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Giovanni Meli
Ditirammu

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  • DITIRAMBO Versione dell’ab. Filippo Cinardi.
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DITIRAMBO

Versione dell’ab. Filippo Cinardi.

Rosario, Maso l’orbo, Andrea accattone,

Giuseppe il matto, e lo sciancato Nino

Lo scotto pareggiando in unione

Con Biaggio galeotto e malandrino

Nella bettola grande di Bravasco

Mossero la battaglia ad ogni fiasco.

 

E dopo che sciupate fur le botti,

Cotti e stracotti,

Saltano, corrono, danzano, tuffano

Nei guazzi per le strade

Di tutta la cittade,

In mezzo a la belletta e la corrente

Spruzzano, lordano tutta la gente.

 

Ma intanto i semplicetti,

Ragazzi e ragazzetti,

Facchini e seggettieri,

Lacchè cogli staffieri,

Cocchieri e servitori,

Ne gían dei bevitori

Seguendo le pedate

Con baje, con berline e con fischiate.

 

Lor salta subito un grillo in testa,

Di un certo amico lì vicinissimo

In casa accorrere per una festa;

Festa, che davasi per certe nozze

Solennizzate con pompa rustica,

Con bizzarrissime maniere rozze.

La sposa amabile era bastarda,

Betta nomavasi arci‑bruttissima;

La generarono fra Diego e Narda.

Avea la giovane imbrodolate

Le guercie luci, e le lordissime

Da mocci a grappoli guancie solcate.

Il mento turgido, il fronte ottuso;

Befana al viso, la faccia ruvida,

Il naso a buccina, di grugno il muso;

Sudiccia, orribile, grama, tapina,

Cenciosa e lacera,

Dura, disutile, e cervellina.

 

Lo sposo nobile era ser Rocco

Arci‑devoto del nume Libero,

Ghiotto, vil, lacero, arso, pitocco.

 

Or ambo assiedonsi a desco molle

Tra tanti amici confidentissimi.

Ma il posto orrifico tra tutti il volle

Catarinaccia,

Negra, lordaccia,

Narda, chiamata

La spiritata,

Betta cianciera

E cinguettiera.

Angela finalmente attizza‑liti,

E Rosa Sfincia attossica‑mariti.

 

Sturando tal brigata ebra‑festante

Il secondo baril di vino carico,

Dei vini il più majuscolo, e di quello

Del più antico millesimo,

Ben stipato,

Conservato,

Stagionato,

E secondo il parer che là si dava,

Era un vin che ogni petto imbalsamava.

 

Ben tosto a rotta guerra sopravvengono

Cedevoli, arrendevoli, e vi piombano

Trai bravi bevitori gli arcifanfani.

Quei sei alabardieri importunissimi

Franchi franchissimi colà s’infilzano,

Ad otta appunto arrivano, e gli attentano

Coll’aperto barile, e gli s’avventano.

 

Rosario in quella mischia il più smargiasso

Al fondo del baril stende la mano,

Come fosse Alessandro il gran sovrano;

Senza dire a quella schiera

Nè buon dì, nè buona sera,

Zitto zitto di leggiero

Subito imboccasi lo spillo intero.

 

Vedendo là un boccal poi preparato,

Di vino ben colmato,

Che fea l’odor di nettare squisito,

Che bolle e che spumeggia assai gradito,

L’abbranca, e mentre il tien, grida: per bacco!

Chi vien da me col pugno mio l’ammacco!

 

Vino vino

Vo’ ber’io;

Prendo, piglio,

Tutto è mio.

Su compagni, su cionchiamo

Ed empiamo

Ed empiam bicchieri e tini,

E mesciamo

E mesciamo entro le ciotole

Anzi in un pelago i dolci vini.

Con una corpacciata

Di questo bel siroppo

Qual daino va saltando,

Gavazza senza intoppo,

E senza risentir dei mali il pondo

L’uom vive felicissimo nel mondo.

 

Terrò per un minchione e cacacciano,

Disutile, baggéo, stupido e vile

Chi non s’inebria or ora a larga mano,

Chi non crepa qui sotto del barile.

 

Si morda il diavolo,

Vo’ fare un brindisi

Al caro e amabile

Vecchio Palermo6;

Egli presentasi

In faccia al mondo

Per sollennissimo

Gran pisciabondo

Nel fonte centrico

Di Fieravccchia,

E sì pisciando

E ripisciando

Egli qual misero

Più ognor s’invecchia.

 

Bevo alla tua salute in questa tazza,

Palermo, in verde età vera cuccagna;

Sfoggiavi pompeggiando in gloria magna

Coll’elmo e coll’acciar, pala, e corazza.

Usando or da galante e parigino,

Mode, sfarzi, carrozze e splendidezza....

Cadesti, e par che sei nella bassezza,

Arso, spiantato, ahimè senza un quattrino.

L’inerzia, il gioco, e le jattanze rie

All’orlo ti portar del precipizio;

Tardi pentito or or metti giudizio,

Scontane il danno, e piscia alla mal die....

 

Ma vadano a diavolo

Idee sì malinconiche;

Adesso sempre in compagnia di Bacco

Qual monaco vo’ fare eremitorio,

Che col capo imbacuccato,

Senza alcun che lo molesta,

Dentro il coro e refettorio

Stassi vergine di testa.

 

Quando di vino

Son pieno assai,

La vita squallida

Fugge, spariscono

Palpiti e guai.

 

Sorte, volubil sorte, ah fa di grazia

Che cantando e ingollando alla pazzesca,

Possa cantare ed ingollar cotanto

Che l’epa rigonfiata e più che sazia

Possa dar nell’ultim’otta,

Scoppiando alfin con memoranda botta.

 

Dal nappo, che mi sembra una pozzanghera,

Mentre a diluvio il vin scende e mi abbevera,

Sento strano calor che il senso sganghera,

Che cupo in varie vie serpe e si scevera.

 

Ma già l’ignito fluido

La testa invade e domina;

Mi gira come trottola,

Qual arcolajo agguindola,

Facendo capitombolo

Quì sotto e sopra il celabro;

Già già le mura girano,

Già già le porte sbattono,

Il suolo balza e ciondola,

Il mondo s’aggomitola,

Le teste già tramballano,

Tavole e sedie alla trambusta ballano.

 

Salvati salva;

Che chiasso! che strepito!

Guardati guarda;

Che strage! che fremito!

Torna torna ahimè il diluvio!

Giove in cielo s’affacciò,

Tutti i portici sbarrò.

L’alto empireo porporino

A ribocco piove vino:

Tutti all’erta e pronti state,

Tini e botti preparate.

 

Cresce il torrente....

Ove mi caccio?

Entro repente

Come un turaccio

In questo tino....

Ma che? sbagliai,

No non è tino,

È un cado aperto

Zeppo di vino,

Che cola e che ricola

Liquor celestiale

In questo solennissimo boccale.

 

Mi ferve il gozzo....

Dammi o boccale

Altro baciozzo....

Questa è vernaccia....

Se alcun la tempera,

Sgrugnata in faccia

Gli menerò.

 

L’acqua non vuol marito, ama che vergine,

Qual nacque, stia soletta illibatissima

O nei fiumi o nei mari ovver ne’ nugoli

O tra laghi tra pozzi e tra fontane,

Pei granchi per li pesci e per le rane:

Se coll’olio si mesce, a galla è l’olio;

Se si mesce alla terra, è già fangosa;

Se si mesce col vino, è catarrosa.

 

In mente orsù scrivetevi

Un motto sì galante,

Che l’acqua è ognor malefica,

Il vino è ristorante.

 

Colui che ha fregola

Viver beato,

Di vin negr’ottimo

Sia abbeverato;

Però di quello

Che vien da Mascali,

Che per smorfia signorile

Non si cura in un barile;

Poi si compra come alchimia

Imbottigliato,

Incatramato,

E suggellato

Da un scaltro forastiero,

Che ora indietro ed or dinanzi

Va vendendo, va gridando

Trinch‑lansi, vin de Fransi.

 

Se la chiusa monachella

Sta dolente, mesta, itterica,

Cupa cupa nella cella,

O convulsa, oppure isterica,

Beva beva alla rinfusa

Moscado di Catania e Siracusa:

Non è cura radicale,

Pur è un farmaco al suo male.

 

La donzelletta,

Vergognosetta,

Timida timida e ritrosetta

Pel vino calabrese si elettrizza,

D’amore al pizzicor poi ferve e guizza.

 

Quelle vedove piagnose

Sempre afflitte ed accorate,

Che rimembrano dogliose

Le dolcezze già passate,

Onde cessi il loro pianto

Preparino al dormir due fiaschi accanto.

 

Maritate, se le pene,

O la brutta gelosia

V’han divelta l’allegria,

V’han gelate pur le vene,

Di Lipari cioncando malvagia

Inforzerete,

Riscalderete;

Qual di vipera il liquore

Girando scalderà le vie del cuore.

 

E quegli deboli,

Ch’hanno lo stomaco

Sfinito e languido,

Viscoso, e carico

Di flemme ed acido,

La faccia pallida,

La carne flaccida,

Devono bevere

Il Risalaime

Ch’è panacea,

O il filosofico

Lapis veridico;

E se bevendolo

E ribevendolo

Non si ristorano,

Non si rinfrancano,

Tornino a bevere

Ed a ribevere

A josa piena

Questo e quel vaso,

Finchè a bizzeffe

Lor esca per gli orecchi e per il naso.

 

Quell’uomo sventurato ed infelice,

Dalle vane lusinghe abbarbagliato,

Che sprezza il bene ed al peggior s’addice,

Dal nembo degli oggetti affascinato,

Che sta doglioso in cor, non mai felice

Benchè alle feste, cupo, aggramagliato,

Se dei Ciaculli il vino omai l’accende,

Guarito allor di tai follie si rende.

 

Se qualche amabile

Donzella semplice,

Paffuta e tenera

Sente nell’anima

Qualche simpatico

Verme che rosica,

E soffre orribili

Gravezze e sincopi,

Spasmi dell’utero,

Affetti isterici,

E cento cancheri

Dentro le viscere;

Se mai desidera

Tutti erpicare,

Tutti estirpare

Tai fantastici vermazzi,

Vernaccia insacchi ognor de’ Ficarazzi:

Trinchi, cionchi la vernaccia,

Che un diavol l’altro caccia.

 

Ne convengo, amici cari,

Di taverne siete tutti

Informati e bene istrutti

E negar nol posso, oibò!

Dite bene, e lo confermo,

Che nel mondo tutti i vini

Son bellissimi e divini,

Son celeste ambrosia, il so.

Ma però con buona pace

Io sostengo che il primato

L’ha quel vin ch’è stagionato;

E l’attesto, e lo dirò.

 

Questo vino è sì pregiato,

Che da tutti è ben lodato,

E da dame e cavalieri,

Da magnati e forastieri

Con un muso raggrinzato

Vino asciutto vien chiamato.

 

I francesi innamorati

Vini voglion delicati,

Ora Cipri, ed or Fiorenza,

Or Pulciano, ed or Borgogna

Or Sciampagna, ed or Bordò;

Io direi con lor licenza

Non son vini questi tali,

Ma son acque trïacali.

 

E se l’inglese poi trinca la birra,

È prova incontrastabile

Che in mezzo all’opulenza è miserabile.

Noi che beviamo,

Tracanniamo

I vini sicoli

Vigorosissimi,

Siam certo più di lor ricchi ricchissimi.

 

O Castellovetrano, o mio tesoro!

Dolce fiamma del cor, nome adorato,

Se rimembro te sol, io languo e moro,

Mi sento dal piacer preso, incantato.

 

O Carini! o memoria! o gioia mia!

Tu sollucheri l’alma di dolcezza:

Tu o Alcamo! o Ciaculli! o Bagaria!

Sei centro della vera contentezza!

 

Vi piova onor benigni influssi il sole;

Vacca col corno e con li denti ingordi

Non smozzichi il magliol che morder suole,

E lungi dalle viti e merli e tordi.

 

O Liéo consolatore,

Solazzo dei mortali,

Nei gotti e cantimplore

Sommergi tutti i mali.

Dice per te il bugiardo

La pura verità;

Fai fervido il codardo,

Non curi gravità.

Avvigorato il sangue

Per te ribolle in seno;

Chi sdilinquito langue

Per te di forza è pieno.

Scacci la gelosia,

Tergi dagli occhi i pianti,

La dura ritrosia

Tu vinci degli amanti.

Non solo ai vati accendi

E l’estro ed i pensieri,

Ma noti al volgo rendi

D’Apolline i misteri.

Quantunque io vile e rozzo

Addetto alle cantine,

Un sorso tuo che ingozzo

Mi fa spacciar dottrine.

 

Voglio cantare,

Voglio ballare,

Su via suonatemi

Le naccarette:

Lungi a diavolo

Corni e trombette.

Non gravicembalo,

Non violino,

Non vo’ salterio,

Non chitarrino:

Quelle mi piacciono,

Quelle m’ispirano

Certo patetico

Dolce sonnifero,

Che ratta l’anima

Si bea.... qual’estasi!....

Me ne strabilio,

Placido placido

Vo’ in visibilio.

 

Orsù, compagni miei, se voi bramate,

Che canti una canzone, ormai suonate

A stil di Napoli,

Ch’è dolce e bello,

Il liuto armonico,

L’arguta cetera,

Con piastre stridule,

E il tamburello.

 

Amor mi ferve in petto e mi titilla;

Svolazza e quinci e quindi il mio cervello;

La bella al gozzo mio gran frega istilla;

Mi stempro al suo sapor gradito e bello.

Vieni, che a te pensando il cor mi brilla,

Vieni, te sempre anelo e sempre appello....

Vieni, bottiglia mia, te sol golio,

Vieni, gorgoglia, e scendi al petto mio.

 

Capperi! capperi!

Oh Dio! che sincope!

Non posso più.

Già mi precipito....

Biaggio carissimo,

Sostienmi tu.

 

Quali strani capogiri

D’improvviso mi fan guerra!...

Testar voglio pria ch’io spiri

E che lasci questa terra....

Scoppiata l’anima, allegri e gai

Voglio che vengano i tavernai

Con botti agli omeri, caraffe in mano;

Non voglio monaci, nè sacrestano.

Voglio il mio scheletro spolpo, tuffato

Di regio nettare nel tin colmato.

 

Non voglio il tumolo di un vil plebeo,

Ma un superbissimo bel mausoleo,

Alto e magnifico, secondo l’uso

Tre canne in aria da terra in suso.

Fra quelle nobili cantine, in una

Che botti in copia ricolme aduna;

E fatto a macchina vo’ che si scopra

Di botti un cumulo, ed io lì sopra.

 

Quel dì si spezzino in mia memoria

Ampolle ed anfore alla mia gloria.

Mesti tintinnino fiaschi e bicchieri,

 

E posti in ordine li cantinieri

Voglio che cantino concordemente

Del vin l’officio solennemente.

 

Lascio, o carissimi, nel solo vino

Un vital farmaco e peregrino,

Fonte inesausto di vero bene,

Che scaccia il torbido di negre pene.

Di vin se turgidi sarete, il mondo

Schifoso, orribile, parrà giocondo,

E in forma magica cangiata appena

D’alte delizie sarà la scena.

 

Vani ed inutili

Tanti spargirici

Tutti s’affumano

Soffiando mantici;

Tutti distillano

Con arte chimica

Nelle storte preparate

Mille e più zenzoverate;

Così cercano e ricercano,

Onde curisi ogni male,

Il lapis, medicina universale.

 

Ma s’è verissimo

Che ciò si dia,

No non ritrovasi

In speziaria

Tra quei barattoli,

Tra quegli armadii

Di tanti squallidi

Aromatarii;

Il troverete,

Se ’l cercherete

Nei bettolieri, bevoni, e facchini,

Nei cadi, nelle botti, e dentro i tini.

 

A tutti i miei nemici, onde le viscere

Si rodano di rabbia, a tutti lascio

Le cure che rimuovo e mando a fascio:

Pur si distillino,

Si dicervellino

Circa l’origine

Di mondo ed uomini,

Di tuoni e fulmini,

Di venti e grandini:

Perchè non penzola

Il mulo e l’asino,

La pietra in aria?

Perchè producono

Le porche e gli orti

Piatti li broccoli,

Lunghi li cavoli,

Rosse le fragole?

Perchè i cocomeri

Curvati e torti?

E perchè il vino

Dentro le fauci

Ci pugne e morsica,

Ci alletta e pizzica,

Titilla e stuzzica?

L’acqua all’ugola diventa

Floscia floscia, lenta lenta?

 

Tali dubbj e tai pensieri

Non gli sciolgo, nè indovino,

Ma li tuffo tutti intieri

Nella ciotola di vino.

 

Ecco il gentame attruppasi

A quattro a quattro.... ahimè!...

Gli occhi di fosco appannansi....

Tal novità perchè?

Pesa la testa e gravita....

Oh ciel che mai sarà!

Vo a zonzo.... sostenetemi

Amici per pietà.

Le gambe mi traballano....

Tentennano... che fu?

Oh cielo!... ciel!... mi ruzzolo...

Ahi! ahi! non posso più.

 

Messer Rosario sì trafelato

Svigora.... affannasi.... è rilassato;

E in mezzo a quella gente,

Con occhio immobile e tralucente,

Le braccia il misero tien penzolone,

Anza.... balbettica qual tartaglione;

Cade, precipita.... in piè risale,

Va a schisa, e ciondola, ch’è troppo frale;

Arranca e sdrajasi.... poi s’alza.... oscilla,

Girasi, girasi.... volta, vacilla,

Finchè per ultimo poi barcollando

Fa tonfo orribile giù stramazzando.

 

Qual monna già cottissimo

Lo stuolo inciuscherato

Accorre, e leggerissimo

L’ha a coccolon poggiato.

Qual fosse quindi un bambolo,

Con vero amor di frate,

Lo tien senza pericolo

A braccia incrocicchiate.

Così con piè geometrico

La lega camminando

Sel porta a casa in giòlito,

Cantando e festeggiando.

 




6 Si allude all’antica statua di Palermo sovrapposta al fonte della piazza Fieravecchia.






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