107. — La Mòra.
Si giuoca alla Mora soltanto dagli adulti, in due, in
quattro ed anche in più.
Per mezzo della conta si scelgono o si fanno i
compagni.
Questo giuoco tiene gli avversari all’erta e in Roma
specialmente li appassiona all’eccesso.
Esso consiste nel gettare subitamente davanti al compagno di
giuoco la propria destra, tenendo piegati uno o più diti, e nell’annunziare
allo stesso tempo il numero di quelli che (fra la destra dell’uno e dell’altro
giocatore) si lasciano distesi.
L’altra mano segna i punti guadagnati.
Bisogna che l’avversario colga l’intenzione con destrezza
per formulare lo stesso numero delle dita distese, come il suo camerata e con
la stessa prestezza. Questa forzata precipitazione, l’estrema attenzione che
esige per non isbagliare, la rapidità dei giri fanno sì che tutti e due
slancino le loro voci in un tono molto vibrato.
I volti degli interessati, come quelli degli spettatori, si
fanno estremamente ardenti e concitati, finchè le voci ansanti e rauche
pronunciano, con una secchezza gutturale, i numeri compendiati in grida
monosillabiche: Du’! Quatr’! Un’! Tre! Se’! Cinq’!…
Animati da questo trastullo, che spesse volte finisce con
litigi, tanto è facile e disputabile l’errore, i romani si atteggiano a pose ed
espressioni d’una bellezza feroce.
Ho voluto far menzione di questo giuoco, perchè si vuole che
i nostri antenati giocassero alla Mora assediando Siracusa, come
pretende Francis Wey9, da cui lo trascrivo.
Si parla anzi di un bassorilievo greco in cui il petulante
Ajace è vinto dal saggio Ulisse, alla presenza del vecchio Nestore.
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