Capitolo sesto
A quel tempo avevo già i miei sedici anni. Compiuti
erano gli studi letterarii e filosofici. Avvezzo a una vita interiore, avevo
pochissimo gusto per i fatti materiali, e badavo piú alle relazioni tra le cose
che alla conoscenza delle cose. La scuola ci aveva non piccola parte, perché
era scuola di forme e non di cose, e si attendeva piú ad imparare le parole e
le argomentazioni, che le cose a cui si riferivano. Oltre a ciò, ero miope, uso
piú a guardare dentro a me che fuori. Quando mi si avvicinava una persona,
restavo con gli occhi aperti e quasi incantato, tutto pieno delle cose che si
dicevano, e non sapevo ridire alcuna particolarità dei suoi tratti o del suo
vestire. Parlavo spesso dei mio amore alla natura, ai campi, ai fiori, ai
ruscelli; ma era una natura che avevo imparata nei poeti. In verità, non sapevo
scerre fior da fiore, e non distinguere albero da albero. Quei mormorii
infiniti della natura che sono come la musica o come le lacrime delle cose, non
giungevano alla mia anima. Pure l’età mi tirava al di fuori, e anche l’esempio
dei compagni. Giovannino mi parlava già dei suoi amori; tutti mi facevano le
loro confidenze; guardavo stupido, come chi non ci capisca nulla, e di nuovo a
leggere. Avevo una febbre di lettura che mi divorava, e stavo le intere
giornate con un libro avanti in un angolo di casa chiuso da un paravento e
illuminato fiocamente da una finestra che metteva nel cortile. Poi venne il
bisogno di compendiare e di postillare. Talora mi sentivo dolere il magro
braccio dal troppo scrivere; mi sentivo gli occhi secchi e abbacinati; uscivo
di là come uno scheletro, con un ronzio nell’orecchio, con la testa piena e
confusa. In mezzo ai compagni non mi sentivo nessuna voglia di sciorinare le
mie letture; già pochi leggevano, pochi erano atti a capirmi, soprattutto
allora che poco mi capivo io stesso.
Nondimeno quel rigoglio di gioventú che mi era attorno
mi rapiva seco, volente e nolente, m’infondeva sangue e spirito. La sera
s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della
Carità. Una volta s’andò a Porta di Massa in un certo covo puzzolente, dov’era
buon vino e dove si bevve assai. E mi ricordo che mi accompagnarono a casa che
menavo pugni e predicavo, andando a poggia e a orza come una nave in tempesta.
Ma queste cattive abitudini erano rintuzzate da quella pianezza di vita
intellettuale, che ci tirava a cose meno ignobili. Ci demmo agli esercizi cavallereschi.
Studiammo scherma sotto il Parisi. Imparammo [a] ballare. Cominciammo pure lo
studio del pianoforte, e anche oggi in certi momenti con le dita io fo le
scale. Mi provai pure nel canto sotto un tal maestro Cinque, ma la voce non
usciva e lasciai stare. Ci gittammo allo studio del francese, tentando metterci
in capo le regole e i dialoghi di Goudar, che allora era in voga. Zio vedeva
tutto e lasciava fare. Erano certo nobili sforzi, ma senza indirizzo e senza
seguito, incoerenti e instabili. Si lasciava, si ripigliava, molto affannarsi e
poca conclusione. Non perciò io lasciava gli studi filosofici.
Il professore fece una brillante lezione sull’armonia
prestabilita di Leibnizio. E presto Leibnizio divenne il mio filosofo, come
Annibale era stato il mio capitano. Quella figura placida e meditativa, quel
carattere conciliativo, punto dommatico, quell’esposizione chiara, che niente
avea di pedantesco, m’innamorò. E come l’una cosa tira l’altra, Leibnizio mi fu
occasione a leggere Cartesio, Spinosa, Malebranche, Pascal, libri divorati
tutti e poco digeriti. Questo era il mio corredo di erudizione filosofica verso
la fine dell’anno scolastico, quando zio ci diceva: “Ora bisogna cercarvi un
maestro di legge”. Si batteva già alle porte della Università.
Venne il settembre e zio veggendomi cosí scheletrito,
volle farmi bere un po’ d’aria nativa. Andammo zio Pietro, Giovannino ed io.
Non sapevo di amar tanto il mio paese. Quando di sopra la via nuova vidi un
mucchio di case bianche, mi sentii ricercare le fibre, non so che nuovo mi
batteva il core. Poco piú in là vedemmo non so quali punti neri. “Sono galantuomini
che ci vengono incontro”, disse zio Pietro. Scesi di cavallo a precipizio,
e corsi, ed essi corsero a me, e mi trovai tra le braccia del babbo. La sua
faccia allegra e rubiconda raggiava, era tutto un riso, e gli pareva essere
cresciuto di altezza, tenendo per mano Ciccillo, e mi presentava tutto
glorioso. Nonna non c’era piú. La mamma mi venne incontro sui gradini di casa,
e mi tenea stretto al seno e piangeva e non sapeva staccarsi da me. La casa fu
piena di gente. Molte le strette di mano, molte le carezze e i baci. Ma io
m’era seccato, e cercava con gli occhi le compagne e i compagni, mi sentiva un
piccino di nove anni, come quando li lasciai. Costantino alto e robusto, mi
levò sulle braccia, dicendo: “Come sei fatto brutto!” Era un piccolo gigante
quel Costantino. I miei gusti non erano mutati. Abbracciai Michele, il
contadino, venuto su rude e saldo, come una torre. La distinzione delle classi
non mi è mai entrata in capo. Contadino, operaio, galantuomo, gentiluomo,
questo per me non aveva senso. Trattava tutti del pari, e usava il tu, il voi e
il lei non secondo le persone e il grado, ma come mi veniva, cosí a casaccio, e
spesso alla stessa persona dando del tu e del lei.
La sera ci fu gran pranzo, coi soliti strangolapreti,
e il polpettone, e la pizza rustica e altri piatti di rito. Il dí
appresso visitai tutti i luoghi dov’era passata la mia fanciullezza. Fui nel
sottano, e dove si ammazzava il porco, e dove era la mangiatoia pei cavalli, e
dove tra mucchi di legna o di grano solevo trovar le uova ancora calde e
portarle alla mamma. Quel sottano sonava ancora dei miei trastulli
fanciulleschi. Poi sbucai nell’orto, e salii il fico e mi empii di ciliege, e
feci alle bocce o alle palle, correndo, schiamazzando. Ero in piena aria, in
piena luce, mi sentivo rivivere. Dopo il pranzo feci la passeggiata per la via
nuova, tra compagni e compagne. Mariangiola mi teneva per mano, una bella
giovinotta un po’ piú grandicella di me, e io mi lasciavo fare, e mi veniva
l’affezione. Giungemmo alle Croci, che è un piccolo monte, storiato della
passione di Cristo, detto perciò anche il Calvario. Alle falde era il Cimitero,
una camera tutta biancheggiata, entro cui erano addossate le ossa degli
antenati. Mi sentii un freddo, e pensai a Genoviefa, e m’inginocchiai innanzi
all’inferriata, e piansi piansi, e dissi molti Pater e molte Ave.
Verso la sera, fatte molte visite, ci disse zio Pietro
che ci voleva far conoscere D. Domenico Cicirelli. E ci menò in piazza, e là
dove si apre una scalinata di grosse pietre che conduce alla strada di sopra,
c’imboccammo in un portoncino, e fummo subito sopra. Trovammo D. Domenico nella
prima stanza, già non erano che due stanze in tutto. Era quella stanza di un
bianco sporco, decorata di ragnatele e di spaccature qua e là. Non so che puzzo
mi saliva il naso. D. Domenico stava su di una seggiola di faccia all’uscio,
presso alla finestra, con una gran tavola avanti, sparsa di scartafacci e
d’inchiostro. Entrando noi, si levò e stese la mano a zio Pietro. Aveva in capo
un berretto da notte, era grasso e basso, con la faccia rossa a fondo nero, la
fronte piena di rughe, gli occhi cisposi, e le labbra grosse e bavose. Toccava
l’ottantina, non portava barba. Appresso a noi entrarono altre persone, si fece
folla. Baciammo la mano al grand’uomo di Morra Irpino; lo chiamavano il dottore
e il filosofo. Ai tempi suoi egli era stato in Napoli, e vi aveva avuta
un’educazione finita. D. Nicola del Buono, D. Peppe Manzi, D. Domenico
Cicirelli e zio Carlo erano i sopracciò innanzi ai morresi. D. Domenico era un
libro vivente. Cominciò a narrare la presa della Castiglia, la morte di Luigi
XVI, Marat, Danton, Robespierre, Carlotta Corday, e poi venne Napoleone. Molte
cose aveva lette, molte vedute, a molte aveva assistito. S’era lí a sentirlo, a
bocca aperta. Ed ecco due contadini portarono parecchi boccali di vino, e si
bevve in giro. A noi piccini toccò un bicchiere di rosolio. D. Domenico era
molto ricco, ma stretto nello spendere; e fu punito dalla prodigalità dei
nipoti, e oggi un suo nipote fa l’usciere e va stracciato, e i figli zappano la
terra.
Votati i boccali, e sgombrata la stanza, si rimase in
pochi. E D. Domenico mi prese per mano e mi domandò cosa avevo imparato. E
d’uno in altro discorso si venne alla metafisica. D. Domenico era secolo
decimottavo, vale a dire un materialista e un ateo, e ne domandò sogghignando
se c’era Dio. “Sicuro, – diss’io; – ci può essere dubbio?” “Gli, – rispose lui;
– come lo sai tu? Perché te l’ha detto il prete!” “Che prete? – diss’io, – ci
sono le prove”. “Oh! e sentiamo”. E io cominciai a infilzare le prove come
avemarie: prova di sant’Agostino; prova di sant’Anselmo; prova di Cartesio;
prova di Leibnizio; prova di Bossuet, e finii trionfalmente col celebre:
Dovunque il guardo io giro,
Immenso Iddio, ti vedo.
Parlavo con tanto ardore, con tanta facilità, che un
mormorio di approvazioni mi accompagnava, e in ultimo papà, non potendo piú
tenersi, mi prese in braccio, mi dié tanti baci. Solo D. Domenico stava serio,
e calava il mento in atto d’incredulo, e ribatteva qua e là, e io con maggior
veemenza controbatteva, incoraggiato dal manifesto favore dei presenti.
Finalmente D. Domenico me ne tirò una buona, che mi fece traballare sulle
gambe. “Dimmi, – disse; – è, vero che niente è nell’intelletto che non sia
stato nei sensi?” “Sicuro, – diss’io; – questa è la base della conoscenza”. “E
dunque, bello mio, con quale senso tu conosci Dio? Con la punta dei tuo naso?
Lo vedi? Lo tocchi? L’odori?” Io m’imbrogliai e balbettai. E lui m’incalzava,
sghignazzando, e zio Pietro gli faceva cenni che non mi stringesse troppo. Quei
cenni mi fecero un gran male, perché mi facevano intendere che di gran cose
c’erano a dire, e non si dicevano per non turbare la mia innocenza. Era la
prima volta che vedevo messi in dubbio principii da me succhiati col latte.
Quello sghignazzare di D. Domenico mi pareva il riso del demonio. “Ma dunque,
voi siete un ateo?, – diss’io con orrore. – Per voi non c’è Dio, non c’è anima,
non c’è rivelazione. Voi siete andato sino a Lamettrie”, conchiusi, ricordando
un motto dell’abate Fazzini. Egli fece una gran risata, che mi turbò piú. Prese
uni grossa pizzicata di tabacco, mutò discorso, mi lodò, mi accarezzò.
Me ne andai poco rabbonito.
Il dí appresso facemmo un’uscita in campagna. C’era
Costantino, e c’erano le tre sorelle Consolazio, e parecchi compagni. Andammo a
piedi, coi contadini che ci portavano il pranzo. Il luogo di convegno era detto
Selvapiano. La donna non mi faceva ancora impressione, fanciullescamente dava
qualche pizzicotto. Chiacchieravo molto, soprattutto di libri e di scuola, ciò
che annoiava molto le donne, alle quali piaceva piú Giovannino, meno novizio di
me. Costantino si pose sotto il braccio Vincenzina, la piú grande delle
sorelle, e la tirava e diceva barzellette, ridendo goffamente. Giovannino
faceva il sentimentale con Mariangiola, e le stava all’orecchio con aria di
gran mistero, e lei si faceva rossa. Or questo non potevo io tollerare.
Volevano per forza ch’io stessi con Gennarina; ma io la trovava insipida, e
voleva stare con Mariangiola, e la tirava a me e pretendeva che stesse a
sentire non so che sonetto. Costantino si pose in mezzo e mi sgridò. “Vattene
al diavolo col tuo sonetto, – disse. – Tu sei piú piccino, e devi stare con la
Gennarina. Mariangiola è di Giovannino”. Cosí io scontento e stizzito chinai il
capo, e mi avvelenarono la scampagnata.
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