Una sera,
tornando affaticato dalla solfatara, dopo avere sgobbato per tutto il giorno
sul libro degli introiti e delle spese, erasi imbattuto nel suo compare Giovanni,
contadino allora allora giunto da Calabria, per chiedere anche esso lavoro,
come tanti dei suoi compaesani, agli appaltatori delle solfatare.
— Oh, signor
compare! — aveva esclamato Giovanni, togliendosi il cappellaccio.
— Compare
Giovanni! anche tu qui! Quando sei arrivato?
— Stamattina.
— Ed hai nulla
per me?
— Nulla, sor
compare mio.
— Vedesti mamma,
prima di partire? vedesti... mia, moglie?
— Sissignore;
domenica alla messa di morsello vidi la signora comare donna Peppina,
vostra madre; sta bene e vi saluta.
— E vedesti mia
moglie?
— Sì, anche,
dalla finestra. La salutai e le dissi se voleva darmi lettere per voi.
— E... nulla?
— Nulla: però vi
saluta e vi manda a dire che sta bene.
Francesco si
abbuiò in viso; stette pensoso per poco con gli occhi fisi sul contadino, il
quale, come se avesse voluto evitarne lo sguardo, pareva intento ad aggiustarsi
la bisaccia sul dorso.
— Andiamo a bere
un mezzo litro — disse infine Francesco — mi racconterai le novità del paese.
E s'incamminò, seguìto
dal contadino. Imbruniva; i minatori col piccone ed il corbello sugli omeri
tornavano dalla solfatara, a brigatelle ed alla spicciolata. Discorrevano
sommessi, stanchi dalle aspre fatiche del giorno: predominava nelle voci
l'accento aspro e nasale dei montanari silani, emigrati dalle montagne dopo la
mietitura, per cercar lavoro nelle solfatare di Sicilia, ove, perchè forti e
tenaci alla fatica, parchi al cibo e contenti di poca mercede, son preferiti ai
lavoratori che colà si riversano dalle altre contrade. Passando vicino a
Francesco, che aveva l'impiego di soprastante e di contabile nelle solfatare ed
era loro compaesano, si sberrettavano con un “buonasera”. Egli rispondeva
distratto con un cenno del capo e camminava silenzioso, seguìto dal contadino.
Giunto alle prime case del villaggio, entrò nella tavernuola affollata dai
lavoratori, i quali, alla luce fioca di una lucernetta a tre becchi pendente
dal soffitto, seduti sopra sgabelletti di legno, coi gomiti sulle panche
bisunte ingombre di bottiglie, di bicchieri, di piattelli e di grandi pezzi di
pan nero, cenavano ciarlando, mentre alcuni, negli angoli più lontani,
giocavano a tresette.
— Buona sera,
signor soprastante — dissero i più vicino all'uscio, quando videro entrar quei
due.
— Buona sera.
Portami un litro e due bicchieri — gridò Francesco al tavernaio, che sul banco
in fondo misurava il vino e pesava agli avventori formaggi e salami.
Nell'angolo più
buio in fondo alla cameraccia vide un deschetto non occupato. Sedè con le
spalle agli avventori e dirimpetto a lui fe' sedere il suo compare Giovanni. Un
ragazzo cencioso e sporco mise sulla tavola una bottiglia e due bicchieri:
Francesco mescè il vino, porse un bicchiere al compagno e bevve l'altro di un
fiato; tornò a mescere, tornò a bere, succhiò le punte dei baffi e posò con
forza il bicchiere sulla tavola.
— Dunque nulla?
nè mamma, nè Angela, nulla?
— Nulla. Però la
signora comare vostra madre mi disse che vi aveva scritto e che non aveva
niente altro a dirvi di nuovo.
— Sì, è vero — balbettò
lui con lo sguardo distratto e sonando con le dita il tamburello.
Di un tratto,
bruscamante, poggiando i gomiti sulla tavola, si chinò verso il contadino, e
con voce secca e breve:
— Che si dice di
mia moglie nel paese?
Giovanni trasalì,
posò il bicchiere che stava per accostare alle labbra e balbettò chinando gli
occhi:
— Ma... che so
io? niente.
— Senti, compare
Giovanni, parlami chiaro, che tu ne hai l'obbligo. C'è fra noi parentela
spirituale, ricordati, e tu da casa mia fosti sempre beneficato.... Che si
dice? sentiamo. Le male nuove le porta il vento, e la mala nuova è giunta, ma
confusa alle mie orecchie. Voglio saper la verità. Son qui molti dei nostri
paesani e tutti mi sfuggono; i nuovi venuti, alle mie domande rispondono come
fai tu, imbarazzati ed esitanti. Mamma mi scrive lettere oscure... Quella lì...
quella lì non mi scrive da un mese. Sono quindici giorni che ci ho in testa un
chiodo ed il presentimento di una disgrazia... Parlami chiaro, ti ascolterò con
calma... Che è successo in casa mia?
— Nulla, fede di
San Giovanni, nulla... però…
— Però?
— Foste
condannato a tre anni di domicilio coatto qui in Sicilia, non è vero? Un anno è
già passato; ebbene, perchè non obbligate vostra moglie a venirsene qui? Si eviterebbero
tante calunnie, si eviterebbero.
— Calunnie! —
gridò lui con gli occhi lampeggianti e fisi sul compare, il quale imbarazzato
tracciava con le unghie linee sulla tavola — calunnie! quali calunnie?
— Voi sapete che
brutto paese è il nostro... Non foste calunniato voi? non foste accusato di
manutengolismo e i vostri nemici non riuscirono a farvi condannare?
— Ma che si dice
dunque? parla, che si dice? — bofonchiava lui, contenendo a stento la voce.
— Quel che i
maligni dicono sempre di una donna giovane e bella il cui marito è lontano da
un anno. Voi lo sapete, sor compare mio, che il vostro paese è tutto di
maligni.
Dal suo petto
ansante scoppiò un grido ch'era una bestemmia; alzossi in piedi, e come se
l'ira gli avesse stretto la gola, restò lì muto e tremante.
— Che avete,
signor soprastante? — chiesero i più vicini degli avventori.
Ricadde a sedere;
poi, con quell'accento soffocato il quale più che voce è rantolo:
— Con chi? —
chiese stringendo i pugni.
Giovanni esitava,
pentito in cuor suo di aver detto troppo.
- - Con chi? —
ripetè Francesco.
— Con don Pietro
Calogero — rispose il contadino: spaventato dal truce sguardo di Francesco e
dalla voce sorda come un ruggito represso.
Ebbe come un
buffo di sangue nel cervello; era parato a tutto, non a questo nome, che era
quello del suo più fiero nemico, del suo denunciatore. Restò immobile, come
fulminato, coi pugni chiusi fino a conficcarsi le ugne nella carne, coi denti
stretti, col volto corso da brividi e le vene del collo e delle tempie turgide
e palpitanti.
— Non bisogna poi
darsi alla disperazione, — gli veniva dicendo Giovanni; — giuro che è una
calunnia bell'e buona. Don Pietro, questo è vero, va spesso a farle visita, ma
egli è sindaco ed ella è maestrina comunale... Da qui le voci...
Lui non
l'ascoltava: alla tensione era seguìto un abbandono stanco. Con la testa fra le
mani, col petto sulla tavola, pareva immerso nei suoi pensieri angosciosi,
mentre Giovanni, per consolarsi, centellinava il vino assaporandolo con voluttà
da beone.
Dunque, non c'era
più dubbio, pensava il poveretto: già dalle mezze frasi nella lettera della
madre, dalle reticenze dei suoi compaesani, dalle brevi e secche lettere della
moglie, che si era ricusata di raggiungerlo, un sospetto vago gli era nato, che
rodevagli atrocemente il cuore. Ora che il sospetto si era mutato in certezza,
sentiva il vuoto angoscioso che tien dietro ai grandi dolori, come se di un
subito il cuore gli si fosse spezzato e caduto nel petto. Del resto, più che a
lei, pensava a lui; a caratteri di fuoco vedeva a sè dinnanzi quel nome di
Pietro Calogero che gli era stato fatale fin dalla prima giovinezza, quando,
fanciulli, andavano a scuola dal parroco e per rivalità di scolari si
scambiavano calci e pugni. Quello lì, però, era un vigliacco e si vendicava
denunciando e calunniando. Nella virilità, aveano continuato l'odio e il livore
della giovinezza; nemici nelle lotte elettorali, nemici nel consiglio
municipale, nemici acerrimi sempre. Quando Francesco fu eletto sindaco, Pietro
Calogero arse di invidia, ma, vigliacco sorrideva al nemico, al quale aveva
mosso una guerra sorda, sleale, di calunnie e denuncie. Per colmo di misura,
furono rivali in amore. Francesco aveva sposato la maestrina comunale, una
bellezza, di fresco uscita dalle scuole normali: Pietro Calogero, ricco
giovane, influente, le aveva ronzato attorno invano, chè a lei conveniva meglio
dar retta al sindaco, il quale era anche delegato scolastico e quindi arbitro
dei destini di lei.
Ella era una
giovinetta orfana di uno dei così detti martiri del 48. Martire, per
modo di dire; quando scoppiò la rivolta, egli batteva la campagna cercato dai
gendarmi per aver dato in una questione di giuoco tre o quattro coltellate.
Errava fuggiasco per monti e per valli; poi, come tanti altri colpevoli di
delitti comuni, si unì agli insorti. Fu condannato per ferite e per estorsione
di danaro a mano armata: visse in galera due anni, poi ricorse per la grazia e
gli fu accordata. Tornò nel paesello e fece la spia al sindaco ed allo
intendente. Una bella mattina del 60 si svegliò martire, come tanti altri che
la sera innanzi si erano addormentati spie; ebbe una pensione ed un impiego di
segretario comunale nel suo paesello, in sostituzione di un povero padre di
famiglia che per 30 anni aveva onestamente e laboriosamente servito il comune,
ma non aveva mai nè accoltellato, nè estorto danaro, e non era stato martire, e
poscia fu destituito e condannato alla miseria. Ciò era giusto, perchè come
disse un tale — rimunerato dopo il 60 con un posto di giudice, per avere una
notte in un caffè, ove si giuocava a zecchinetto, tagliato la testa ad
un re di coppe che gli aveva fatto perdere mille ducati, e perciò poi fu
processato e condannato, — si erano sfamati gli uni, ora faceva d'uopo che si
sfamassero gli altri.
Quando il martire del 48 morì, la figliuola ottenne
un posto a spese del municipio nelle scuole normali. Apprese colà tante cose
belle, letteratura, storia, geografia, matematica, disegno, religione, morale —
anche la morale — e tante cose brutte; anzi credo che le cose brutte
superassero le cose buone. Alla goffaggine pettegola e paesana si innestò il
vizio ipocrita degli istituti di educazione — tutte le malizie, tutte le
brutture, tutte le corruzioni dell'ambiente vizioso dei convitti — qualunque ne
sia il nome — i cui regolamenti, i cui programmi, se hanno per iscopo di
promuovere l'intellettività, dimenticano e trascurano affatto l'educazione
morale. Ebbe la sua amica intima, con la quale scambiava lettere cordiali, sul
cui seno versava tutta la piena degli affetti prepotenti svegliati nel sangue
caldo del suo corpo saturo di giovinezza; ebbe i suoi languori, le sue notti
insonni, le acri e clandestine letture al fioco lume della lampa nei
dormitorii. Negli esami riscosse le lodi più vive dei professori, estatici
dinnanzi a quella bellezza forte e fresca, la cui voce argentina titillava
delicatamente i loro nervi; e tutti intenti a covarla con gli occhi, ad
accarezzarne con lo sguardo il bel corpo grassoccio, ad odorare l'alito
profumato della bocca rosea, delle labbra carnose, non avrebber saputo ben
ridire ciò che ella aveva risposto in letteratura ed in istoria. Quando tornò
nel paesello, della goffa e rozza paesana restava ben poco - - certa
inclinazione pei colori vivi, un po' dell'indole pettegola e curiosa, ma,
nell'insieme, aveva acquistato un non so che di manierato e di lezioso che in
un paesello di montagna poteva passare per eleganza di buon genere.
Quando nel paese
la udirono discorrere con quello accento cadenzato che si acquista nella
scuola, con quella artifiziosa e sforzata proprietà di linguaggio, con quelle
frasi raccolte dai manuali di retorica, parve ai rozzi paesani un miracolo di
sapere, e si impromisero in quella ragazza una maestra inapprezzabile per le
loro figliuole. Le fanciulle la presero a modello nei fronzoli, nei cappellini,
nel taglio delle vesti: appresero da lei tante cose nuove, ne ebbero in
prestito tanti libri piacevoli. Cinguettava il francese, e si stava estatici
nel sentirla parlare in quella lingua. Riceveva quattro o cinque lettere al
giorno, e quattro o cinque ne scriveva alle sue amiche in convitto. La vecchia
zia, con la quale abitava, diceva, a chi non voleva saperlo, che la notte era
costretta a smorzare il lume per non far sciupare gli occhi e la salute alla
nipote, che per ore ed ore si assorbiva nella lettura.
I giovani del
paesello, goffi ed ignoranti per quanto ella era elegante e colta, le ronzavano
con insistenza attorno. Ella rideva con tutti, civettava con tutti, ma non si
appigliava a nessuno. Il preferito, ed anche il più innamorato, era appunto
Francesco, sindaco allora della borgata e perciò in continua relazione con
l'Angiolina, che aveva già aperto scuola. Egli in breve ne ammattì a dirittura
e fe' proposito di sposarla, quantunque i suoi cercassero di dissuaderlo.
Sordo, ei la sposò, e la sposò anche per far dispetto a quel Pietro Calogero
che le faceva anche lui il patito.
La luna di miele
durò ben poco. Ella era troppo indolente, le piacevan troppo i begli abiti, le
festicciuole, le merende in campagna, i ballonzoli in casa delle amiche.
Trascurava le faccende domestiche per leggiucchiar libri e gazzette, per
sfogliar giornali di moda e per scrivere lettere alle amiche. Ai rimproveri del
marito rispondeva sgarbata: non aveva fatto bene i conti se avea creduto di
sposare una governante: se spendea, spendea del suo, ch'ella lavorava ben
cinque ore al giorno nella scuola; ella non poteva occuparsi nelle faccende
domestiche, perchè doveva con lo studio e la letteratura coltivar lo spirito per
non scendere al livello degli ignoranti del paese, nessuno escluso, nemmeno il
marito, il quale, poveretto, non poteva comprenderla e perciò lo compativa.
Quando Francesco,
per le male arti di quel Pietro Calogero, il quale non aveva smesso di far gli occhi
languidi all'Angiola, fu condannato a tre anni di domicilio coatto in Sicilia,
bene avrebbe voluto che la moglie lo seguisse: ma questa gli fece comprendere
che sarebbe stata una vera follia il lasciare una occupazione che dava da
vivere a lei, e la metteva in grado di soccorrere il marito; che ella, dedicata
e non avvezza a viver randagia, avrebbe sofferto molto e gli sarebbe stata di
inciampo e di noia. Partisse, trovasse da lavorare, e poi lo raggiungerebbe.
Ciò persuase la ragione di lui, ma non il cuore; ed un'altra amarezza si
aggiunse alle tante sue amarezze.
Ella, per
consolarlo, raddoppiò di premure, passò in pianto tutta la vigilia della
partenza. Vegliò tutta notte per preparargli le valigie, e di tratto in tratto
gli si gettava al collo singhiozzando. Il distacco fu doloroso; promesse, baci,
giuramenti si alternavano fra le lagrime ed i singhiozzi. Infine si divisero;
ella cadde come svenuta, egli partì con gli occhi rossi e col cuore gonfio di
dolore.
Da quel giorno
era scorso quasi un anno. Frequenti da prima, più rare di poi erano giunte
lettere della moglie. La madre gli scriveva di tanto in tanto, ma o taceva o
con freddezza gli dava notizie dell'Angiola; anzi in una lettera c'era una
frase oscura, la quale aveva dato tante da pensare al poveretto, che vedeva i
suoi compaesani, emigrati in Sicilia per cercar lavoro, imbarazzati a
rispondergli quando cercava nuove della moglie. Le avea scritto che oramai
avrebbe potuto andar con lui, che guadagnava bene e l'avrebbe fatta nominar
maestra nel villaggetto presso la solfatara; ma ella non gli aveva risposto, ed
era scorso un mese. Da principio un sospetto vago, poi il dubbio, avean
torturato l'animo di quel poveretto, che infine dalle parole del compare
Giovanni vedeva confermati i suoi timori.
— Mi vendicherò
mormorava con la testa fra le mani, abbandonato sul margini della tavola — mi
vendicherò, dovessi pagare un istante di vendetta con tutte le gocce del mio
sangue!
Sdraiato sopra un
divanetto a pie' del lettuccio chiuso da cortine bianche, Pietro Calogero
fumava distratto battendo a piccoli colpi con una frusta da cavallerizzo i
lunghi stivali di vacchetta, mentre l'Angiola seduta presso il canterano al
chiarore mite e banco di un candeliere a petrolio, agucchiava silenziosa.
Pietro Calogero era un giovane sui trenta anni, mingherlino, sparuto nel viso
solcato da rughe precoci; vestiva una giacca alla cacciatora di lana oscura e
calzoni di panno infilati negli stivali. Col cappello in testa, con una mano
nell'apertura del panciotto, con una espressione di dispetto e di collera sul
viso ombreggiato da una barbetta nera, masticava un sigaro, togliendolo
talvolta di bocca per spruzzar lontano la saliva.
L'Angiola, come
abbiam detto, era una bella donnina in su i venticinque anni; sulla veste,
stretta alla vita, che si rigonfiava al seno ed ai fianchi era sovrapposto uno
di quei grembiuli bianchi, detti all'educanda, ricordo della vita da lei
vissuta nel convitto della scuola normale. Sul canterano, fra un mucchio di
libri eleganti e laceri, un vassoio con le tazze e la zuccheriera, e dentro una
campana di vetro una statuetta della Immacolata.
— I soliti nervi,
non è vero? — disse infine Pietro Calogero, mandando uno schizzo di saliva.
Ella non rispose,
continuando ad agucchiare con la testa bassa.
— Oh, infine,
vuoi che te la dica chiara? — continuò lui: — di cotesta aria non so proprio
che farne. A me non piacciono i musi lunghi. Benedette le contadine! con quelle
lì almeno si sta allegri.
Ella, senza alzar
gli occhi, gli volse di bieco uno sguardo di disprezzo e rispose:
— Ma chi vi dice
di venir qui? andate pure dalle vostre villane: qui se ressemble, s'assemble.
— Oh, oh, col
latino ora! Te l'ho detto che a me non piacciono le sputasentenze, te l'ho
detto altre volte; le lascio agli imbecilli come tuo marito...
Ella balzò in
piedi pallida, tremante.
— Non mi
ricordate colui, non mi ricordate colui; siete un vile a parlar così.
E cadde come
affranta sulla seggiola.
— Ve' come pigli
fuoco! Vile a me, — sclamò lui con un sorriso ironico sulle labbra — a me che
lo schiaffeggiai in pubblico e gli sputai in faccia, a quel manutengolo!
— Voi mentite,
sì, voi mentite; foste voi che lo denunziaste, voi che ne inventaste tante di
calunnie sul conto di quel poveretto, per disonorare me e vendicarvi di lui, il
solo che vi facesse paura.
Egli, come
impazientito, gonfiava le guance, sbuffava, dimenandosi sul divano.
— Per disonorare
te? bella, questa. Tu mi piacesti, io ti piacqui; e se tu non avessi voluto,
io, certo, non ti avrei messo il coltello alla gola.
— E le vostre
minacce, e le vostre insistenze, e quella tela di inganni, di finzioni onde mi
avvolgeste tutta? Fui colpevole, sì, non lo nego, ma voi alla colpa uniste
l'infamia. Io era accecata da una passione irresistibile, voi abusaste del mio
accecamento che lusingava la vostra vanità; tenero, sottomesso, discreto da
prima, man mano che divenivate padrone di me, la vostra tenerezza si mutava in
disprezzo, la vostra sottomissione in tirannia. Anzichè custodir gelosamente il
segreto della nostra relazione e occultar la vergogna della nostra tresca per
salvar il mio nome dall'onta, voi mi incitaste, mi sforzaste a calpestare tutti
i riguardi che mi imponeva il mio stato. La donna che ama non deve occultare,
se ama davvero, la sua predilezione per lo amante — mi dicevate — quando io vi
pregava di non espormi alle ciarle degli amici e dei vicini, quando io, in
pubblico, con parole, con sguardi, con sorrisi non lusingava la vostra vanità
di uomo. In voi era un calcolo, un calcolo vile, un calcolo infame, del quale,
accecata, non mi accorsi. Perdei il pudore di donna e di moglie, affrontai
l'onta, il disprezzo, la vergogna, e disonorai mio marito. Oh disgraziata,
disgraziata!
Piegò la testa
fra le mani e pianse a singhiozzi silenziosi che ne facevano sussultare il bel
corpo.
Egli si mordeva i
baffi, faceva schioccar le giunture delle dita, sorrideva ironico.
— Dove l'hai
letta questa bella cantafera? in quei tuoi libracci, nevvero? — disse lui. —
Già tu volevi che ti lasciassi libera di darmi il ben servito a tuo piacere! ma
ma verità è questa, che tu sei stanca di me, tu vuoi romperla, ora che il
maresciallo ti ronza intorno! Per Gesù Cristo, sappi che il padrone sono io,
capisci? che son qui non solo sindaco, ma anche delegato scolastico e, se
voglio, posso farti destituire... Non toccare il cane che dorme, sai! Ci è un
bel tocco di ragazza che desidera il tuo posto, ed ha certi occhi, certa bocca,
certa personcina da far venire il capogiro anche ad un cappone, e se tu mi
costringi, vedrai di che son capace.
— Oh l'infame, oh
l'infame! — mormorava lei.
— E poi, sì, è
vero — continuò lui con un sorriso fatuo di trionfo; — diffidavo di te ed ho
voluto comprometterti per non restar corbellato. Non sono un minchione io, oh
questo no, credimi. Ci ho certe tue letterine che faranno sbellicar dalle risa
i miei amici, son certe frasi tutte zucchero e miele. Oh, è vero?
Ella, umiliata,
vilipesa, si torceva le mani, si mordeva le labbra singhiozzando. Pietro Calogero
la contemplò per poco in silenzio; poi, non per rimorso, ma perchè voleva farla
finita e si seccava di quella scena, si alzò, e, accostandosi a lei le prese il
mento per farle alzar la testa.
Ella si faceva
scudo con le mani, stirava fremente il corpo per allontanarsi da lui, che le
diceva tra l'ironico e l'affettuoso:
— Via, via,
facciamo la pace. Sei tu che mi fai dire le brutte parole di testè. Via, su,
guardami, torniamo amici.
— No, diceva lei
— no, me ne voglio andare, voglio raggiungere mio marito, non voglio vivere più
nel peccato.
— Non mi far la
bambina, via. Tu sai che di pazienza ne ho poca, e le smorfie mi annoiano
presto, cara mia.
— Me la son
meritata, sì, me la son meritata, non ho diritto di piangere, non ho diritto di
rammaricarmi! Umiliatemi, avvilitemi, calpestatemi, è sempre poco per la mia
infamia.
— Bene, ho capito
- - disse lui — è meglio che me ne vada; dimani ti troverò più assennata, più
ragionevole. Buona sera.
E moveva per
andarsene. In quella, nel silenzio della notte, rimbombò un picchio sonoro dato
alla porta di strada.
Quei due
trasalirono; si guardarono perplessi per un istante.
— Chi può essere
a quest'ora? — chiese Pietro Calogero. — Aspetti qualcuno? — soggiunse poscia, con
voce aspra ed ironica, figgendo gli occhi nell'amante, divenuta bianca in viso.
— Chi volete che
aspetti, io?
— Ma a quest'ora
chi può essere? Fàtti al balcone e domanda.
Ella, col cuore stretto, aprì le imposte del balcone, sporse fuori la testa
e chiese
— Chi è?
— Apri, Angiola:
son io - - rispose una voce.
— Francesco! è la
voce di Francesco - - mormorò impallidendo Pietro Calogero.
E tese l'orecchio
per ascoltar meglio.
— Chi, voi? —
tornò a chiedere Angiola con voce soffocata dallo spavento, chè anche a lei era
parso di riconoscere la voce del marito.
— Son Francesco;
apri.
Ella retrocesse
sbigottita e poco mancò non cadesse.
— Son perduta - -
mormorò torcendosi le mani.
— E come ha rotto
il bando? e perchè ha rotto il bando? - - si chiedea con un tremito nella voce
Pietro Calogero. - - Fa d'uopo che mi nasconda, perchè non abbiano a nascer
guai.
Angela, come
fulminata, in piedi, nel mezzo della stanza, volgeva gli occhi intorno.
— Presto - -
diceva lui - - presto. Le finestre sono alte. Rischio, saltando, di rompermi il
collo. Io mi ci confondo... dove nascondermi al sicuro?
E tremava
visibilmente: le parole che uscivano smozzate dalle labbra pallide e livide di
paura gli correvano per le membra.
Ella, come scossa
da una subita ispirazione, lo afferrò per la mano e si diresse verso la cucina
attigua alla sala da letto, mentre rapida e sommessa gli diceva:
— Non ci è che un
sol luogo sicuro... il pozzo... è strettissimo: metterete i piedi sul
davanzale, il dorso alla parete, sorreggendovi alla catena. Lui sarà stanco;
appena addormentato, vi farò uscire.
— Sono inerme,
non ho manco il pugnale — balbettava lui — e quello è una tigre.
La seguiva come
inebetito. Intanto rimbombò un picchio più forte, più sonoro, che echeggiò
sinistro nel silenzio della contrada.
Essa con mano
tremante aprì lo sportello del pozzo, il cui condotto saliva lungo il muro fin
sopra al secondo piano, egli, nel veder quella bocca nera, indietreggiò
sgomentato.
— Presto, presto!
ci ucciderebbe se vi scoprisse.
— Ma da qui non
udirò quel che voi direte...
— Che importa? Vi
libererò a suo tempo... Presto!
Si decise: salì
sul parapetto, curvossi, afferrò la catena, e appuntellando i piedi sulla
sporgenza interna del davanzale, piegò ad arco la schiena per stringersi al
muro. Con la gola stretta, col cuore stretto, balbettava:
— Mandalo presto
a letto; qui non potrei regger molto.
Ella smarrita,
confusa, chiuse lo sportello: tirò a sè la porta della cucinetta, prese il lume,
attraversò la stanza che precedeva quella da letto, e scese la scala; con le
ginocchia che le si piegavano tremanti, col volto livido, con la persona scossa
da freddi brividi, si accostò alla porta e l'aperse.
— Sei tu,
Francesco? sei tu? — balbettò, vedendo il marito, ritto sulla soglia.
Era pallido e
aveva gli abiti bruttati di polvere; contemplava senza far motto la moglie che,
reggendo con mano tremante il lume, addossata alla porta, ansava con gli occhi
bassi.
— Non mi
aspettavi, nevvero? — disse poi. — Tu tremi? Ti ho fatto paura? Eri a letto,
forse? Non mi dici nulla?
Ella fe' uno
sforzo per apparire serena e lieta: gli si gettò al collo e piegò il capo sul
petto per celare il turbamento del viso. Egli si lasciò stringere, si lasciò
baciare muto, immobile.
— È la sorpresa —
balbettava lei — càpiti così, all'improvviso!... Hai rotto il bando... perchè
hai rotto il bando?
— Salghiamo, te
lo dirò poi; sono stanco; salghiamo.
Ella chiuse la
porta, poi si avviò per far lume al marito. Salirono la scaletta,
attraversarono l'anticamera e furono nella stanza da letto. Angiola depose il
candeliere sul canterano e poi volse uno sguardo rapido alla porta della
cucina. Francesco, che l'aveva seguita senza far motto, si lasciò cadere sul
divano, nel quale si sdraiò come stanco, mentre ella in piedi si appoggiava al
muro per non venir meno.
Ci fu un istante
di silenzio; in quella stanzetta, che era stata il nido dei loro dolci e
ardenti amori, quei due cuori battevano da spezzarsi, d'odio e di gelosia nell'uno,
di sgomento e di rimorso nell'altra. Egli però era riuscito a frenarsi; dal suo
volto nulla traspariva della tempesta interna; solo lo sguardo fiammeggiante
errava per la stanzetta come in cerca di qualcuno o di qualche cosa.
— Eri sola? —
domandò poi, cercando di addolcire l'accento della voce.
— Sì, ero sola —
rispose Angiola, attingendo il coraggio nel pericolo. — È una domanda strana
che mi fai!
— E la tua è una
accoglienza ben più strana! Mi rivedi dopo un anno, affronto per te la
prigione, la galera, forse... e mi accogli tremante e te ne stai lì in
silenzio!
— Ma... è
naturale... sei tornato all'improvviso, di notte... capirai che ci vuole un po'
di tempo per rimettermi dalla commozione.
— Ah, avresti
voluto che io ti informassi del giorno, dell'ora del mio arrivo; che giungessi
di giorno per farmi arrestare dai carabinieri sull'uscio di casa mia!
Ella sentì lo
sguardo di lui fisso, minaccioso, che l'avvolgeva tutta.
— E sei giunto
ora, proprio ora? — domandò, per rompere quel silenzio che la opprimeva.
Egli esitò.
— Sì, proprio
ora: ho camminato da Reggio a qui, dormendo nei campi e nutrendomi di frutta
che coglievo lungo la via. Sono stanco, rotto nelle membra, e cado dal sonno.
— Vuoi coricarti?
— disse lei, con premura — vuoi coricarti? Discorreremo dimani.
— No, grazie,
discorriamo ancora un po'... Che hai? perchè non rimuovi gli occhi dalla
cucinetta?
— Io? nulla. Che
ti salta in testa? Però, ora che ci penso... tu non puoi restar qui. Dimani le
alunne ti vedrebbero e... non saprei come nasconderti a loro...
— Come no? nel
pozzo, ove mi nascosi altra volta….. ti ricordi?... per sfuggire ai
carabinieri.
Ella trasalì, ma
con uno sforzo sovrumano si contenne. Lui non parve accorgersi di nulla e
continuò con fare distratto:
— Del resto, hai
ragione; è meglio che vada altrove, da mia madre, stasera stessa, non è vero?
Un lampo rapido
di gioia le brillò nello sguardo; respirò, e con voce più franca, fattasi più
vicina a lui:
— Sì, va' da tua
madre: dimani poi parleremo a lungo, dimani vedrai se ho cessato di essere per
te amorosa come fui sempre. Ah, sai, dimani ti avrei scritto di voler venir
teco, in Sicilia. Non voglio restar più lontana da te; voglio essere la tua
sposa, il tuo conforto, la tua gioia. Vedrai che bella vita che vivremo
insieme, vedrai. Sì, va' da tua madre: hai bisogno di cibo, hai bisogno di
riposo; qui non ho nulla.
Lo aveva preso
per la mano e cercava di farlo alzare in piedi. Egli non si moveva, anzi, come
stanco, si sdraiava vieppiù sul divano. Infine le disse:
— Verrai anche
tu... chiuderemo a chiave la porta.
Ella esitava
confusa, torcendosi le mani con impazienza.
— No, va' tu
solo; tua madre non so che abbia meco. Chi sa quante calunnie ti avrà scritto sul
mio conto e quante te ne dirà... Ma io ho la coscienza tranquilla... Eppoi, non
avrei dove dormire... va' tu solo.
Lui l'ascoltava
con le labbra contorte da un ghigno; lo sguardo che errava per la stanza si
fissò alla porta della cucina. Restò per poco immobile, come se gli fosse
subitamente balenato un pensiero.
— Dunque andrò
solo — disse poi, alzandosi.
Prese il lume dal
canterano e si diresse verso la cucina.
Ella diè un
grido.
— Non di qua, no,
non di qua.
Ma egli aveva
aperta la porta; alzò il lume e guardò intorno.
— Nessuno —
mormorò fra i denti — nessuno.
Poi, voltosi alla moglie che ansava appoggiata ad un bracciuolo del divano
— È meglio che io
resti quì ancora un poco; me ne andrò dimani all'alba.
E si sdraiò di
nuovo sul divano; ella si fece animo, respirò rassicurata e gli sedè vicino.
— Dunque mi
seguirai in Sicilia?
— Sì, quando
vuoi, dimani stesso. Credimi, ne ho abbastanza di questa vita. Ho qualche torto
con te, sì, è vero, ma vorrò ripararli tutti. Non avrei dovuto farti partir
solo, lo confesso; ma come avresti vissuto tu, con una donna, in paesi lontani,
senza danaro, senza casa? Io qui guadagnavo qualcosa, e all'occorrenza avrei
potuto soccorrerti. Feci male, forse, ma a fin di bene. Ora ho deciso, verrò
teco. Mi vuoi? Vedrai come sarò buona, vedrai come mi farò perdonare i piccoli
torti del passato. Ti amerò di più, ti amerò assai assai, per compensarti di
quest'anno di separazione e di angoscia. Voglio soffrir teco, voglio gioir
teco, voglio esser tutta tua... Parlami, rispondimi, dimmi che mi perdonerai,
che sarai per me quel che fosti sempre. Francesco, Francesco mio!
S'inteneriva alle
stesse sue parole, dette con accento di passione vera: gli accarezzava i
capelli, lo baciava in fronte, cercava di fargli voltar la testa per guardarlo
negli occhi.
— Che cosa è
questo? - - domandò lui, alzandosi a sedere e mostrandole una frusta da
cavallerizzo, che, brancicando pel divano, aveva trovato nel vuoto fra lo
schinale e l'imbottitura.
Ella impallidì,
balbettò tremante, con gli occhi fisi nella frusta:
— Che so io? che
so?
— O che vai a
cavallo, forse?
E la guardò con
uno sguardo lungo, acuto, sfavillante, che le fece correre i brividi per la
persona e volger gli occhi alla cucina. Egli se ne accorse: stette un po'
pensoso, poi trasalì, ed ebbe negli occhi un lampo feroce di gioia.
Si sdraiò di
nuovo, percotendo con la frusta a piccoli colpi lo schinale del divano. Poi con
voce tranquilla:
— Dammi un
bicchier d'acqua — disse.
Ella si alzò e
corse alla bottiglia che era sul canterano.
— No, non di
quella; sarà calda. Pigliala fresca dal pozzo.
— Son perduta! -
- mormorò lei cadendo a sedere con le ginocchia rotte e il seno ansante.
— Non vuoi? Andrò
io.
E si alzò. Ella corse
a lui, lo afferrò per le braccia, lo scosse, gli si avviticchiò alla persona,
mormorando con voce rotta come un rantolo:
— No, no, no!
Era bellissima in
quello smarrimento; i capelli lunghi e pastosi, disciolti, le ondeggiavano per
le spalle; la bella testa riversa era accesa pel terrore, e gli occhi di una
lucidezza febbrile brillavano nel velo delle lagrime, mentre ansante il seno le
si rigonfiava fra il corpetto scomposto.
Egli si sciolse
con forza, ma senza far motto: solo lo sguardo gli luceva sinistro e un ghigno
ne torceva le labbra. Diè una spinta alla donna, che cadde, ma gli si afferrò
alle ginocchia lasciandosi trascinare da lui. Egli fe' un ultimo sforzo: con un
atto di rabbia ed una sorda bestemmia le calpestò una mano.
Ella diè un grido
e lo lasciò; lui precipitossi nella cucinetta. Si udì cigolare sui cardini lo
sportello del pozzo; poi un grido, una bestemmia, parole rotte; si udì il
rumore sordo di una lotta con gridi soffocati, uno stridor sordo di catene, un
urlo acuto e lugubre, indi un cupo tonfo.
Livido, feroce,
come lupo in caccia, con gli occhi accesi, Francesco comparve sull'uscio:
— La secchia è
caduta, - - disse.
Si diresse verso
la porta ed uscì.
Ella restò là,
svenuta, distesa sul pavimento sotto la mite e bianca luce del candeliere.
FINE
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