Capitolo quinto
“E dopo, che farem noi?”
Questo motto di Cinea fu il tema d’una chiacchierata sul
nostro destino, quando stavamo per terminare gli studi letterari. Alla mia
fervida immaginazione Cinea pareva un canonico, e Pirro era il grand’uomo. Io
sognava quasi ogni giorno d’essere un imperatore. Quando mi vedevano a testa
bassa e a bocca muta, mi davano un pizzicotto, e mi dicevano: “Che pensi?”.
La famiglia s’era ingrandita. Morto era Francesco primo,
di cui non rammento nulla. Ferdinando II, il nuovo re, richiamò gli esuli.
Tornarono i miei compaesani, e videro zio Carlo, e molte furono le tenerezze.
Poi, zitto zitto presero la via del paese, fatti savii da quel duro esilio di
otto anni. Solo rimase in casa zio Pietro, che ci menò anche gli altri due suoi
figli, Aniello e Felicella, morta la madre. Cosí tutto questo ramo di famiglia
era in Napoli; rimaneva in paese il babbo con la sua famiglia, al quale si
aggiunse zio Giuseppe venuto di Roma. Aniello si teneva un po’ piú alto di noi,
perché era stato a Roma, e molto si vantava e diceva che lui piú piccino
sarebbe stato a guadagnar quattrini prima di noi. Giovanni era il diplomatico.
Un po’ bassotto, aveva l’aspetto dolce e grave, parlava piano, sobrio nel
gesto. Io era furia francese, come mi chiamava zio. Quando io ne sballava una
grossa,“E viva la furia francese!” diceva lui. Parlavo divorando le sillabe,
con una furia che mi faceva balbutire. Quando mi vedeva balbuziente, zio che
voleva fare di me un avvocato, mi ricordava gli esercizio di Demostene, e mi
diceva: “Sassolini in bocca!” E io fermava la corsa, ed ero cosí brutto con
quelle labbra bavose. Tutti mi canzonavano, tutti ridevano di me; ma io che mi
tenevo un grand’uomo, faceva una scrollatina di spalle. Quella mia indifferenza
innanzi alle beffe pareva umiltà, ed era superbia. La mia testa vagabonda,
nella quale danzava l’avvenire nelle sue forme piú luccicanti, pregiava piú
quella sconfinata ambizione di Pirro che quella savia temperanza di Cinea. “Che
farem noi?” “Compiremo gli studi, e poi eserciteremo la professione”, diceva
col tono piú naturale Giovannino. “E faremo quattrini”, mormorava Aniello.
“Bella conclusione! – rifletteva io, – e la gloria? Dove è la gloria?” Non
sapevo cosí per l’appunto cos’era la gloria; ma quella parola rispondeva a
tutti i miei sogni, a tutti i miei fantasmi.
Fu risoluto che il da fare per allora era fortificare
gli studi letterarii e cominciare gli studi di filosofia. Zio ci volle mandare
presso i Gesuiti, a fine di dare l’ultima mano al nostro greco e al nostro
latino. Andammo, e quella scena non mi è uscita piú di memoria. Entrammo in una
stanzetta polverosa, con scansie a muro piene di vecchi libri, con una luce
quasi fioca che ci veniva dall’andito. A sinistra verso il balcone era un
tavolino che chiamano scrivania, con certi ritieni di legno a dritta e a
sinistra, e in mezzo era una grossa calamariera di bronzo. Sul seggiolone
sedeva uno di quei padri, con volto pallido, con cera malinconica, con occhio
dolce, e aveva accanto in piedi un giovane padre, sottile e magro, che aveva
qualche malizia nell’occhio, e ci guardava per di sotto. Noi dalla parte
opposta stavamo in piedi, e avevamo un tremore non so se di freddo o di paura,
forse l’uno l’altro. Avevo gli occhi sbarrati verso i padri, ma scalza malizia,
anzi senza sguardo, con un’aria tra il presuntuoso e lo stupido. Giovannino
stava raccolto e placido. Il giovane frate ci faceva le interrogazioni; il
vecchio prendeva note come un cancelliere; talora si sogguardavano. A me quel
prendere nota dava sui nervi; e un certo risolino loro mi spiaceva. Ci fecero
leggere, tradurre; poi vollero una versione d’italiano in latino. Lí ci cascò
l’asino. Non fu possibile uscirne a bene con quel metodo meccanico dello zio.
Dovemmo fare parecchi errori grossi, e quelli si fermavano leggendo, con quel
tal piccolo riso, che voleva dire: “Come s’insegna male il latino!”. E ci
fecero capire che non che essere ammessi nelle scuole superiori, potevamo appena
entrare nelle elementari. Uscimmo con gli occhi a terra. La mia superbia era
fiaccata. Cosí non si parlò piú di Gesuiti, e me ne rimase questa impressione.
Zio ci menò presso l’abate Fazzini. Bel palazzo e bella casa.
L’abate ci ricevette nella stanza da scuola, e ci fece molte carezze e ci dié
de’ confetti. Era un bell’ometto, vestito di nero, con cravatta nera, tutto
bene spolverato. Parlava spedito, e accompagnava la parola col sorriso e col
gesto elegante. Non c’era ancora il laico, ma non c’era piú il prete.
La scuola dell’abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi
direbbesi un liceo. Vi s’insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso
durava tre anni, e si poteva anche fare in due. Quell’era l’età dell’oro del
libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera
aprendo una scuola. I seminarii erano scuole di latino e di filosofia. Le
scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell’insegnamento era
ancora scolastica. Rettorica e filosofia erano scritte in quel latino
convenzionale ch’era proprio degli scolastici. Le scienze vi erano trascurate,
e anche la lingua nazionale. Nondimeno un po’ di secolo decimottavo era pur
penetrato tra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a
braccetto il sensismo e lo scolasticismo.
Nelle scuole di Napoli c’era maggior progresso negli
studi. Il latino passava di moda; si scriveva di cose scolastiche in un
italiano scorretto, ma chiaro e facile. Gli autori erano quasi tutti abati,
come l’abate Genovesi, il padre Soave, l’abate Troisi. Allora era in molta voga
l’abate Fazzini. Questo prete elegante che aveva smesso sottana e collare, e
vestiva in abito e cravatta nera, era un sensista del secolo passato, ma
pretendeva conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Molto si
dimenava contro le idee innate e le armonie prestabilite, e conchiudeva spesso:
“Niente è nell’intelletto che non sia stato nei sensi”. Ma insieme si
affaticava molto a dimostrare l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e la
rivelazione. Come si conciliava tutto questo, non so; ma il suo parlare era
brillante e persuasivo e ci bevevamo tutto. Io assisteva a quelle lezioni con
infinito gusto, e talora non dormiva contando le ore, impaziente di trovarmi in
quella scuola. La stanza era molto piú lunga che larga, e ci entravano circa
quattrocento giovani. Di prospetto era una tribuna bassa, dalla quale si vedeva
a mezzo il vivace ometto. Io stava in prima fila e non perdeva una sillaba. Poi
a casa prendeva il testo, ch’era la Logica e la Metafisica dell’abate Troisi; e
non mi fermavo lí alla lezione; ma correvo correvo, divorato dalla curiosità di
sapere quello che veniva appresso. In breve, la mia testa fu piena di
argomenti, di teoremi, di problemi, di scolii e di corollarii, di sillogismi,
entimemi, e dilemmi; e divenni un formidabile e seccantissimo disputatore. Non
parlavo di altro che di Dio e di anima e di religione naturale e rivelata libri
filosofici dello zio erano scolastici, come Storchenau, Corsini; c’era anche
una metafisica latina di Genovesi, c’era un San Tommaso, un Sant'Agostino,
libri tarlati e con la muffa. Di latino non sapevo tanto ch’io potessi leggere
senza fatica; perciò tutto quel latino mi seccava; e mi sentivo pur nelle ossa
non so che smania di nuovo e di moderno.
Corsi alla biblioteca e mi ci seppellii. Passavano
dinanzi a me come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet,
Lamettrie. Prima leggevo a perdita di fiato; poi visto che ne cavavo poco, mi
misi a copiare, a compendiare, a postillare. Mi ricordo ancora quella statua di
Bonnet, che a poco a poco per mezzo dei sensi acquistava tutte le conoscenze.
Quel Bonnet me lo trascrissi quasi per intero. Se un uomo intelligente mi
avesse guidato in quei lavori! Ma ero io solo con la mia foga e con la mia
superbia, e facevo poco buon frutto e fatica molta. A me però sembrava di
venire un gigante in mezzo ai miei compagni, che aprivano gli occhi a sentirmi
come un oracolo affastellare tante cose nuove. Il professore diceva che il
sensismo era una cosa buona sino a Condiliac, ma non bisognava andare sino a
Lamettrie e ad Elvezio. Ragione per cui ci andavo io con l’amara voluttà della
cosa proibita. Queste letture non mi guastavano le idee, ch’erano sempre quelle
del maestro, e guardavo d’alto in basso quegli autori, e dicevo con sicumera
che Elvezio era un sofista e Lamettrie un chiacchierone. Voltaire, Diderot,
Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli. Il
professore ci pose poi in mano il Burlamacchi, e piú tardi l’Ahrens per il
diritto naturale, inculcandoci anche lo studio della Diceosina di
Genovesi. Qui c’era la famosa questione delle forme di governo. Mi ricordo con
che abilità se ne seppe cavare l’abate. Conchiuse ottima essere la forma mista;
ma modestamente diceva essere questa l’opinione di Montesquieu, non la sua.
Di conserva con la metafisica andava la fisica. Era la Fisica
sperimentale del Poli, un altro abate, credo, scritta nel solito italiano
corrente. A me pareva di entrare come in una nuova stella o in un nuovo mondo,
quando cominciava uno di questi studi. Come la metafisica, cosí la fisica mi
facea girare il capo, mi tirava su come in un mondo superiore pieno di luce. Il
professore aveva a sue spese fatto un magnifico gabinetto, che poi fu
acquistato dall’Università. Aveva l’esposizione brillante. Mi par di vederlo
tra quelle macchine animarsi, gestire, colorire; aria, luce, elettricità; come
si esaltava la mia immaginazione! Quella scintilla elettrica me la sentiva
correre per le ossa. Quell’uccellino che perdeva il fiato nella campana
pneumatica, mi toccava il core. Mi pareva essere in Cielo vagante tra quei
primi elementi e assistere alla creazione. Il professore si studiava di tirarci
allo studio di ciascun particolare e faceva esperienze delicate; ma io era
miope, e gustavo poco quel che poco vedevo, e mi teneva nel largo, aiutandomi
con l’immaginazione.
Dove proprio non fu possibile andare avanti, fu nelle
matematiche.
L’aritmetica ragionata non mi voleva entrare in capo, e
a gran fatica giunsi fino alla moltiplicazione, non seppi mai fare una
divisione; non dico nulla dei rotti, delle frazioni e dei problemi. L’abate ci
faceva le operazioni sulla lavagna; io ripeteva bene, perché aveva memoria, ma
non ne capiva nulla. Il medesimo mi avvenne con la geometria piana e solida.
Facevo le figure bene; ma quando cominciavo con l’angolo a b c e la
curva e la retta f, e i triangoli e i cateti, mi pareva entrare
come in una torre di Babele, e piú andavo innanzi e piú spropositavo, e quelle
lettere mi ballavano innanzi e si mescolavano, e non c’era verso di cavarne un
sugo, sicché correva subito al finale: Quod era demonstrandum. Per
nascondere al maestro la mia confusione, mi mangiavo mezza la dimostrazione,
ingoiando sillabe e correndo a precipizio. Il maestro ci badava poco, distratto
e spesso seccato, e ci accomiatava con il suo solito intercalare: “Appresso!”
Questa mia inattitudine alle matematiche non so s’era
colpa mia o del maestro; certo è che di quegli studi non mi è rimasto nulla.
Ero avvezzo a studiare con l’immaginazione, e quei numeri e quelle linee cosí
in astratto non mi capivano in mente. Non era un po’ colpa del metodo? E poi il
maestro aveva troppa fretta, e non faceva quasi altro che ripetere sulla
lavagna il libro di testo. Queste lacune nel mio spirito erano dissimulate
dalla potente memoria, e perché ripetevo tutto, pareva anche a me di sapere
tutto. Portavo la testa alta tra i compagni, e una voce segreta mi diceva: “tu
vali piú di loro”. La lezione avuta dal Gesuita non mi aveva corretto, perché
nel latino non la pretendevo a gran cosa. Ma quanto a letteratura e a
filosofia, ci tenevo.
Volgevano verso la fine gli studi filosofici. Era il dí
onomastico dell’abate. Per celebrare la sua festa volle dare una serata, una
specie di accademia con versi e prose, in fine complimenti, gelati e
confetture. Giovannino e io ci preparammo. Avevamo tra mano calde, calde certe
poesie del Capasso in dialetto napoletano. Giovannino vi raffazzonò un sonetto,
un luogo comune, girato assai bene in quattordici versi, con frasi goffe tolte
a imprestito dal poeta napoletano. A me parve questa cosa troppo facile e
troppo andante, e mi si volgeva nell’animo non so che Iliade, qualcosa di
grosso. Sudai al gran lavoro una quindicina di giorni. Di qua, di là mi
venivano immagini e frasi; non so come, mi brillavano accanto a un’immagine di
Omero una frase di Virgilio e un verso sciolto del Trissino, che leggevo allora
allora. Ne nacque una putrida in versi sciolti, un volume di carta
scritta, da far paura. Andammo. Io era alto della persona, magro e svelto,
tutto pulitino, e non capivo in me con quello scartafaccio sotto al braccio. La
sala era piena. Molte signore con le bambine, numerosa gioventú, vecchi papà
bene azzimati. L’uscio di faccia era aperto, e ne veniva un grato odore di
confetture. L’abatino in guanti faceva assai bene gli onori di casa, di su di
giú, sdrucciolava fra tutti i crocchi, dispensando sorrisi e strette di mano e
gentili motti. C’era quel mormorio, che suol venire da una mescolanza confusa
di voci. Ed ecco tutto a un tratto si udí un: “zitto!”, e tutti gli occhi si
volsero verso la tribuna. Chi è, chi non è? Ero proprio io col mio personcino e
con la mia superbia. Stavo lí dritto squadernando il sacro volume e
precipitando versi sopra versi correndo senza fiato. C’era una certa curiosità,
e dapprima si udiva con pazienza. Poi a ogni voltata della carta si cominciò a
guardare con raccapriccio a quello che rimaneva. E volto e volto, e pareva che
fossi sempre da capo. Quella gente era venuta non a sentir versi, ma a
conversare e a manicare, e non osavano pestar dei piedi, era gente educata, ma
si movevano in qua e in là, come chi non trova posa. Ippolito Certain, quel tal
maestro di disegno che abitava con noi, stava presso a me e notava tutto, con
lo sguardo verso l’uditorio; io con gli occhi sulla carta continuava tronfio e
precipitoso, come un torrente, rotte le dighe. Ippolito mi mise la mano alla
bocca e disse: “Ferma che è tardi”, e la gente voleva andare. “Bravo bravo” si
udí attorno; e io tirato pel braccio da Ippolito scesi col mio scartafaccio
sotto il naso. Tutti si levarono in piedi, come liberi da un peso, quando:
“Zitto!” si udí, e si vide alla tribuna un bassotto, che gridò: “Sonetto in
lingua napoletana”. La brevità e la novità della poesia fece seder tutti.
Giovannino, ch’era lui quel desso, recitava adagio e con grazia quelle frasi
goffe, tutte da ridere, e terminò il sonetto tra una salva di applausi. La
gente si precipitò verso il fortunato sonettista; e le signore lo baciavano; i
giovani si congratulavano; i papà gli accarezzavano il mento, lui modesto e
contento in tanta gloria. E l’abate sbirciando vide me tutto solo dall’altro
lato, e venne e mi disse. “Hai dovuto faticar molto neh!, povero giovanotto”.
“Quindici giorni”, diss’io, alzando gli occhi stizzito. E l’abate mi fece una
carezza, come per consolarmi.
Quando fummo di ritorno a casa, zia Marianna ci
aspettava, e volle saper da me come l’era andato. Io aveva come uno strale nel
core, e non ebbi la forza di confessare la mia sconfitta, e inorpellai un po’
le cose “Ippolito mi disse ch’era tardi, e io lasciai lí, e la gente mi
applaudí, gridando: Bravo, bravo!” “Non è vero, – saltò su Giovannino; – gli
applausi furono fatti a me, non a te”. “Anche a me”, diss’io. E sí e no, gli
occhi ci si accendevano, e zia Marianna rideva.
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