Capitolo quarto
Anche oggi non posso pronunziare questo nome senza un
battito di core. Genoviefa aveva qualche anno piú di me, ed era mia sorella ed
era l’anima mia. Mi comandava con l’occhio dolce. E cantava e saltellava
sempre, ed era bianca e rossa, come dicono nel mio paese, Ci vogliono intendere
ch’era bellissima. Piccina la mandarono a Napoli a gran contentezza di zia
Marianna, che la vestiva come una bambola. Quando andava per le vie, con quelle
braccia nude e bianche, era una gioia, e tutti la guardavano. Mamma lo seppe, e
si spaventò che con tanti vezzi e ninnoli non le guastassero il cuore, e
rivolse la figliuola a casa. Ci fu un gran dire. Zia Marianna canzonava la
mamma di quelle sue maniere semplici paesane, e strepitava che la era una rozza
provinciale, e che non capiva la moda; e non voleva a nessun patto gliela
togliessero via. Mamma non aveva la zia in odore di santità, e trepidava a
lasciarle in mano la piccina; era una buona donna, di costumi austeri, e non
voleva orpelli né vanità. Vinse l’autorità materna, e riebbe la figliuola.
Quella breve dimora in Napoli non le fu utile. Venne tutta gentile, aggraziata
di modi e di parlare, spigliata e maliziosetta. Io la guardavo con gli occhi
rotondi e fissi, e non sapevo staccarmi da lei; e lei mi prendeva in grembo e
mi dava baci, e mi faceva girare come una pallottola. Anche mamma faceva bocca
da ridere a vederla ballare tanto carina. Quando toccò a me di andare in
Napoli, voleva menarla meco; mamma non volle, e io piansi assai. Nelle mie
lettere al babbo c’era sempre una riga per Genoviefa. Quando narravo tra molti
vanti le mie vittorie scolastiche, dicevo spesso: lo saprà Genoviefa e le farà
piacere. La sua immagine riempiva la fantasia, e si mescolava con la mia vita
quotidiana. Ero giunto verso la fine del quinto anno di studio. Avevo sempre
tra mano le Notti di Young, che mi facevano piangere, stupire, ammutire
secondo la materia, mi percotevano e mi commovevano. Quando Young lamentava la
morte della figlia, che si chiamava Virginia, io lacrimava con lui. Non so
come, pensando a Virginia, mi veniva innanzi Genoviefa: cosí bella me la
dipingevo e cosí cara cosa.
Un dí verso sera accompagnavo all’uscio un paesano che
andava via, e mi fermai un poco a chiacchierare con lui. “Sai, – dicevo; – tu
m’hai da fare tanti cari saluti a Genoviefa”. “Ca quella è morta”, disse lui
sbalordito e facendo gli occhi grandi. Io rimasi stupido. Era proprio cosí.
Genoviefa era morta, ch’era quasi un anno, e non mi fu detto nulla. Morta nel
fiore della età, con tante allegre idee in testa! Facevo allora versi e prose,
ma ero ancora piccino, e non avevo un cervello mio, e ricevevo le impressioni
da libri. Sazio di lacrime e di singulti, mi venne innanzi Virginia, e scrissi
una lettera al babbo sulla morte di Genoviefa, ch’era una epistola tutta
intarsiata di frasi e di parole a imprestito; Virginia c’entrava per tre
quarti. Il lavoro parve maraviglioso; il babbo andava leggendo l’epistola a
tutto il paese; zio mi abbracciò e mi chiamò penna d’oro; i compagni mi
facevano festa, e tra le lacrime mi usci il riso negli occhi. Fu quello un gran
trionfo per la mia vanità.
Queste prime apparizioni femminili, questi angeletti
che, appena libata la vita, tornano in cielo ridenti e festanti, abbondano
nelle immaginazioni umane. Genoviefa fu la mia prima donna, veduta di lontano
attraverso i libri, attraverso Virginia. Questa piccola e cara morta mi veniva
sempre in mente, quando mi si affacciava qualche nuova fanciulla poetica. Vidi
e capii Beatrice attraverso Genoviefa, e fino piú tardi la Graziella di
Lamartine.
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