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Luigi Zanazzo
Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma

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  • Parte III. Giuochi fanciulleschi divertimenti, passatempi esercizi
    • 9. — Carozza d’oro.
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9. — Carozza d’oro.

È un giuoco che si eseguisce da parecchi ragazzi. Si fa la cônta; quindi il capo-giuoco a ciascuno dei giocatori un soprannome. Per esempio: orecchino d’oro, cucchiaio d’oro, spilla d’oro, tutto deve essere d’oro. Fatto questo il capo-giuoco si mette a sedere a fare da mamma, e il giocatore destinato a sorte dalla cônta s’inginocchia davanti a lui, e mette la testa tra le sue gambe, in modo da non poter vedere nulla; tutti gli altri, a breve distanza, si dispongono intorno a loro due, dicendo, mentre girano le mani sul petto:

 

«Lavorate, lavoranti,

Chè le forche soammannite

Pimpiccavve a ttutti quanti

Lavorate, lavoranti!».

 

La mamma fa cenno a uno de’ compagni che le stanno d’attorno di colpire sulle spalle quello che sta inginocchiato davanti a lei. Ciò fatto, tutti si rimettono a girare le mani ripetendo:

 

«Lavorate, lavoranti, ecc.».

 

Il fanciullo colpito, si alza e dice alla mamma:

Monsignore m’hanno ferito.

Chi vv’ha ferito?

La lancia.

Annatel’a ppija in Francia.

E si in Francia nun c’è?

Trovàtelo indov’è.

E si nun vieni’?

Pijàtelo pe’ ’n’orecchia, e pportatelo qui.

A questo comando il fanciullo si dirige verso il compagno che suppone lo abbia colpito; lo prende per un orecchio, lo conduce davanti alla mamma, la quale gli dice:

Chi è essa?

Carne allessa (o callaléssa).

Se lo ha indovinato la mamma gli risponde:

Buttàtela ggiu ch’è essa.

E se non ha indovinato:

Rimétteteve ggiù; ché nun è essa.

Ed egli deve rimettersi in ginocchio e ricominciare daccapo.

 

Il Belli, senza dare il titolo di questo stesso giuoco, così lo descrive:

«Fra gli altri sollazzi puerili, usa in Roma il seguente. Un fanciullo si asside giudice. Un altro curvato e colla faccia in grembo a lui, è percosso da qualcuno del resto della compagnia che si tiene ivi presso schierata. Rizzatosi allora sulla persona, dice al giudice l’offeso: Monsignore, ecc. ecc. Pijatelo pe’ ’n’orecchia, e pporatelo qui. Con questo mandato va egli attorno, fissando in volto tutti i suoi compagni, se mai vi apparisce alcun modo dal quale arguire la verità: mentre gli esplorati si agitano fra le più curiose smorfie del mondo, per comporsi ad un aspetto d’indifferenza. Finalmente ne sceglie uno, e lo conduce al giudice che gli domanda: Chi è questo? Il querelante risponde: Carne allesso; e il giudice, rivestito insieme della prerogativa di testimonio, riprende: Riportatelo via che nun è esso; ovvero: Lassatelo qui che è esso, secondoché il reclamo era bene o male applicato.

Nel primo caso, il povero deluso ritorna al suo posto in seno al giudice per subirvi nuove percosse; nel secondo, vi subentra invece il reo convinto; e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e condanne». (Vedi la nota 6 del sonetto del 4 giugno 1835: Monsignore sostato ferito).




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