Capitolo nono
Intanto le cose di casa non andavano bene. Zio Carlo
invecchiava; la famiglia s’era accresciuta; i mezzi scarseggiavano. Un bel
giorno congedarono un maestro, e messero me a insegnare Storia Sacra. Di storie
ne avevo lette infinite, senza critica e bevendomi tutto quello ch’era
stampato. Avvenne che i miei scolari erano piú maliziosi di me, e quando io
parlava con molta gravità delle foglie di fico o del vitello d’oro, quei
birichini ridevano, e io m’incolleriva. La mente della famiglia era zio Pietro,
gli anni e le fatiche avevano indebolito lo zio che lo lasciava fare, e lui
aveva tirato a sé zia Marianna e regolava tutto. Era alto della persona, magro
e asciutto. Venne dallo zio educato in Napoli, e non gli erano mancati studi
letterarii e filosofici. Tornato dall’esilio, s’era messo a fare il medico, ma
era già troppo innanzi con gli anni, e la clientela era scarsa. Aveva una
cert’aria di civiltà, una certa sceltezza di maniere, che gl’imprimeva sul
volto pallido non so quale distinzione. Era uomo accortissimo, con un certo
saper fare. Tirava naturalmente pei figli, e tutto ciò che poteva sottrarre
alla mia famiglia, non gli dispiaceva. In quel tempo Aniello suo secondogenito
veniva già con noi alla scuola del Puoti; portava fresche da Roma le
impressioni, e aveva, con una bella descrizione della Villa Borghese, attirata
l’attenzione del marchese e dei compagni.
Giovannino e io eravamo nel termine degli studi legali.
Zio Pietro pensava già ad allogare Giovannino presso un avvocato, per fargli la
strada. Io poi nel suo pensiero doveva essere un aiuto dello zio per sorreggere
la scuola in quei suoi vecchi anni. Cosí cominciai maestro di Storia Sacra.
Egli ne aveva parlato anche col marchese, al quale
piaceva molto ch’io mi consacrassi alle lettere, e fin d’allora mi chiamava “il
professorino”. Io era l’occhio dritto dello zio non solo per i miei studi, ma
per la mia tranquilla condotta, e non ricordo mai di aver ricevuto da lui alcun
castigo. Naturalmente io era lo scudo della mia famiglia, e quando zio Pietro e
zia Marianna dicevano male del babbo o mettevano in canzonatura mio fratello
Paolino, zio li ammoniva con l’occhio, accennando alla mia presenza: il qual
sentimento di delicatezza mi fece impressione. Essi mi sogguardavano e
tacevano.
In questo mezzo era morto il professore di latino della
Università, e s’era aperto il concorso. Zio Pietro stimolò molto lo zio perché
concorresse anche lui. Zio vi consentí a malincuore, e passò ore angosciose tra
preparazione, timori e speranze. Venne il dí. Si fecero gli scritti; poi si
dovea tenere la lezione pubblica. Vi andò molta scolaresca, e vi andò zio
Pietro, e vi andò il marchese e molti chiari uomini. A me batte il cuore, e non
osai andare; pure i piedi mi tiravano là. Giunto alla chiesa del Gesú Nuovo,
non proseguii, ed entrai e m’inginocchiai avanti all’inferriata dell’altare
maggiore. Non so come, mi era venuta quell’idea. Rimasi lí per un pezzo col capo
appoggiato ai ferri. Era già lungo tempo ch’io non usava a chiesa. La prima
domenica che non sentii messa, quel pensiero mi stava come un chiodo in capo.
Poi venne l’abitudine e l’indifferenza. Il governo che voleva per forza la fede
della congregazione, ci rendeva odiosa ogni specie di culto. Pareva un atto
servile. C’erano poi i malcreati che motteggiavano i giovani timorati di Dio.
Io avevo lasciato da parecchio ogni studio di filosofia,
e mi stavano ancora in mente i principii religiosi, rimasti però in aria, senza
alcuna base nella vita. Seguii l’andazzo. Non sentivo piú messa, non mi
confessavo piú. Tutto questo, stando lí inginocchio, mi si affacciava come un
rimprovero. Pensai che forse Dio per punire me non sosterrebbe lo zio
nell’ardua prova. E mi posi fervidamente a pregare. Non erano avemarie e
paternostri, come facevo piccino; era un’onda che mi gonfiava il cuore e si
versava fuori. Stetti cosí un pezzo tra lacrime e preghiere. Uscí una messa
ch’io sentii. Ma nel bel mezzo mi distrassi, e non seguii piú il prete, e
seguii le ombre del mio cervello. Pensai a don Domenico Cicirelli e a quel tal
Fortunato, e mi pareva gente sofistica e dappoco dirimpetto alla solenne e
parlante grandezza di quella chiesa. Il mio sguardo si perdeva tra quelle volte,
e mi pareva che tutte quelle facce di santi e di beati dipinti prendessero
sangue e carne e guardassero me. Mi sovvenni del Figliuol prodigo, e
m’intenerii, e non sapevo comprendere come avessi potuto tollerare gli sconci
parlari dei cattivi compagni, e ripigliando l’antica usanza mi feci un gran
segno di croce come per cacciarli via da me. Quel prete che diceva messa mi
spirava divozione; guardavo con occhio amico quelle sottane lunghe e nere con
quei berretti quadrati, e fino quel padre gesuita che disapprovò il mio latino,
mi venne alla memoria e mi parve amabile nella sua severità. Finalmente, stanco
di quel fantasticare, andai via, pensando che il mio nome era Francesco
Saverio, quel Santo che fu Apostolo dell’Indie e decoro della compagnia di
Gesú.
Andavo per via piú tranquillo, riconciliato con me
stesso, pure non ben sicuro di aver fatto la mia pace con Dio, e mi promettevo
di tornare colà a sentir messa il dí appresso. Continuando il cammino col vago
disegno di andare fino all’Università, giunto alla svolta di San Sebastiano, mi
voltai anch’io, e distratto e pensoso mi trovai in casa del marchese Puoti.
Seppi ch’era tornato, e mi venne un batticuore, e salivo lentamente le scale
come per pigliar tempo, non osando sapere da lui quello che pur tanto desideravo
sapere; ma il timore era piú forte del desiderio. Giunsi ch’era già in camera
tra un cerchio di giovani e diceva le sue impressioni. Io rimasi cosí
sull’uscio, mezzo nascosto, e il marchese continuava con vivacità di parola e
di gesto, con grandi atti pazienti di Gaetano che gli faceva la barba. “Il
canonico Lucignani, – diceva lui, – ha fatto solo qualche cosa che valga; nella
sua lezione c’era un passaggio felicissimo, e una bella interpretazione di un
luogo di Quintiliano: gli altri hanno armeggiato”. Quell’armeggiato mi
sonò nell’orecchio come la sentenza oscura della Sibilla. “Come ha detto?” mi
voltai con una gomitata a un compagno, e lui mi ripete: “Gli altri hanno armeggiato”.
Corsi in sala, dove si teneva la scuola, e presi in furia e in fretta il
dizionario. Quell’armeggiare mi parevi dovesse significare combattere,
battagliare, disputare la vittoria; mi rimaneva un filo di speranza per lo zio.
La mia furia era tale che non mi riuscí subito trovare la pagina, e pestavo dei
piedi. Finalmente mi venne innanzi quella maledetta pagina e quel maledetto armeggiare.
Lessi che significava: fare opera vana, e divenni pallidissimo e caddi
col capo sulla mano. Uscii a capo basso, come can frustato, senza pur vedere il
marchese. Giunsi a casa, e lo zio era abbattutissimo e stanchissimo, e sentiva
i conforti di D. Nicola del Buono che leggeva il suo scritto, pur facendo
qualche appunto. Zio Pietro mormorava che D. Nicola era invidioso, e gli
raggiava il volto, credendo alla vittoria di zio Carlo, e si voltò a me,
dicendo, “Cosa ne dici tu, Ciccillo? Ah! tu non c’eri”. Io non fiatai; ero
inconsolabile, e chinai il capo, e mi ritirai in quell’angolo di casa,
testimonio delle mie veglie e dei miei studi. Era sul tavolo un libro aperto,
le Vite de’ Santi Padri di Domenico Cavalca. Io presi il libro con
dispetto e lo buttai giú, dicendo: “Al diavolo questi Santi Padri. Ho invocato
oggi tutti i Santi dei paradiso. A che siete buoni voi altri Santi?” Poi mi
pentii di quell’atto di superbia, e mi sovvenni che dovevo sentir messa il dí
appresso, e raumiliato e stanco mi buttai sul letto e ingombra la mente di
fantasmi m’addormentai.
Venne il dimane. Mi avviai e mi trovai innanzi al Gesú,
ma indugiavo e non volevo entrare, e un pensiero mi diceva: “Sí, entra”. Tra entrare
e non entrare continuavo il cammino, e mi trovai dal marchese Puoti, e a chiesa
non ci tornai piú.
Mio zio era rimasto percosso, s’era fatto piú curvo, e
rompeva spesso in atti d’impazienza. Qualche volta vidi che lacrimava. Mi
sembrò che fosse divenuto un po’ freddo con me, e non mi volesse piú quel bene.
Una sera, mentre io gli facevo le moine, si levò e mi percosse, e dovettero
trarmi dalle sue mani. Cosa era nato? Anche oggi non lo so. Un’altra volta
s’andava a fare una scampagnata sopra i Cacciottoli. Eravamo giunti al largo
della Pigna Secca, quando dissero a zio che io portava una calzetta rotta, e
zio s’infuriò e mi ordinò di ritirarmi a casa. Il mattino, secondo il solito,
andai allo zio e dissi: “Zio, sono le sei e mezzo”. Tornato piú tardi lo
chiamai un’altra volta, egli si levò. Ero entrato in cucina allora allora,
quando mi giunse una voce: “Ciccillo! Ciccillo!” Tesi l’orecchio, e la voce
ripeté “Ciccillo!” Corsi e vidi che lo zio era per terra, e mi chinai per
alzarlo, ed egli fece un gesto d’impazienza, come volesse dire: “Cosa puoi fare
tu?” Corsi da zio Pietro, gridando: “Zio è caduto”. Fummo tutti attorno a lui,
e a gran fatica fu potuto rimettere a letto. Aveva perduto tutto il lato
sinistro. Ecco subito salassi e sanguisughe e digiuni e cuffia di ghiaccio.
Riebbe la parola, ci guardò, ci ravvisò. Noti lasciò piú il letto.
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