9. — Carozza d’oro.
È un giuoco che si eseguisce da parecchi ragazzi. Si fa la cônta;
quindi il capo-giuoco dà a ciascuno dei giocatori un soprannome. Per esempio:
orecchino d’oro, cucchiaio d’oro, spilla d’oro, tutto deve essere d’oro. Fatto
questo il capo-giuoco si mette a sedere a fare da mamma, e il giocatore
destinato a sorte dalla cônta s’inginocchia davanti a lui, e mette la
testa tra le sue gambe, in modo da non poter vedere nulla; tutti gli altri, a
breve distanza, si dispongono intorno a loro due, dicendo, mentre girano le
mani sul petto:
«Lavorate, lavoranti,
Chè le forche so’ ammannite
P’impiccavve a ttutti quanti
Lavorate, lavoranti!».
La mamma fa cenno a uno de’ compagni che le stanno
d’attorno di colpire sulle spalle quello che sta inginocchiato davanti a lei.
Ciò fatto, tutti si rimettono a girare le mani ripetendo:
«Lavorate, lavoranti, ecc.».
Il fanciullo colpito, si alza e dice alla mamma:
— Monsignore m’hanno ferito.
— Chi vv’ha ferito?
— La lancia.
— Annatel’a ppija in Francia.
— E si in Francia nun c’è?
— Trovàtelo indov’è.
— E si nun cé vô vieni’?
— Pijàtelo pe’ ’n’orecchia, e pportatelo qui.
A questo comando il fanciullo si dirige verso il compagno
che suppone lo abbia colpito; lo prende per un orecchio, lo conduce davanti
alla mamma, la quale gli dice:
— Chi è essa?
— Carne allessa (o callaléssa).
Se lo ha indovinato la mamma gli risponde:
— Buttàtela ggiu ch’è essa.
E se non ha indovinato:
— Rimétteteve ggiù; ché nun è essa.
Ed egli deve rimettersi in ginocchio e ricominciare daccapo.
Il Belli, senza dare il titolo di questo stesso giuoco, così
lo descrive:
«Fra gli altri sollazzi puerili, usa in Roma il seguente. Un
fanciullo si asside giudice. Un altro curvato e colla faccia in grembo a lui, è
percosso da qualcuno del resto della compagnia che si tiene ivi presso
schierata. Rizzatosi allora sulla persona, dice al giudice l’offeso: Monsignore,
ecc. ecc. Pijatelo pe’ ’n’orecchia, e pporatelo qui. Con questo mandato
va egli attorno, fissando in volto tutti i suoi compagni, se mai vi apparisce
alcun modo dal quale arguire la verità: mentre gli esplorati si agitano fra le
più curiose smorfie del mondo, per comporsi ad un aspetto d’indifferenza.
Finalmente ne sceglie uno, e lo conduce al giudice che gli domanda: Chi è
questo? Il querelante risponde: Carne allesso; e il giudice,
rivestito insieme della prerogativa di testimonio, riprende: Riportatelo via
che nun è esso; ovvero: Lassatelo qui che è esso, secondoché il
reclamo era bene o male applicato.
Nel primo caso, il povero deluso ritorna al suo posto in
seno al giudice per subirvi nuove percosse; nel secondo, vi subentra invece il
reo convinto; e si ripetono in quella piccola società colpe, accuse e
condanne». (Vedi la nota 6 del sonetto del 4 giugno 1835: Monsignore so’
stato ferito).
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