Capitolo decimo
Fu quello un momento solenne nella mia vita. Non avevo
mai pensato al dimane; tiravo innanzi alla spensierata e allegramente, come lo
zio non dovesse mai morire, e le cose dovessero stare sempre cosí. Questo
medesimo era in capo ai miei cugini. In casa era un allegria, una gara di studi
e di esercizî geniali. Zio ci seguiva col suo occhio pieno d’affetto, e voleva,
quando si levava il mattino, sentire da noi ripetizioni, conferenze, tutto ciò
che imparavamo nei diversi rami dello scibile.
Stavo allora leggendo il Galateo ed il Cortigiano,
e vago sempre di fatti guerreschi, la sera leggevo come un romanzo le Guerre
di Fiandra del Bentivoglio e le Guerre civili del Davila. Quello
studio delle frasi m’era venuto un po’ a noia; le cose m’interessavano molto, e
avevo la stessa ammirazione verso scrittori differentissimi d’ingegno e di
stile, come Guicciardini, Davila, Cellini. Le Storie del Machiavelli mi
seccavano, salvo qualche brano rettorico. Il mio gusto non era ancora formato.
Cercavo negli scrittori il sentimento, l’immaginazione, l’acutezza e la novità
del pensiero, e non m’entrava ancora quell’aurea semplicità che vantava il
Puoti. Sentivo che c’era una certa contraddizione tra quel secco periodare da
cinquecentista e quel secco fraseggiare da trecentista. Venutomi a noia lo
studio delle parole, mi prendea vaghezza di studiare le cose. Sotto Costantino
Dimidri avea cominciato lo studio dell’anatomia. La miopia m’impediva di veder
bene il cadavere tra quella folla, e supplivo con le figure e con lo studio
camerale. Quanti libri di zoologia, di chimica, di geologia, di medicina mi
venivano in mano, tanti ne divoravo. Le mie letture erano come di romanzi,
senza serietà di fine e di studio, tirato da piacere e da curiosità. Storia
naturale, fisiologia, patologia mi attiravano molto; vedevo aprirsi allo
sguardo mondi ignoti e inesplorati. Zio Pietro ci parlava spesso del suo
maestro Nicola d’Andria e di Cotugno e di Bufalini e di stimolo e di
controstimolo. Ci parlava di tempi nei quali si curava, con buoni arrosti e con
buon vino, sul fondamento che ciascuna malattia provenisse da debolezza. Poi
combatteva questa dottrina, e parlava di lenitivi e di emollienti e rilassanti,
di purghe e di salassi, accompagnati con l’inevitabile digiuno, visto che
ciascuna malattia proviene da infiammazione. Sentivo zio Pietro a bocca aperta;
quelle metafisicherie mi facevano gola, e aguzzavano in me l’appetito di nuove
letture. Qualche ora del giorno si passava a studiar greco col Margaris, e
latino col Rodinò. A casa trovavano puntualmente il maestro Cinque, un bassotto
sbarbato e guantato; ed ecco sonare, cantare, ballare. Oh! l’era una bella
vita. Io c’ero tutto dentro, fantasticando, meditando, leggendo, quando il caso
dello zio Carlo mi chiamò alla triste realtà. Tutti gli studi furono
interrotti. Ogni allegria finí. Quegli squarci di cielo azzurro che ridevano
alla mia anima si copersero di nuvole. Il presente era triste, l’avvenire
divenne oscuro.
Zio Pietro dispose che Giovannino andasse a fare la sua
pratica presso il Padovano, un riputato avvocato commerciale. E io rimasi lí in
casa, con tutto il peso della scuola sulle mie spalle curve. La sera andavo
sempre alla scuola del Puoti; ma tutta la giornata era spesa a spiegare
grammatiche e rettoriche e autori latini e greci, a dettar temi, a correggere
errori. Ero pazientissimo, rotto alla fatica; pure quelle cinque classi
prostravano in me ogni virtú. Finivo mezzo cretino, inetto a capire un libro, e
non sapevo come zio avesse potuto durare a quella pena. Quei cari studi dei
miei primi anni mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perché non
erano piú d’accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri mi
facevano pietà. Quelle ariette del Metastasio, quelle ottave del Tasso, quei
sonetti, quelle sestine, quelle epigrafi, quelle ceneri coronate, quegli
Adami rabuffati, quei maestri di fulmini e quegli Eugenii che
fanno paura alla morte, non entravano piú nel mio spirito. Quel dover
torturare una frase di Livio o di Tacito che facevano gli scolari per cavarne
un senso plausibile, era una tortura al mio spirito, e talora si movevano le
mani come per dare uno scappellotto. Quegli scrittori vivi mi parevano divenire
pezzi di anatomia, entro i quali quei giovanotti cercavano faticosamente la
costruzione. Quel contare sulle dita, quel fare la cantilena, quello stupido
recitare a memoria, quel darsi i pizzicotti mentr’io mi sfiatava, m’era
intollerabile, mi dava sui nervi.
Alcun conforto prendeva, quando veniva la volta delle
classi superiori. Erano miei coetanei, e ci capivamo meglio. Posi loro in mano
le lettere di Annibal Caro. Era una novità ardita che piacque. La base dello studio
era il latino. Per l’italiano, oltre la lettura del Tasso, non c’era altro.
Prima si destò la curiosità; poi si cominciò a spigolare frasi; ma questo gioco
presto venne a noia a me ed a loro. Cominciai a fare osservazioni sopra i sensi
delle parole, sul nesso logico delle idee, sulla espressione del sentimento,
sulle intenzioni e sulle malizie dello scrittore. Erano cose nuove per loro e
per me, che faceva con que’ commenti improvvisati opera sottile e ingegnosa. Si
andò tanto innanzi che ne uscí un trattatello sul genere epistolare, di cui
fece una bella copia un tal Francesco Durelli. Bassa persona, faccia terrea,
occhi piccoli senza espressione, fisionomia senza colore, mi pare ancora di
vederlo questo ragazzotto, che m’era inferiore d’età. Si era stretto a me; mi
veniva a trovare spesso; mi lusingava con lodi esagerate, che per la prima
volta accarezzavano il mio orecchio. Io, inesperto della vita e degli uomini,
in un momento d’abbandono gli dissi le mie angustie: “Che sarà di me?” E lui a
spacciar protezioni, a vantar nobili parentadi e grandi amicizie; e io apriva
gli occhi e beveva tutto. Mi parlò di un tale Schmücher segretario della Regina
Madre e suo grande amico, e “Gli voglio mostrare questo tuo trattatello; vedrà
che tu sei forte nel genere epistolare e ti prenderà a’ suoi servigi; ma tu
devi raggiustare la tua calligrafia”. Io mi feci venire un maestro, e cominciai
a tirare aste in su e in giú, a studiare il maiuscolo e il corsivo, il francese
e l’inglese.
La scuola non mi rendeva nulla; ché zio Pietro intascava
tutto. Spesso mi mancava il necessario per comparire innanzi alla gente,
ancorché fossi trascuratissimo nel vestire. Mi si porse occasione di una
lezione privata in casa del signor Fernandez, spedizioniere di una casa di
commercio. Mi davano trenta carlini al mese, che mi parve un tesoro. Andavo lí
in gran segreto, per tema che quei trenta carlini non cadessero nelle tasche di
zio Pietro. Avevo cosí in pochi mesi accumulate alcune piastre, che mi tenevo
carissime e gelosissime. Era il mio secreto, e non ne dissi verbo ad alcuno,
neppure a Giovannino. Ma quello scaltro ragazzotto fiutò la cosa e mi tirò il
secreto di bocca, e fissava certi occhietti di avvoltoio sulle mie povere
piastre. Un dí mi raccontò che aveva parlato con lo Schmücher, e che la cosa
era bene avviata, e che fra poco avrei avuto l’impiego. Mi si fece tanto di
cuore. Egli mi fe’ intendere con una vocina insinuante che gli occorreva un po’
di danaro, e teneva gli occhi bassi, cosí tra lo scemo e lo sbadato. Io capii
in aria, e volli risparmiargli la vergogna del domandare e me gli offrii
prontissimo. Egli adunghiò quelle amate piastre con un sorrisetto, promettendo
la restituzione fra pochi dí, e facendomi balenare sempre innanzi l’impiego.
Tutto a un tratto scomparve. Che è? che non è? Nessuno l’ha visto; nessuno sa
la sua casa. Ecco un dí venire un suo zio, credo un commissario di guerra, che
voleva sapere degli studi e della condotta del suo caro Francesco. “Ma se non
viene piú!” diss’io. E d’una in altra parola gli sballai tutto. La mia
semplicità lo fece prima ridere; poi si adirò contro il nipote, e ch’era un
bugiardo, un intrigante, un discolo, e mi promise le piastre, e che avrebbe
fatto, avrebbe detto. Ma quelle povere piastre non tornarono piú. E cosí per
tema di vederle in mano a zio Pietro finirono tra le unghie di un bricconcello.
Non vidi mai piú questo scroccone e fu questa la prima truffa che mi fu fatta.
Non potevo levarmi dinanzi quelle piastre lucenti,
ch’erano il mio secreto, il mio bene. Peggio è che non potevo sfogarmi con
alcuno, stizzoso della burla e pauroso delle beffe. Poi pensai all’impiego. “E
perché non andrei io da cotesto signor Schmücher? colui gli ha parlato; il mio
nome debb’essere scritto, non sono ora un ignoto”. Mi feci animo. E un dí ch’egli
teneva udienza, me gli presentai. Gli raccontai tutto. Era un buon tedesco,
alto della persona, con la faccia rubiconda e sazia, di modi schietti. “Chi è
questo signor Durelli? Non so nulla io”. Allora io gli parlai dei miei studi, e
che sapevo scriver lettere, e che avevo una calligrafia non cattiva. Egli
m’interruppe, e mi guardò fiso e disse: “Ma non c’è nessuna persona che prenda
cura di lei?” Io con gli occhi in aria risposi: “Sí; c’è lo zio”. “E dunque?”
Innanzi a quel dunque rimasi di stucco, come tocco da un fulmine. Non
balbettai neppure. Vedendomi a testa bassa e muto, mi volse le spalle indicando
l’uscio. L’usciere voleva il regalo, e io gli posi in mano quelle poche grana
che mi trovai, e lui crollando il capo e protendendo le labbra, mi chiamò
un pezzente, un calabrese. Anche questo. Camminai in fretta, come uomo
inseguito. M’ero preparato un cosí bel discorso; tante belle cose c’erano a
dire a quel signore; come non gli diss’io che lo zio era ammalato, e che
toccava a me l’aver cura di lui? Ero scoraggiato; mi pareva che tutti mi
guardassero e mi facessero le beffe. Mi guardai bene di dirne motto in casa.
Continuai taciturno a portare il basto, e sognavo i trenta carlini dei nuovo
mese.
Un giorno, uscito appena di casa, incontrai zia Marianna.
“Come sta lo zio?” “Come volete che stia?” rispos’io. Avevo la faccia di un
crocifisso. E andai oltre, studiando il passo per non mancare a non so quale
appuntamento. La zia sali in casa, e voltò la mia frase in quell’altra: “Zio
sta peggio”; e riempi la casa di lamentazioni. Lo zio si turbò. Aveva la mente
indebolita e lacrimava spesso. Quando io fui tornato, mi chiamò a sé. Si fece
cerchio intorno al letto, e zio con l’aria di un giudice m’interrogò: “Come ti
pare che io stia in salute?” Volsi in aria gli occhi smarriti, e dissi: “Molto
meglio, mi pare; sarete presto guarito”. Andai via come un accusato; mi sentivo
involto in un’atmosfera ostile, e non sapevo perché, e talora dava la colpa a
me, e mi facevo un esame di coscienza, e mi promettevo d’essere piú cauto.
Un giorno non ne potevo piú; giacevo sotto la croce. Era
carnevale. A me quei divertimenti chiassosi non garbavano. Uscii verso le tre
pomeridiane, assetato di aria e di solitudine. Scesi in piazza della Carità.
C’era un diavoleto. “Il carro! il carro!” si urlava. Passava il carro dei
principi reali, sfarzosamente addobbato. Mi feci largo a gomitate, imprecando
contro quel gentame che mi chiudeva il passo. L’onda mi gettò verso il carro, e
non solo mi venne addosso una pioggia di confetti duri come pietre, ma mi toccò
una frustata da uno stalliere che mi respinse indietro. Stavo come naufrago
quando mi ripescò un tale D’Amore, e mi sorresse e mi tenne sotto il braccio.
Questo D’Amore era figlio d’un cantiniere, e lui faceva il signorino, ed era mio
compagno alla scuola del Puoti. “Che diavol ti porta qui?” “Maledetto paese e
maledetto carnevale! – diss’io. – Volevo andarmene tutto solo a bere un po’
d’aria verso Capodimonte”. “E pensi tu solo di farti via? Ti farò la via io, e
verrò con te”. Cosí a furia di spintoni giungemmo verso lo Spirito Santo,
presso la farmacia Marra. C’era gran calca; uno spingersi innanzi e indietro,
come un mare furioso. Si vedeva in lontananza il carro dei principi reali,
fermato a battagliare con i balconi. Molti vetri rotti erano testimonia del suo
passaggio. Il carro si avvicinava lentamente; il polverio accecava gli occhi;
gli urli e i fischi intronavano la testa. D’Amore disse: “Non si può passare;
andiamo su; che sono amici miei”. E mi tirò per una porticina su in una camera.
Era ivi la casa del farmacista; un balcone stava
spalancato; vidi signore che scappavano nelle altre stanze. Fiutai un cattivo
vento e tirai per l’abito D’Amore, dissi: “Andiamo via”. Saltavamo le scale,
quando ci vennero di faccia alcuni gendarmi, che ci presero per il collo e ci
tennero fermi, noi gridando e protestando invano. Scesero poi tra gendarmi
alcuni giovinastri con le mani infarinate, e tra percosse e pugni pure
strepitavano e minacciavano. Fummo messi in fila a due a due e menati per
Toledo. Bello spettacolo! Io stavo come un asino in mezzo ai suoni; non ci
capivo nulla. Toccai un vicino, e dissi: “Cosa è stato?” E mi narrò che,
passando il carro dei principi, le maschere a furia di confetti avevano rotti i
vetri al balcone, sfregiando signori e signore. Ora alcuni giovanotti per far
vendetta apparecchiarono della calce, e quando il carro ripassò sotto al
balcone, ve la gettarono tutta con parole e con gesti di minaccia. Figuriamoci.
Le vie erano guardate da gendarmi a piedi ed a cavallo. Io capii il resto,
“E... cosa sarà di noi ora?” Stava presso a me un gendarme, che mi domandò di
quale paese ero. “Sono di Morra”, diss’io. “E sono di Morra io pure, – disse
lui, – e ti voglio dare un buon consiglio. Dateci qualcosa a noi altri, e vi faremo
svicolare”. La cosa fu sentita; si pose mano nel taschino, e io con
molta premura diedi al mio bravo compaesano, chi lo sa?, due piastre, avanzo
dei famosi trenta carlini. Ci fecero un bel sorrisetto, e colui disse a me,
pigliando le due piastre: “Grazie, signorino”. Noi con gli occhi a destra e a
manca guardando i vichi; e quelli con gli occhi di traverso su di noi dicevano:
“Avanti, avanti”. Ci condussero in prefettura, e poi a Santa Maria Apparente.
“Dove andiamo?” dicevo io. “Camminate, signorino, che è tardi; non dubitate”.
Salivo salivo che mi veniva l’affanno; quegli m’ammiccava; e io pensando che mi
conduceva a casa mi trovai per un ponte tra brutti ceffi in un camerone oscuro,
dove fummo gittati tutti come una balla. Sentimmo chiavare l’uscio con molto
fracasso. Non dico che ci guardammo l’un l’altro stupiti; ché non ci si vedea.
Ma quei giovinastri urlavano a piena gola: “Ehi! ma non
è questa la maniera. Custode, custode. Ma dateci almeno un lume”. L’uomo aprí e
si piantò sull’uscio con un lanternino in mano, gridando: “Cosa volete?” “Ma
non c’è un letto, ma non c’è una sedia, ma non c’è un lume; ma che modo è
questo? ma che abbiamo fatto?” E l’uomo dal lanternino si fece piú brutto e
disse: “Belli figlioli, se fate ancora gl’ineducati, vi metterò giú giú, nel
criminale, e v’insegnerò io l’educazione”. E fece un gesto con la mano, che
voleva significare, “vi darò le mazzate”. La paura li ammansí; gli fecero
cerchio, con aria supplichevole. E allora il cerbero si mansuefece, e lasciò
intendere che coi danari si accomodava tutto. “Volete sedie? volete letti?
volete buona cena e buon vino? pagate, pagate, signori; altrimenti ecco quello
che passa il carcere”; e ci mostrò del pan muffito e nero, e una brocca d’acqua
polverosa. Nessuno aveva in tasca piú un grano; ché i gendarmi si avevano preso
tutto. Si venne a patti. Il custode farebbe la nota; e noi avremmo pagato
tutto. Cosí fu portato del vino, del formaggio, buoni letti, delle sedie.
Vennero certi altri, brutte facce, e si levavano il berretto, e si offrivano a
servirci, e il custode a dire ch’eravamo signori e ci trattassero bene. Tutto
andò per lo meglio. Quei birboni mezzo ubbriachi ci raccontavano tante brutte
storielle di quel carcere, e che si davano le mazzate e che l’affare era
grosso, nientemeno da lavori forzati, e non ci fecero chiudere occhio tutta la
notte.
La mattina, appena mi reggevo in piè. Ero stato sempre
raggomitolato in un cantuccio, con la mano sulla fronte, come estraneo a quella
scena. Quando il freddo mi poteva, camminavo in fretta, e mi parlavano e non
sentivo, ero assorto nel mio dolore, tormentato dal pensiero della famiglia:
“Che avrà detto lo zio? povero zio!” Le lacrime mi tremavano negli occhi. Quel
D’Amore aveva sparso ch’io poteva molto sul marchese Puoti, e che quella era la
via della liberazione. Ed eccoli intorno a me, e io scrissi una bella lettera
al marchese, narrando il fatto e dichiarando tutti innocenti. Si promise una
bella moneta a uno di quei birboni, e la lettera fu portata. L’ansietà era
grande; si contavano i minuti; carcerieri e carcerati sogghignavano, portando
false notizie; ora era un prorompere di gioia, ora un impallidire mortale; e
intanto la nota s’ingrossava. Ciascuno aveva scritto alla sua famiglia; e un
po’ di moneta circolava, appariva e spariva; l’ingordigia di quei bricconi era
una botte senza fondo. Ed ecco si sente come un grande spalancare di porte:
“Cosa è nato? sarà un noioso carcerato, sarà la grazia. Sí e no”. Il custode si accosta gravemente
e dice: “Chi è tra voi il signor De Sanctis?” “Ecco”, – diss’io. – “Lei può
andar via”. “Come? come? lui solo?” fu il grido di tutti. E seguitavano che una
era la causa, e se usciva uno, dovevano uscir tutti, e che la non andava cosí,
e volevano ragione dal custode, come fosse lui il re. E vollero ch’io non
uscissi, e che riscrivessi al marchese. A farla breve, verso sera che s’era
fatto scuro, venne l’ordine per tutti. Mi abbracciavano; divenni ai loro occhi
un pezzo grosso; il custode si levò il berretto. Ma non fummo lasciati uscir
subito. Si venne al conto; e cominciò un vero battibecco alla napoletana sui
prezzi con strilli e voci e gesti grossolani; i piú focosi minacciavano, e
quelli ridevano. “Pagate, pagate, signori”. Poi c’erano i cosí detti servi, che
ci avevano rotto la testa tutta la notte; e c’era il custode che voleva il
regalo, e altre brutte figure; ciascuno stendeva la mano e voleva la mancia.
Bisognò mandare alle famiglie, e chieder nuovo danaro. Quando scendevamo pel
ponte, quei ladroni fermi sulla gran porta ci facevano le sberleffe, e qualche
voce ci giungeva, “bambocci, ragazzaglia”, e non dico le parole sconce. Ma chi
l’udiva? Quando fummo fuori, non ci pareva vero. Ciascuno corse a casa. Io non
vidi zio Pietro e zia Marianna che mi venivano incontro, e corsi difilato allo
zio che piangeva. Me ne disse delle belle; io non cercai difendermi, e stanco
morto me ne andai a letto. La mattina mi levai fresco come una pasqua, e
raccontai il fatto ai cugini e a zio Pietro, con certi miei ricami e
abbellimenti. La poca pratica della vita, e la lettura dei romanzi mi
avvezzavano a queste bugie della immaginazione.
Tornai muto e tristo. Non avevo piú gusto per la scuola;
non aprivo piú un libro; avevo la testa vagabonda; non venivo a nessuna
conclusione. Zio Pietro pretendeva che dessi a uso della famiglia anche quel
po’ po’ di denaro che mi veniva da qualche lezione privata. Io non voleva.
Divenni sospettoso, immaginavo le cose piú assurde a mio danno, e fin d’allora
mi sentii solo. Ripensandoci su, vedo che quella concitazione di nervi,
quell’umor nero e pieno di sospetti e di fantasmi, avea la sua origine da
fanciullaggini. Ma tant’è. Il fanciullo mette nelle sue piccole quistioni
quella serietà e quella passione che l’uomo mette nelle cose grandi. Io mi
tenevo già un uomo, e non ero che un fanciullo. La natura non mi avea concesso
né garbo, né malizia. Parlavo di prima impressione, e mi usciva tutto di bocca;
poi mi pentivo, e mi promettevo maggior attenzione, per tornar sempre da capo.
Guardavo in me; non guardavo nelle intenzioni e nelle malizie altrui, ed ero
come un uomo posto in cosí mala luce, che scopre sé e non vede gli altri.
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