacciono i musi lunghi. Benedette le contadine! con quelle almeno si sta allegri.

Ella, senza alzar gli occhi, gli volse di bieco uno sguardo di disprezzo e rispose:

— Ma chi vi dice di venir qui? andate pure dalle vostre villane: qui se ressemble, s'assemble.

— Oh, oh, col latino ora! Te l'ho detto che a me non piacciono le sputasentenze, te l'ho detto altre volte; le lascio agli imbecilli come tuo marito...

Ella balzò in piedi pallida, tremante.

— Non mi ricordate colui, non mi ricordate colui; siete un vile a parlar così.

E cadde come affranta sulla seggiola.

— Ve' come pigli fuoco! Vile a me, — sclamò lui con un sorriso ironico sulle labbra — a me che lo schiaffeggiai in pubblico e gli sputai in faccia, a quel manutengolo!

— Voi mentite, sì, voi mentite; foste voi che lo denunziaste, voi che ne inventaste tante di calunnie sul conto di quel poveretto, per disonorare me e vendicarvi di lui, il solo che vi facesse paura.

Egli, come impazientito, gonfiava le guance, sbuffava, dimenandosi sul divano.

— Per disonorare te? bella, questa. Tu mi piacesti, io ti piacqui; e se tu non avessi voluto, io, certo, non ti avrei messo il coltello alla gola.

— E le vostre minacce, e le vostre insistenze, e quella tela di inganni, di finzioni onde mi avvolgeste tutta? Fui colpevole, sì, non lo nego, ma voi alla colpa uniste l'infamia. Io era accecata da una passione irresistibile, voi abusaste del mio accecamento che lusingava la vostra vanità; tenero, sottomesso, discreto da prima, man mano che divenivate padrone di me, la vostra tenerezza si mutava in disprezzo, la vostra sottomissione in tirannia. Anzichè custodir gelosamente il segreto della nostra relazione e occultar la vergogna della nostra tresca per salvar il mio nome dall'onta, voi mi incitaste, mi sforzaste a calpestare tutti i riguardi che mi imponeva il mio stato. La donna che ama non deve occultare, se ama davvero, la sua predilezione per lo amante — mi dicevate — quando io vi pregava di non espormi alle ciarle degli amici e dei vicini, quando io, in pubblico, con parole, con sguardi, con sorrisi non lusingava la vostra vanità di uomo. In voi era un calcolo, un calcolo vile, un calcolo infame, del quale, accecata, non mi accorsi. Perdei il pudore di donna e di moglie, affrontai l'onta, il disprezzo, la vergogna, e disonorai mio marito. Oh disgraziata, disgraziata!

Piegò la testa fra le mani e pianse a singhiozzi silenziosi che ne facevano sussultare il bel corpo.

Egli si mordeva i baffi, faceva schioccar le giunture delle dita, sorrideva ironico.

— Dove l'hai letta questa bella cantafera? in quei tuoi libracci, nevvero? — disse lui. — Già tu volevi che ti lasciassi libera di darmi il ben servito a tuo piacere! ma ma verità è questa, che tu sei stanca di me, tu vuoi romperla, ora che il maresciallo ti ronza intorno! Per Gesù Cristo, sappi che il padrone sono io, capisci? che son qui non solo sindaco, ma anche delegato scolastico e, se voglio, posso farti destituire... Non toccare il cane che dorme, sai! Ci è un bel tocco di ragazza che desidera il tuo posto, ed ha certi occhi, certa bocca, certa personcina da far venire il capogiro anche ad un cappone, e se tu mi costringi, vedrai di che son capace.

— Oh l'infame, oh l'infame! — mormorava lei.

— E poi, sì, è verocontinuò lui con un sorriso fatuo di trionfo; — diffidavo di te ed ho voluto comprometterti per non restar corbellato. Non sono un minchione io, oh questo no, credimi. Ci ho certe tue letterine che faranno sbellicar dalle risa i miei amici, son certe frasi tutte zucchero e miele. Oh, è vero?

Ella, umiliata, vilipesa, si torceva le mani, si mordeva le labbra singhiozzando. Pietro Calogero la contemplò per poco in silenzio; poi, non per rimorso, ma perchè voleva farla finita e si seccava di quella scena, si alzò, e, accostandosi a lei le prese il mento per farle alzar la testa.

Ella si faceva scudo con le mani, stirava fremente il corpo per allontanarsi da lui, che le diceva tra l'ironico e l'affettuoso:

Via, via, facciamo la pace. Sei tu che mi fai dire le brutte parole di testè. Via, su, guardami, torniamo amici.

— No, diceva lei — no, me ne voglio andare, voglio raggiungere mio marito, non voglio vivere più nel peccato.

— Non mi far la bambina, via. Tu sai che di pazienza ne ho poca, e le smorfie mi annoiano presto, cara mia.

— Me la son meritata, sì, me la son meritata, non ho diritto di piangere, non ho diritto di rammaricarmi! Umiliatemi, avvilitemi, calpestatemi, è sempre poco per la mia infamia.

Bene, ho capito - - disse lui — è meglio che me ne vada; dimani ti troverò più assennata, più ragionevole. Buona sera.

E moveva per andarsene. In quella, nel silenzio della notte, rimbombò un picchio sonoro dato alla porta di strada.

Quei due trasalirono; si guardarono perplessi per un istante.

— Chi può essere a quest'ora? — chiese Pietro Calogero. — Aspetti qualcuno? — soggiunse poscia, con voce aspra ed ironica, figgendo gli occhi nell'amante, divenuta bianca in viso.

— Chi volete che aspetti, io?

— Ma a quest'ora chi può essere? Fàtti al balcone e domanda.

Ella, col cuore stretto, aprì le imposte del balcone, sporse fuori la testa e chiese

— Chi è?

Apri, Angiola: son io - - rispose una voce.

Francesco! è la voce di Francesco - - mormorò impallidendo Pietro Calogero.

E tese l'orecchio per ascoltar meglio.

— Chi, voi? — tornò a chiedere Angiola con voce soffocata dallo spavento, chè anche a lei era parso di riconoscere la voce del marito.

— Son Francesco; apri.

Ella retrocesse sbigottita e poco mancò non cadesse.

— Son perduta - - mormorò torcendosi le mani.

— E come ha rotto il bando? e perchè ha rotto il bando? - - si chiedea con un tremito nella voce Pietro Calogero. - - Fa d'uopo che mi nasconda, perchè non abbiano a nascer guai.

Angela, come fulminata, in piedi, nel mezzo della stanza, volgeva gli occhi intorno.

— Presto - - diceva lui - - presto. Le finestre sono alte. Rischio, saltando, di rompermi il collo. Io mi ci confondo... dove nascondermi al sicuro?

E tremava visibilmente: le parole che uscivano smozzate dalle labbra pallide e livide di paura gli correvano per le membra.

Ella, come scossa da una subita ispirazione, lo afferrò per la mano e si diresse verso la cucina attigua alla sala da letto, mentre rapida e sommessa gli diceva:

— Non ci è che un sol luogo sicuro... il pozzo... è strettissimo: metterete i piedi sul davanzale, il dorso alla parete, sorreggendovi alla catena. Lui sarà stanco; appena addormentato, vi farò uscire.

— Sono inerme, non ho manco il pugnalebalbettava lui — e quello è una tigre.

La seguiva come inebetito. Intanto rimbombò un picchio più forte, più sonoro, che echeggiò sinistro nel silenzio della contrada.

Essa con mano tremante aprì lo sportello del pozzo, il cui condotto saliva lungo il muro fin sopra al secondo piano, egli, nel veder quella bocca nera, indietreggiò sgomentato.

— Presto, presto! ci ucciderebbe se vi scoprisse.

— Ma da qui non udirò quel che voi direte...

— Che importa? Vi libererò a suo tempo... Presto!

Si decise: salì sul parapetto, curvossi, afferrò la catena, e appuntellando i piedi sulla sporgenza interna del davanzale, piegò ad arco la schiena per stringersi al muro. Con la gola stretta, col cuore stretto, balbettava:

Mandalo presto a letto; qui non potrei regger molto.

Ella smarrita, confusa, chiuse lo sportello: tirò a la porta della cucinetta, prese il lume, attraversò la stanza che precedeva quella da letto, e scese la scala; con le ginocchia che le si piegavano tremanti, col volto livido, con la persona scossa da freddi brividi, si accostò alla porta e l'aperse.

— Sei tu, Francesco? sei tu? — balbettò, vedendo il marito, ritto sulla soglia.

Era pallido e aveva gli abiti bruttati di polvere; contemplava senza far motto la moglie che, reggendo con mano tremante il lume, addossata alla porta, ansava con gli occhi bassi.

— Non mi aspettavi, nevvero? — disse poi. — Tu tremi? Ti ho fatto paura? Eri a letto, forse? Non mi dici nulla?

Ella fe' uno sforzo per apparire serena e lieta: gli si gettò al collo e piegò il capo sul petto per celare il turbamento del viso. Egli si lasciò stringere, si lasciò baciare muto, immobile.

— È la sorpresabalbettava lei — càpiti così, all'improvviso!... Hai rotto il bando... perchè hai rotto il bando?

Salghiamo, te lo dirò poi; sono stanco; salghiamo.

Ella chiuse la porta, poi si avviò per far lume al marito. Salirono la scaletta, attraversarono l'anticamera e furono nella stanza da letto. Angiola depose il candeliere sul canterano e poi volse uno sguardo rapido alla porta della cucina. Francesco, che l'aveva seguita senza far motto, si lasciò cadere sul divano, nel quale si sdraiò come stanco, mentre ella in piedi si appoggiava al muro per non venir meno.

Ci fu un istante di silenzio; in quella stanzetta, che era stata il nido dei loro dolci e ardenti amori, quei due cuori battevano da spezzarsi, d'odio e di gelosia nell'uno, di sgomento e di rimorso nell'altra. Egli però era riuscito a frenarsi; dal suo volto nulla traspariva della tempesta interna; solo lo sguardo fiammeggiante errava per la stanzetta come in cerca di qualcuno o di qualche cosa.

— Eri sola? — domandò poi, cercando di addolcire l'accento della voce.

— Sì, ero solarispose Angiola, attingendo il coraggio nel pericolo. — È una domanda strana che mi fai!

— E la tua è una accoglienza ben più strana! Mi rivedi dopo un anno, affronto per te la prigione, la galera, forse... e mi accogli tremante e te ne stai in silenzio!

— Ma... è naturale... sei tornato all'improvviso, di notte... capirai che ci vuole un po' di tempo per rimettermi dalla commozione.

— Ah, avresti voluto che io ti informassi del giorno, dell'ora del mio arrivo; che giungessi di giorno per farmi arrestare dai carabinieri sull'uscio di casa mia!

Ella sentì lo sguardo di lui fisso, minaccioso, che l'avvolgeva tutta.

— E sei giunto ora, proprio ora? — domandò, per rompere quel silenzio che la opprimeva.

Egli esitò.

— Sì, proprio ora: ho camminato da Reggio a qui, dormendo nei campi e nutrendomi di frutta che coglievo lungo la via. Sono stanco, rotto nelle membra, e cado dal sonno.

— Vuoi coricarti? — disse lei, con premura — vuoi coricarti? Discorreremo dimani.

— No, grazie, discorriamo ancora un po'... Che hai? perchè non rimuovi gli occhi dalla cucinetta?

— Io? nulla. Che ti salta in testa? Però, ora che ci penso... tu non puoi restar qui. Dimani le alunne ti vedrebbero e... non saprei come nasconderti a loro...

— Come no? nel pozzo, ove mi nascosi altra volta….. ti ricordi?... per sfuggire ai carabinieri.

Ella trasalì, ma con uno sforzo sovrumano si contenne. Lui non parve accorgersi di nulla e continuò con fare distratto:

— Del resto, hai ragione; è meglio che vada altrove, da mia madre, stasera stessa, non è vero?

Un lampo rapido di gioia le brillò nello sguardo; respirò, e con voce più franca, fattasi più vicina a lui:

— Sì, va' da tua madre: dimani poi parleremo a lungo, dimani vedrai se ho cessato di essere per te amorosa come fui sempre. Ah, sai, dimani ti avrei scritto di voler venir teco, in Sicilia. Non voglio restar più lontana da te; voglio essere la tua sposa, il tuo conforto, la tua gioia. Vedrai che bella vita che vivremo insieme, vedrai. Sì, va' da tua madre: hai bisogno di cibo, hai bisogno di riposo; qui non ho nulla.

Lo aveva preso per la mano e cercava di farlo alzare in piedi. Egli non si moveva, anzi, come stanco, si sdraiava vieppiù sul divano. Infine le disse:

— Verrai anche tu... chiuderemo a chiave la porta.

Ella esitava confusa, torcendosi le mani con impazienza.

— No, va' tu solo; tua madre non so che abbia meco. Chi sa quante calunnie ti avrà scritto sul mio conto e quante te ne dirà... Ma io ho la coscienza tranquilla... Eppoi, non avrei dove dormire... va' tu solo.

Lui l'ascoltava con le labbra contorte da un ghigno; lo sguardo che errava per la stanza si fissò alla porta della cucina. Restò per poco immobile, come se gli fosse subitamente balenato un pensiero.

— Dunque andrò solo — disse poi, alzandosi.

Prese il lume dal canterano e si diresse verso la cucina.

Ella diè un grido.

— Non di qua, no, non di qua.

Ma egli aveva aperta la porta; alzò il lume e guardò intorno.

— Nessuno — mormorò fra i denti — nessuno.

Poi, voltosi alla moglie che ansava appoggiata ad un bracciuolo del divano

— È meglio che io resti quì ancora un poco; me ne andrò dimani all'alba.

E si sdraiò di nuovo sul divano; ella si fece animo, respirò rassicurata e gli sedè vicino.

— Dunque mi seguirai in Sicilia?

— Sì, quando vuoi, dimani stesso. Credimi, ne ho abbastanza di questa vita. Ho qualche torto con te, sì, è vero, ma vorrò ripararli tutti. Non avrei dovuto farti partir solo, lo confesso; ma come avresti vissuto tu, con una donna, in paesi lontani, senza danaro, senza casa? Io qui guadagnavo qualcosa, e all'occorrenza avrei potuto soccorrerti. Feci male, forse, ma a fin di bene. Ora ho deciso, verrò teco. Mi vuoi? Vedrai come sarò buona, vedrai come mi farò perdonare i piccoli torti del passato. Ti amerò di più, ti amerò assai assai, per compensarti di quest'anno di separazione e di angoscia. Voglio soffrir teco, voglio gioir teco, voglio esser tutta tua... Parlami, rispondimi, dimmi che mi perdonerai, che sarai per me quel che fosti sempre. Francesco, Francesco mio!

S'inteneriva alle stesse sue parole, dette con accento di passione vera: gli accarezzava i capelli, lo baciava in fronte, cercava di fargli voltar la testa per guardarlo negli occhi.

— Che cosa è questo? - - domandò lui, alzandosi a sedere e mostrandole una frusta da cavallerizzo, che, brancicando pel divano, aveva trovato nel vuoto fra lo schinale e l'imbottitura.

Ella impallidì, balbettò tremante, con gli occhi fisi nella frusta:

— Che so io? che so?

— O che vai a cavallo, forse?

E la guardò con uno sguardo lungo, acuto, sfavillante, che le fece correre i brividi per la persona e volger gli occhi alla cucina. Egli se ne accorse: stette un po' pensoso, poi trasalì, ed ebbe negli occhi un lampo feroce di gioia.

Si sdraiò di nuovo, percotendo con la frusta a piccoli colpi lo schinale del divano. Poi con voce tranquilla:

Dammi un bicchier d'acquadisse.

Ella si alzò e corse alla bottiglia che era sul canterano.

— No, non di quella; sarà calda. Pigliala fresca dal pozzo.

— Son perduta! - - mormorò lei cadendo a sedere con le ginocchia rotte e il seno ansante.

— Non vuoi? Andrò io.

E si alzò. Ella corse a lui, lo afferrò per le braccia, lo scosse, gli si avviticchiò alla persona, mormorando con voce rotta come un rantolo:

— No, no, no!

Era bellissima in quello smarrimento; i capelli lunghi e pastosi, disciolti, le ondeggiavano per le spalle; la bella testa riversa era accesa pel terrore, e gli occhi di una lucidezza febbrile brillavano nel velo delle lagrime, mentre ansante il seno le si rigonfiava fra il corpetto scomposto.

Egli si sciolse con forza, ma senza far motto: solo lo sguardo gli luceva sinistro e un ghigno ne torceva le labbra. Diè una spinta alla donna, che cadde, ma gli si afferrò alle ginocchia lasciandosi trascinare da lui. Egli fe' un ultimo sforzo: con un atto di rabbia ed una sorda bestemmia le calpestò una mano.

Ella diè un grido e lo lasciò; lui precipitossi nella cucinetta. Si udì cigolare sui cardini lo sportello del pozzo; poi un grido, una bestemmia, parole rotte; si udì il rumore sordo di una lotta con gridi soffocati, uno stridor sordo di catene, un urlo acuto e lugubre, indi un cupo tonfo.

Livido, feroce, come lupo in caccia, con gli occhi accesi, Francesco comparve sull'uscio:

— La secchia è caduta, - - disse.

Si diresse verso la porta ed uscì.

Ella restò , svenuta, distesa sul pavimento sotto la mite e bianca luce del candeliere.

 

FINE

 




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