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Nicola Misasi In Magna Sila IntraText CT - Lettura del testo |
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Leggenda montanara
Era l'ora in cui la nebbia bianchiccia, che elevasi dal fiume, pesa più densa sulle campagne silenziose, e dai comignoli delle casette villerecce sottili pennacchi di fumo si innalzano lentamente ora diritti, ora lievemente agitati dalla tramontana. I contadini, reduci dal lavoro, attendevano ad ammannire la parca cena intorno alla crepitante fiamma del focolare, mentre le mamme cullavano i figlioletti per addormirli, e nelle stalle i buoi dai grandi occhi sonnolenti, con le ginocchia ripiegate, sbuffavano ruminando le foglie secche. Quella sera, essendo il domani domenica, si vegliava in casa di Malomo, che era il più facondo narratore del dintorno. Nessuno più di lui sapea tener desta l'attenzione e commuovere con le belle fiabe e le vecchie storie di streghe, di briganti, di apparizioni e di tesori; ed era una gran festa pei poveri contadini il potere, dopo sei giorni di lavori durissimi, darsi quel po' di bel tempo accanto al fuoco. Ero andato a passar pochi giorni in campagna, e mi ero invitato a quella veglia. Sul banco più vicino al fuoco avevano posto due guanciali ripieni di paglia tolti da uno dei letti: mi ero sdraiato sopra essi e, fumando, porgevo attento orecchio ai discorsi di quella gente. — E non vuol piovere! — diceva un vecchio contadino. — Sembra maggio, sembra! — E non pioverà, che ai 22. L'ho letto in Barbanera. — Allora siamo bell'e rovinati. Ci fu un momento di silenzio. Malomo badava a raccogliere le ceneri intorno al fuoco; non si udiva che il rullìo del fuso della vecchia contadina, e l'agucchiar delle ragazze, mentre la vampa crepitava or viva e rossa, lambendo gli orli della cappa, or bianca e morente a fior di brace. Poi, rivolgendosi alle figliuole, il massaro disse: — A proposito, avete pensato ai buoi? — Hanno dell'erba nella mangiatoia. — E l'erba non basta con un tal freddo: ci vuole anche un po' di fieno. Va', Rosa, va a pigliarne una bracciata. Nessuno si mosse. — Io non ci vo' a quest'ora — mormorò Rosa. — Ed io nemmeno, ho paura — disse sottovoce la Maria. — Dunque, avete inteso? Vacci tu, Tonno, — fece poi, volgendosi ad un contadinotto, l'ultimo dei suoi figliuoli, che gli sedeva vicino. Tonno anche egli borbottò non so che parola e non si mosse. — Ma vedete che freddolosi! Dunque, animo — disse il vecchio con un po' di collera nella voce. — È inutile, zio Giovanni — fece un contadino. — È alla chiesuola che conservi il fieno, non è vero? — Sì, ebbene? — Ebbene, non capisci che a quest'ora, anche io che son vecchio, non andrei in quel luogo? Fa meraviglia come tu, che ricordi tante cose, hai dimenticato che colà... Zio Giovanni scrollò le spalle, poi: — Hai ragione, sono una bestia. Ma come si fa? I buoi hanno bisogno di fieno! — E perchè non ce l'hai detto di giorno? Di giorno sì, ma di notte sfido chiunque ad andarci — rispose Tonno. — Del resto — proseguì — per una notte i buoi non morranno di certo. — Ma che cosa vi fa restii ad andare nella chiesuola? non è da qui a due passi? — diss'io. I contadini non risposero: il vecchio Malomo mi guardò meravigliato. — Ma non sapete dunque che in quella chiesuola ci sono due spiriti, custodi di un tesoro? — Oh! oh! e perchè tu non hai cercato di impadronirtene? — Non ne ho avuto il coraggio e credo che nessuno l'avrà mai. Bisogna, fra le altre cose, uccidere un fanciullo e bagnar del suo sangue la pietra del sepolcro. Gli astanti rabbrividirono. — Sicuro, — continuò il vecchio. — Sulla pietra del sepolcro, che chiude il tesoro, fa duopo uccidere un fanciullo nato da vedova, raccoglierne il sangue in un calice consacrato, versarne metà sulla pietra, e bere il resto. Poi, alla luce di due fiaccole di pino, segnar due cerchi nel mezzo della pietra, la quale si solleverà da sè. Da quella apertura uscirà un fumo denso di pece e di zolfo; fra quel fumo appariranno gli spiriti che cercheranno soffocarvi. Se voi tenete fermo, badando a non farvi toccare la punta del naso, udrete una voce terribile, che vi domanderà: Che volete? Voi allora: In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, esci di lì e va' all'inferno. A questa invocazione lo spirito fuggirà urlando e cacciando fiamme rosse e crepitanti. Poi attraverso il fumo e le fiamme fa duopo scendere per una scaletta in fondo alla sepoltura. Ivi appariranno i tesori in tre recipienti, una pignatta piena di monete, una casseruola piena di gemme e una marmitta ricolma di pezzi di oro e di argento. Bisogna uno alla volta portarli all'aperto passando tra il fumo e le fiamme, ed il tesoro è vostro. — E qualcuno ha tentato d'impadronirsene? — Eh, altro! Or fan 20 anni un mio cugino, che aveva una sorella rimasta vedova e madre di un figlioletto, rubò il nepotino e con lui si incamminò verso la chiesuola. Nella notte precedente aveva anche rubato un calice alla chiesa di Paternò. Cammin facendo si incontra col fratello, che gli chiede dove andasse; l'altro, dopo lungo esitare, lo mette a parte del suo progetto, che era quello di venire qui a far le pratiche per impossessarsi del tesoro. Il fratello di mio cugino, mio cugino anche esso, inorridito, si scagliò sul fratello e con calci e con pugni lo costrinse a tornare indietro*. — Gesù, Gesù! — fecero le donne segnandosi. — Ma voi come sapete che il tesoro è in tre recipienti? — Fu veduto. — Fu veduto? — Sicuro. Me lo disse or fan trenta anni proprio chi lo vide. E sapete chi? Muso di Volpe, il mio compare che era al servizio dei signori Scerbi. — L'ha detto proprio a te, tata? — chiese Carolina. Le donne aveano smesso di filare, per porgere ascolto e gli uomini si eran chinati vieppiù verso il vecchio contadino. — Proprio a me. Dovete sapere che or fan 30 anni la casa e la chiesuola erano dirute e le mura serbavano le tracce del fuoco appiccatovi dai Francesi. A piè delle cadenti muraglie crescevano le erbe e le ortiche, e le civette e gli uccelli di rapina nidificavano nei buchi e nelle fessure. Muso di Volpe guardava le pecore sulla montagna poco da qui discosto; nel contarle ne trovò una mancante. Era tardi, e doveva tornare all'ovile posto lassù, sulle colline al di là del fiume. Come tornare all'ovile con una pecora di meno? Affidò la mandra ad un pecoraio di passaggio, e, seguito dal cane, si diè a cercar la smarrita per tutte le balze e per tutti i burroni. Era l'avemaria, e la nebbia del fiume già pesava sulla campagna. Muso di Volpe, ostinandosi nelle sue ricerche, giunse al sommo della collina dove incomincia il bosco, che era impraticabile per le spine, i cespugli, i rami che s'intrecciavano come una fitta rete. Egli si aprì a stento il passo e discese la china e trovossi proprio dirimpetto alle vecchie mura della casa e della chiesuola, non restaurate ancora in quel tempo, ed ebbe paura nel trovarsi qui, solo e tanto lontano da casa sua; eppoi sapeva bene che qui la notte si dan convegno gli spiriti, e temeva qualche brutta apparizione. Nondimeno si segnò con la croce, invocò la Vergine Maria e guardossi intorno. Fra la nebbia e l'ombra della notte si disegnavano confusamente le mura scalcinate, e di tanto in tanto rapido passava volando un uccello nero che facea ritorno al suo nido. Muso di Volpe stava per tornarsene, disperando di ricuperar la pecora, quando fra i cespugli che ingombravano il recinto della chiesuola gli parve di vedere qualche cosa di bianco, la pecora senza dubbio. Fischia al cane ed entra fra quelle mura. La pecora di repente spicca un salto e scompare in una buca, la quale non era altro che un'antica sepoltura senza coperchio. Il mio compare vede una scaletta, scende il primo gradino, poi il secondo, poi il terzo, e trovasi in un sotterraneo. Quando, senza sapere in qual modo, il sotterraneo, che era buio come un forno, s'illuminò ad un tratto di una luce rossa e viva come se colà dentro avessero accese cento fascine di vecchi sarmenti. In quell'aria rossa che lo avvolgeva senza bruciarlo, vedea guizzar lampi sottili e rapidi che partivan da un angolo ove scoperchiati vide i tre recipienti. Quello delle gemme aveva luccicori di brace di mille colori; l'oro biondiccio raggiava come il sole al mattino; l'argento bianco come luna a mezzanotte; e, fra le due luci, il vaso delle gemme parea contenesse ammucchiate tutte le stelle del cielo... Il vecchio s'interruppe per giudicar dell'effetto delle sue parole sull'uditorio. Le contadine ascoltavano col fuso sulle ginocchia, con la bocca semiaperta; gli uomini si volgevano sguardi di meraviglia e davano in esclamazioni. Il vecchio proseguì: — Immaginate lo sgomento e insieme la gioia del mio compare Muso di Volpe! In sulle prime avrebbe voluto fuggìre, ma si sentiva come inchiodato in quel luogo; avrebbe voluto distogliere gli occhi da quei bagliori d'argento, d'oro e di pietre preziose che splendevano come gocce di fuoco; ma quantunque si sentisse come accecato, quantunque avesse fatto scudo della mano agli occhi, attraverso la mano vedeva pur sempre quella luce di luna, di sole e di stelle, confondersi in una sola, abbagliante. Egli si fece animo: comprese che era quello un istante supremo della sua vita, e che entrato là dentro povero mandriano avrebbe potuto uscirne più ricco di Don Vincenzo Scerbi suo padrone, il quale ha, cioè aveva, chè se li è giuocati tutti, ben centomila ducati. Corse in quell'angolo ove erano i tre recipienti scoperchiati, aprì con mano tremante il suo zaino, poi immerse le due mani nel mucchio delle gemme e si diè a riempirne lo zaino, poi prese a piene mani le monete d'oro, tutte doppie di 6 ducati, e si diè a riempirne le tasche, poi, toltosi il cappello, tornò alle gemme e ne colmò fino agli orli il suo cappello a cono. — Ed era grande come questo? — chiese Tonno togliendosi il suo cappellaccio sformato dal tempo e dalle pioggie. — Eh, altro! Quando lo zaino fu pieno, quando furono piene le tasche, quando fu pieno il cappello, sicchè Muso di Volpe aveva lampi di luce in tutta la persona e scintillava come acqua al sole, mosse per andarsene. Vi so dire io che il cuore gli balzava in petto come un gatto nel sacco, e non vedea l'ora di uscir fuori all'aperto. Ma sì, impossibile; quell'aria rossa che lo stringeva da ogni parte, non lo faceva andare ne innanzi nè indietro, e nelle sacche, nel zaino che gli pesava sulle spalle, nel cappello, quelle monete, quelle gemme bruciavano come brace di carbone e gli scottavano i fianchi, le spalle, le mani, sicchè il poveretto, vinto dal gran dolore, si diè a piangere, a singhiozzare; quando un grido terribile che veniva da un angolo del sotterraneo gli diede uno schianto al cuore. — Lascia! — diceva quel grido. Muso di Volpe volse gli occhi a quella parte e vide, nell'arco rosso del sotterraneo, in fondo, una testa nera orribile, con due pupille gialle nel mezzo della fronte, con una bocca fino alle orecchie, lunghe come quelle dell'asino, e dalla bocca, fra i denti neri, penzolava una lingua rossa biforcuta. — Ho paura, ho paura, mamma! — dicevano le due giovinette piegando il capo sugli omeri della madre, che si facea la croce, biascicando avemarie e paternostri. Gli altri contadini, anche essi spaventati, baciavano divotamente l'abitino che pendeva loro dal collo. Il vecchio, soddisfatto dall'impressione destata, dopo aver aspirato rumorosamente un pizzico di tabacco da una scatola di legno, si accingeva a continuare il racconto, quando una folata di vento, passando per la fessura della porta, ravvivò la fiamma del focolare, che elevossi in guizzi rossi e crepitanti, mentre il vento mugolava sordamente per la campagna. — Mamma mia, Madonna mia! — fecero i contadini balzando spaventati. — Non è nulla, non è nulla — disse il vecchio Malomo, forse anche egli in cuor suo trepidante. — È il vento, ed è buon segno, chè ci porterà l'acqua. Ma veggo che vi ho spaventato troppo e però è meglio che taccia. Sapeva però il vecchio che la curiosità è più forte della paura. Infatti, appena i contadini tornarono a sedere, uno di essi, interpretando il voto di tutti, disse: — Continua, via, zio Giovanni. Infine ognuno di noi ha in petto l'abitino della Madonna del Carmine e la brutta Bestia, che sia sempre maledetta, non oserà far cattivi giuochi con noi. Le ragazze anche esse, pur nascondendo il viso sugli omeri della madre, porgevano attento orecchio tra curiose e spaurite. Bisogna credere, dal modo come ripigliò il discorso, che al vecchio contadino sarebbe rincresciuto il tacere: onde egli continuò: — Muso di Volpe, a quella voce che gli gridava: “Lascia!” comprese che dovea deporre il tesoro, e, quantunque a malincuore, chè in lui l'avarizia era più forte della paura, si diè a vuotare le tasche ed il cappello; e sperando che lo spirito non si fosse accorto dello zaino, muoveva per andarsene, quando un'altra volta rimbombò la terribile parola: “Lascia!” E allora Muso di Volpe sospirando vuotò lo zaino, dicendo: Ora puoi concedere che io me ne vada! — “Lascia!” — gridò di nuovo lo spirito. — Lasciare? — che cosa, se aveva tutto vuotato ed i recipienti eran tornati colmi come li aveva visti nell'entrare? — Non ho più nulla — diceva il mio compare. — “Lascia!” — continuò a gridare quella testa, che il poveretto vedea nell'aria rossa del sotterraneo agitarsi, digrignare i denti lunghi e neri, sporgere un palmo la lingua fiammante e fumante, mentre le gialle pupille nella fronte nera mandavano lampi come zolfo acceso e le lunghe orecchie pelose battevano con sordo frullo come l'ale nere di un uccellaccio. Muso di Volpe tremante, smarrito, frugò nelle tasche, nello zaino, nel cappello, e non trovò nulla, e si disperava e piangeva perchè si sentiva come inchiodato al suolo, come soffocato da quell'aria rossa, come ferito da quelle due pupille gialle che lo fissavano minacciose. Ma nel chinarsi per frugar nelle brache, vide lucere una moneta fra le cordicelle che assicuravano al piede i calzari di cuoio; la tolse di là e la gittò nel mucchio. Di repente, come quando in una stanza si smorza il lume, trovossi in una oscurità completa: non più luce rossa, non più luccichìo di gemme; buio, buio completo: solo di fuori, in alto, fra gli strappi della nebbia, vedea splendere una stella. Uscì di corsa da quel sotterraneo e tutta notte vagò come uno smemorato per la montagna. Tornò la mattina all'ovile, si mise a letto con una gran febbre che lo tenne tre mesi fra morte e vita. E sapete che disse il medico, che, detto fra noi, doveva essere un asino? Disse che la febbre era sopraggiunta a Muso di Volpe, mentre guardava le pecore, e tutto quel che aveva visto era effetto della febbre. — Sì, mo' la febbre fa vedere i tesori custoditi dal diavolo, che maledetto sia! Doveva essere una bestia quel medico — esclamarono i contadini. — E tu che ne pensi, Giovanni? — chiesi io. — Che volete che vi dica? Un tempo, or fan 30 anni, nessuno avrebbe osato mettere in dubbio certe cose. Ma adesso non si crede più a Dio, lodato sempre, non si crede manco al diavolo, che possa sempre bruciare ove brucia. Le donne ripresero a filare, i contadini zittivano pensosi. Il vecchio zoppo, lieto dell'effetto ottenuto, mise una bracciata di legna al fuoco che divampò più vivo, mentre il fumo azzurrigno ascendeva lentamente verso il soffitto. — Ma di' un po', come è nata la credenza che in quell'antica chiesuola ci sia un tesoro? — Si narra una certa storia che rimonta a molti anni dietro, signorino mio. — A quanti? — Al tempo dei Francesi. È certo che molti hanno visto lungo quelle mura, a mezzanotte, quando non c'è luna e l'aria è nera, aggirarsi due forme bianche. L'una ha il viso di una fanciulla bellissima e delicata, candida così di volto che gli occhi nella faccia sembrano due buchi neri nella neve, e i capelli lunghi e sottili che si confondono con la nebbia che si alza dal fiume. Nel petto, anche esso bianco e appena delineato, dicono quelli i quali l'han visto, che avvi un buco rosso, dal quale scorre un filo sottilissimo di sangue. L'altra ombra è quella di un giovane, bello anche esso, e anche esso con due buchi rossi, uno al petto e l'altro nel fianco, dai quali scorre il sangue lieve lieve… Essi escono abbracciati dalla sepoltura e stretti l'un l'altro si aggirano lungo le mura, si nascondano nei cespugli, siedono sulle pietre, e li hanno intesi mormorare parole ignote e li hanno visti baciarsi con lieve mormorìo. — Ma quale è dunque questa storia? — Non la so che in confuso, per averla intesa raccontare da tata buonanima. — Narracela come la sai — dissero ad una voce i contadini, che pendevano dal labbro del vecchio Malomo. Questi tolse dalla scatola di legno un altro pizzico di tabacco, lo succhiò rumorosamente con le nari, poi volse gli occhi intorno e visto che erano tutti intenti, sorrise soddisfatto e principiò a dire: — Io allora non era nato; tata era un giovanetto che abitava in una torre vicina: quindi si può dire che i fatti che or ora vi narrerò brevemente accaddero sotto i suoi occhi. Qui allora sorgeva una casa vastissima a due piani; attigua ad essa era la chiesa. I padroni di questa montagna, che avevano il titolo di Baroni di Virano, eran gente religiosa e in casa loro avevano il cappellano che diceva messa ogni domenica. Il barone non aveva che una sola figliuola, ma bella tanto, che pareva una Madonna, sempre sia lodata. Qui vicino aveva anche una casa il marchese di Chiatrato, il quale se ne stava però una buona parte dell'anno in Napoli presso il Re, che gli voleva un gran bene e l'aveva fatto ciambellano, che vuol dire un pezzo grosso nel palazzo dei regnanti. Il marchese aveva un figliuolo capitano, giovane coraggioso e bello come un San Michele. Ora questo giovane, essendo venuto a caccia in questa montagna che limitava col suo feudo, si incontrò un giorno con la figlia del barone e se ne innamorò pazzamente, ed anche ella pazzamente si innamorò di lui. Le due famiglie si misero d'accordo e fu deciso il matrimonio. Però il diavolo, come suol dirsi, ci mise la coda ed il giovane fu richiamato a Napoli, perchè allora, già voi non le capite certe cose, allora i Francesi minacciavano di cacciare dal regno il Re, ed il Re aveva bisogno di soldati per far la guerra. Immaginate il pianto, la disperazione della fanciulla nel dividersi dal suo fidanzato; ma non c'era che fare e gli convenne partire. Poi il Re fu costretto a fuggire da Napoli ed il giovane capitano lo seguì in Sicilia. Intanto i Francesi eran venuti anche qui da noi, ma trovarono pane pei loro denti, chè i nostri padri anzichè piegare il collo, amarono meglio pigliar la montagna e morire fra le schioppettate. E di schioppettate se ne tirarono, ve lo so dire io, e di Francesi ne morirono, chè se andate alla Sila e scavate, in ogni zolla troverete ossa di Francesi. E quella fu guerra santa. Se aveste visto! Villaggi incendiati, boschi divorati dalle fiamme, carneficine, omicidii, assassinii, insomma parea venuto il finimondo. Dietro ogni albero si era sicuro di trovare un calabrese con la carabina spianata ed il pugnale fra i denti, ed in ogni macchia una banda appiattata per balzar sui Francesi che osassero avventurarsi sulle montagne. Però anche i Francesi avevano da noi amici che si chiamavano liberali, mentre i nemici eran detti borbonici. Ed avveniva che se i Francesi vincevano, i liberali incendiavano le case, uccidevano le persone, perseguitavano e scacciavano dai villaggi le famiglie dei borbonici; se i Francesi eran perditori in qualche battaglia od in qualche scaramuccia, alla loro volta i borbonici davano addosso ai liberali. Insomma, cari miei, pareva proprio che il Signore, lodato sempre, ci avesse dimenticati e dati in balìa della brutta Bestia. — Lascia stare le considerazioni e narraci la storia promessa — dissi io. Il vecchio non fu soddisfatto della mia interruzione, si chinò per raccogliere le ceneri intorno al fuoco, e poi riprese a dire: — Come avvenne non so, ma il figlio del marchese di Chiatrato fu mandato dal Re per disciplinare le bande e mettersi a capo di esse, le quali ben dirette presero il sopravvento, ed i Francesi presto si accorsero che il capo era valente e coraggioso. Fu bandita una taglia di cinquemila ducati sulla sua testa, e intanto si raddoppiarono le truppe, e in ogni montagna fu posta a guardia una compagnia di soldati. In casa del Barone, che se ne era rimasto in campagna per mantenersi affatto estraneo ad ogni partito, prese alloggio un giovane tenente, i cui soldati dormivano nella torre, dove ora siamo noi. La figliuola del Barone era in continui palpiti pel suo fidanzato, di cui sentiva discorrere come di un brigante, quantunque nessuno sapesse il vero nome di lui, perchè egli era conosciuto sotto il suo nome di guerra e lo chiamavano “lo Sparviero”. Il tenente, non sapendo come meglio occupare il suo tempo in questa campagna solitaria, faceva lo sdolcinato alla figlia del Barone, la quale pensate voi se poteva dargli retta; ma lui duro a dirle dolci parole e a far venire per lei da Cosenza mazzi di fiori, nastri, libri, che però non erano accettati, sicchè il Francese si rodeva della rabbia e dalla gelosia. Però credete voi che i due fidanzati non si vedessero? Quando più buia era la notte e più deserte e silenziose le campagne, mentre i soldati dormivano qui, in questa torre dove ora siamo, e nella casa del Barone servi e signori erano a letto, e il tenente gonfio di vino, chè era un gran bevitore, russava nella sua stanza, — un uomo avvolto in un mantello nero, col cappello calato sugli occhi, con la carabina a bandoliera, saliva la collina a passi di lupo, fermandosi ad ogni tratto per tender l'orecchio; poi radeva le mura della casa, e giunto presso alla chiesuola ne spingeva pian pianino la porta, che si apriva per poscia rinchiudersi alle spalle di quell'uomo. La chiesuola era rischiarata dalla lampada che ardea dinnanzi al quadro della Vergine sull'altar maggiore. Quell'uomo, che era il capitano fidanzato alla figliuola del Barone, sedeva sui gradini dell'altare e aspettava finchè un lieve calpestìo nella scaletta dietro la porta che comunicava con le stanze della casa baronale, non l'avesse fatto accorto che la fidanzata scendeva all'usato convegno. Quel che facessero là dentro non so: certo non contavano storie, come fo io: erano giovani, belli, e si amavano, ed il loro amore era reso più saldo dalla separazione, le loro gioie più vive dai pericoli onde erano circondati. Corse voce che un fantasma si aggirava per la contrada; ma il tenente, eretico come tutti i francesi, non credeva ai fantasmi e si mise in animo di vegliare ben bene, tanto più che avendo saputo essere la figliuola del barone ( la quale non si degnava neanche di sorridere alle parole di lui ed a vederlo fuggiva nelle sue stanze ) fidanzata ad un capitano borbonico, di quelli che avevano seguito il Re in Sicilia, sospettò che il fantasma ben potesse essere il fidanzato, e si confermò nel sospetto quando seppe che l'audace capobanda, detto lo “Sparviero”, era stato riconosciuto da alcune spie pel figlio del marchese di Chiatrato. Ed una notte il tenente, invece di andare a letto, smorzato il lume della stanza, si mise in vedetta alla finestra, e vide benissimo che un'ombra nera saliva la collina e poi giunta presso alla chiesuola ne apriva la porta che le si richiuse alle spalle. Allora il tenente, per non far rumore, scese dalla finestra e corse qui a svegliare i soldati, i quali coi fucili spianati si appostarono intorno alla chiesa, mentre il tenente con cinque o sei dei più risoluti incominciava a dar di gran colpi alla porta. Quando questa cedette, i Francesi irruppero dentro. Si intese un grido, poi due colpi di pistola, e quando il fumo si diradò, si vide presso ai gradini dell'altar maggiore un uomo in ginocchio che sosteneva fra le braccia una donna svenuta. Gli occhi di quell'uomo brillavano come brace; egli imbrandiva una corta e larga daga, e minaccioso fissava i soldati, i quali, visto cader due dei loro compagni, si slanciarono col tenente su quell'uomo, che si alzò ritto in piedi e ruggendo di rabbia tenne loro fronte colpendo di taglio e di punta. La fanciulla, che era la figlia del barone, giaceva sui gradini dell'altare con la testa riversa, col corpo abbandonato. Non so quanto durò quella lotta: gli altri soldati eran corsi a dare aiuto ai compagni, ma quell'uomo….. avete visto talvolta lottare il cignale contro una muta di cani? Ebbene, così lottava quell'uomo, già crivellato di ferite, ma impavido sempre, finchè, dopo avere atterrato buon numero di nemici, sentendosi venir meno, riunendo tutte le forze si scagliò sul tenente, ed afferratolo per la gola gl'immerse la daga nel petto. Poi quando vide precipitar come fulminato il nemico, corse, inseguito dai soldati, ai gradini dell'altare, prese in braccio la fanciulla che non dava segno di vita, e cercò aprirsi il passo; ma invano, chè i Francesi gli furono sopra e lo colpirono con le daghe, coi calci di fucili, finché egli cadde senza vita in un lago di sangue. — Oh! poveretto, poveretto! — esclamarono gli ascoltanti. — E della figlia del barone? — La figlia del barone fu ferita anche essa e agonizzava presso il cadavere del fidanzato. I parenti ed i servi, svegliati dal fracasso, erano accorsi, e immaginate qual cuore fu il loro nel veder quella scena! I soldati, inferociti in veder morti da un solo ben cinque di essi e feriti parecchi, arrestarono la famiglia del barone, e poscia, per vendicare il tenente ed i compagni, appiccarono il fuoco alla casa ed alla chiesuola e partirono per Cosenza con i prigionieri, resi pazzi dal dolore e dalla vergogna. — Ma in qual modo è nata la credenza che in quella chiesuola vi sia un tesoro? — Perchè il capitano andava a seppellire colà dentro le ricchezze tolte ai Francesi nelle sue scorrerie. È certo che il tesoro fu visto, ed é anche certo che le anime di quei due poveretti vengono ogni notte ad aggirarsi per questi dintorni. Le donne ripresero a filare, gli altri contadini con le mani stese alla fiamma zittivano paurosi. Lontano, come un gemito soffocato, alcuni squilli ad intervalli si udirono nel silenzio solenne della campagna. — Mezzanotte — disse il vecchio Malomo segnandosi. — L'abbiamo fatta tardi stasera. E con gli occhi alle braci biascicò un'avemaria. Mi alzai per tornarmene alla mia casetta in fondo all'aia. Aprii la porta: il cielo era coperto di nuvole, la campagna silenziosa e nera. Di tratto in tratto i vecchi castagni stormivano sinistramente.
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* Storico. |
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