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Francesco De Sanctis
La giovinezza

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  • Capitolo ottavo IL MARCHESE PUOTI
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Capitolo ottavo

IL MARCHESE PUOTI

Questo nome già caro e popolare in Napoli, mi giunse nuovo. La mia vita era tra casa e biblioteca e non conoscevo che pochissimi amici dello zio, come un Corona, un Capobianco, un Boscero. “Chi è il marchese Puoti?” diss’io a Costabile. “Insegna l’italiano”, disse lui. “E credi tu ch’io debba ancora imparare l’italiano?” “Sicuro; quell’italiano l’è un’altra cosa; vieni”... Cosí Giovannino e io ci trovammo scolari del marchese Puoti. Lo zio ci lasciò fare.

Era la prima volta ch’io entrava in un palazzo magnatizio, e che mi presentava ad un marchese. Era il palazzo Bagnara in piazza del Mercatello. Ci accompagnava il Costabile, che saliva svelto e ridente, facendoci il cicerone. Entrammo in una gran sala quadrata, tutta tappezzata di libri, con una lunga tavola in fondo, coverta di un tappeto verde screziato di macchie d’inchiostro. Lunghe file di sedie indicavano il gran numero di giovani, che la sera venivano ivi a prender lezione. Costabile parlava e rideva e godeva del nostro imbarazzo. quando si apri l’uscio a sinistra, e Gaetano con aria grave di cameriere ci annunziò. Entrammo. Il marchese stava seduto a una piccola tavola presso la finestra, poco discosto dal comò. In fondo era un letto molto semplice. Di fianco un’altra finestra inondava di luce la stanza. Come vedete, era una camera da letto e da studio insieme, molto modesta, nella quale il marchese s’era rannicchiato, lasciando ai fratelli tutto l’altro del vasto appartamento.

Queste osservazioni locali mi vengono ora in mente; ma in quel tempo i miei occhi erano attirati come per forza magnetica dalla presenza del marchese. M’ero immaginato per lo meno un re sul trono; ma vidi un semplice mortale in berretto e veste da camera, che si mise a scherzare col Costabile, domandando fra l’altro chi erano quei due marmocchi. “Sono nipoti di D. Carlo De Sanctis, e vengono alla vostra scuola”. Io me gli accostai, e gli presi la mano come per baciarla, ed egli la ritirò vivamente, dicendo: “Non si bacia la mano che al papa”. Io mi feci rosso. Egli rideva, e vedendomi cosí stecchito e allampanato, disse ch’io era de frigidis et maleficiatis: parole sue favorite, come vidi appresso. Ci fece tradurre un brano di Cornelio Nipote; un sorriso di piccola soddisfazione; poi ci consegnò al suo segretario, ch’era appunto il Costabile. Egli faceva pure il bibliotecario, come Gaetano faceva da cameriere e da barbiere. Costabile mi parve un po’ piú alto, quando lo vidi in tanta dimestichezza col marchese, e dissi sospirando: “Se foss’io cosí!”. Egli ci spiegò che la base della scuola era la buona e ordinata lettura di trecentisti e cinquecentisti; che si voleva leggere prima gli scrittori in istile piano, poi quelli di stile forte, e poi quelli di stile fiorito. Riserbò per ultimo la lettura di Dante e del Boccaccio. Solo dopo un par d’anni ci erano consentiti i cinquecentisti; i moderni poi vietati affatto, massime i poeti. In conclusione, ci pose nelle mani il Novellino e Giovanni Villani. “Badiamo, – disse: – voi dovete notare tutti i gentili parlari; io voglio vedere i vostri quaderni”. Corsi a casa, come avessi un tesoro, e cominciai a sfogliare. Mi parve quello un parlare di bambini, e chiamai Giovannino e molto risi con lui.

La sera, con viva curiosità, andammo. Rimanemmo come naufraghi in mezzo a tanta gente. Stavano innanzi, nelle prime file, gli Anziani di Santa Zita, come per ischerzo li chiamava il marchese. C’erano in quello stuolo di maggiorenti parecchi che piú tardi vidi nei primi gradini sociali, come il Pisanelli, il De Vincenzi, il Cappelli, il Torelli, il Dalbono, il Rodinò, il Gasparrini. Altri meno antichi erano gli Eletti, uno stuolo a parte dei piú valorosi. Noi stavamo agli ultimi posti, tra la moltitudine. Il marchese era tra i maggiorenti, che gli facevano corona, vivace, faceto, sempre fresco. Si correggeva un periodo di Cornelio Nipote voltato in italiano. Il marchese faceva un minuto esame delle parole, parte benedicendo, parte scomunicando. “Questa è parola poetica, questa è plebea, questa è volgare, questa è troppo usata, l’è un arcaismo, l’è un francesismo”. Accompagnava queste sentenze con lazzi, motti, esclamazioni e pugni sulla tavola. Io ne avevo la testa intronata. Poi si lesse un lavoro, e ciascuno de’ maggiorenti a dir la sua, tra il profondo silenzio della moltitudine. Finalmente si fece la lettura. Francesco Costabile avea bella presenza, bella voce; leggeva bene, interrotto dalle esclamazioni del marchese, il quale di rido faceva qualche osservazione, ma rivelava con impeto le sue impressioni, e le travasava nei nostri petti. Non voleva esser detto maestro, né che il suo studio si chiamasse scuola; né che le sue conversazioni si chiamassero lezioni. Quelle due o tre ore passarono per me velocemente; e mi tardava, giunto a casa, che tornasse l’ora del marchese Puoti.

Uso alle Notti di Young e a Jacopo Ortis e alle Notti Romane del Verri, quel dire semplice e sgrammaticato del Villani non mi entrava. Ma quando vidi una eletta schiera di giovani sobbarcarsi a quelle letture, e professare quelle dottrine del Puoti con entusiasmo di novellini, mi dovetti persuadere che Francesco Costabile ne sapeva piú di me, e ch’io era un ignorante, e doveva rifare i miei studi. Il desiderio di comparire, e di piacere al marchese e di attirare i suoi sguardi entrava in gran parte nella mia persuasione. E lasciai studi di filosofia e di legge e letture di commedie, di tragedie e di romanzi e di poesie, e mi gittai perdutamente tra gli scrittori dell’aureo trecento. Con la foga del novizio divoravo da un capo all’altro un libro intero, e non ristetti, finché non ebbi sfogliati un gran numero di quei volumi. Invano Costabile gridava, che si dovesse leggere con ordine e notare i piú bei modi di dire. Prima di darci un libro nuovo, voleva vedere il quaderno del libro letto. Io voleva ch’egli credesse alla mia parola; e quando si ostinava, improvvisava un notamento di frasi da un giorno all’altro. Talora mi faceva il tiranno, e io che poco credevo alla sua divinità, andavo lacrimoso dal marchese e me ne richiamavo con lui. Nella mia malizia cercavo qualche motto o parola o frase ch’era in grazia del marchese, ed egli andava in sollucchero, e mi diceva: “Bravo!”. C’era tra i giovani una gara a chi salisse piú in grazia del marchese; i piú diligenti andavano a lui anche il mattino; si chiacchierava, si leggeva, si copiava, si correggeva errori di stampa; io ci avevo acquistato l’occhio, e il marchese mi voleva presso di sé il mattino per la correzione dei Fatti di Enea, ristampati e annotati da lui.

Il regno di Costabile durò poco; si seccò dell’ufficio, e il marchese si seccò di lui, che andava ricalcitrando con moti d’impazienza. Successe l’abate Meledandri, un pugliese falso e astuto, che s’insinuava come serpente, lisciando e adulando, e s’imponeva con arroganza ai minori. I compagni l’odiavano di gran cuore; ma nessuno fiatava per tema del marchese che l’aveva caro per quel solo fare ipocrita di Madonna con gli occhi bassi.

Io non gli avevo invidia, perché mi pareva troppo alto; ma sentivo per lui una grande antipatia. Egli se n’era accorto, e aveva di me qualche gelosia, massime quando con le mie letture lo accoppava, tra le risa del marchese. Secondo il mio costume in un anno mi avevo i messo in corpo piú roba che non potessi digerire. Avevo i miei favoriti, Agnolo Pandolfini, Domenico Cavalca, Iacopo Passavanti, ch’erano per me gli Dei maggiori, circondati dalla turba delle minori divinità. Sapevo per lo senno a mente un’infinita quantità di modi e di frasi, che mi rimanevano impressi senza ch’io dovessi trascriverli; era divenuto loquace e presuntuoso, e la sera e la mattina faceva sempre nuove osservazioni, e il marchese mi rideva, e Meledandri si facea verde. Ben presto uscii dalla moltitudine, e andai tra gli Eletti. Il mio piacere non fu intero, perché Giovannino era rimasto indietro col naso lungo. Zio Pietro venne al marchese, sicché una quindicina di giorni dopo venne tra gli Eletti anche Giovannino. C’era molti giovani valorosi, come i fratelli Del Giudice, Gatti, Cusani, Ajello, Florio, Capozzi. Il marchese cominciò a domandare il mio avviso intorno ai lavori, e io parlando in pubblico, cominciai a moderare la mia foga, a battere sulle finali, a spiccar bene la voce, ad accentuare e intonare, secondo il senso, mi tolsi in gran parte quel vizioso leggere e parlare che mi faceva balbutire. Questo era un grande progresso.

Una sera il marchese volle si scrivesse una novella. Doveva essere la storia d’una donna sventurata. Io ci pensai molto. Trovai in un dizionario geografico tra i villaggi di Firenze indicato Signa. Non so perché, questo nome mi piacque, e posi il teatro del fatto. Dissi poi: “Che nome darò a questa donna?” E le diedi il nome di mia madre, e la chiamai Agnese L’orditura era molto semplice; ma tutto era insipido, e non c’era altro sapore che di frasi. Pure piacque infinitamente la mia riputazione fu assicurata, e fui annoverato tra gli scrittori esimi o eccellenti, come si diceva. Serbai quella novella tra le mie carte piú prelibate; per lungo tempo mi parve quello un capolavoro.

Presi a poco a poco lo stile del marchese, con un po’ di affettazione, come sogliono fare gl’imitatori. Quello stile consisteva in una certa scelta di parole solenni o nobili, non logore dall’uso, e non troppo antiquate, e in un certo periodare non troppo complicato o alla boccaccevole, ma pur sostenuto, solenne, copioso. I periodetti il marchese non poteva digerirli; e quello scrivere alla francese chiamava uno stile a singhiozzi. Non perciò andava sino al Boccaccio, ma teneva una cotal via di mezzo, che rendeva il suo periodare spedito e semplice. “Ma in che consiste questa via di mezzo?” domandavano. E il marchese alzava le spalle e diceva: “Con lo scrivere s’impara a scrivere; e poi ci vuole fin certo genio per imparare il secreto”. Quel secreto io l’aveva imparato. Scrivendo tutte le mattinate sotto la sua dettatura, mi erano rimasti impressi certi suoi modi favoriti, certi suoi giri di frasi, certe costruzioni convenzionali, e avevo imparato a girare il periodo secondo la sua maniera, sicché dicevano ch’io gli avevo rubato il secreto. Il marchese finí che non sapeva piú fare senza di me, e mi cercava con l’occhio e mi chiamava il suo collaboratore. Giovannino ed io divenimmo correttori di stampe. Io me ne tenevo, e mi stimavo infallibile, quando un il proto della stamperia m’indicò innanzi al marchese parecchi errori sfuggiti ai miei occhi pazienti, e m’insegnò la modestia.

Il direttore della stamperia era un tal Gabriele De Stefano, che si teneva da piú del marchese Puoti, e abusando della mia docilità mi faceva scrivere seco, dettando prefazioni e lettere. Un avevo scritto su d’una busta un indirizzo, preceduto dalle sacramentali A. S. E. che dovevano significare: a sua eccellenza. Egli trovò che quelle lettere erano troppo sopra, e mi fece un rabbuffo e disse: “Sapete voi cosa significano queste tre lettere? significano: asino senza educazione”. Io feci col petto indietro, come avessi ricevuto un colpo di pugnale, e non ci andai piú, e anche oggi quel motto me lo sento sonare nell’orecchio.

Mi strinsi sempre piú col marchese. Nelle sue annotazioni di lingua e di grammatica ai Fatti di Enea, soleva dire: “Cosa ne dice Francesco?” Io era divenuto una specie di autorità e il marchese mi consultava nelle cose della lingua e della grammatica, come diceva. M’era venuta la frenesia degli studi grammaticali. Avevo spesso tra mano il Corticelli, il Buonmattei, il Cinonio, il Salviati, il Bartoli, il Salvini, il Sanzio e non so quanti altri dei piú ignorati. M’ero gittato anche sui cinquecentisti, sempre avendo l’occhio alla lingua. Il Gelli, il Giambullari, il Firenzuola, il Caro, il Castiglione, mi deliziavano. Nessuno dei miei compagni aveva tanto letto. E poi, ciascuno aveva le sue faccende; a molti quella scuola era una parentesi. Per me la mia faccenda era quella; non pensavo ad altro; stavo le intere giornate correggendo bozze di stampa, sfogliando dizionari e grammatiche. E a poco a poco, senza ch’io me ne accorgessi o ci pensassi, mi trovai il segretario e il favorito del marchese Puoti. Quello a cui prima non poneva la mira, come a cosa troppo alta, parve allora a me e a tutti cosa naturalissima. Non ch’io surrogassi qualcunaltro; nessun lasciò il suo ufficio; l’abate Meledrandi stava sempre col suo piglio beffardo e insolente. Il nome era pur quello, ma sotto al nome non c’era piú la cosa. Il marchese perdeva la pazienza, e l’interrompeva spesso. Una sera ch’egli faceva la lettura, il marchese era di pessimo umore, e lo correggeva aspramente, ripigliando la parola letta e pronunziandola lui, accompagnando la correzione con un certo suo intercalare favorito, che moveva a riso tutti. L’abate sbuffava, e non trovava loco, e non potendo piú tenersi, uscí a dire: “Ma insomma, ora debbo alzare la voce, ora no, debbo abbassarla; non so come uno si debba regolare con voi”. Guardammo al marchese, e ci pareva che stesse per avventarglisi e pigliarlo pel collare; ma si contenne, e gli fece un’ammonizione senza intercalare, fredda e dura. Da quel Meledandri perdette autorità. Ritornò poi in Castellaneta, sua patria, e non ne seppi piú notizia.

Il marchese era tutto intento a compilare una grammatica a uso dei giovanetti, e si giovava dei miei studi e della mia erudizione. Mi presentò alla sua famiglia, e piú volte mi tenne a pranzo seco. Mi avevano posto per soprannome il grammatico. Io me ne teneva, e andava con la testa alta.

 

 




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