Capitolo dodicesimo
E ci voleva pure il colera! Questo ignoto e sinistro
morbo, dopo di avere spaventato mezza Europa, piombò sopra Napoli come un
flagello. Le immaginazioni furono colpite; la paura rendeva irresistibile
l’epidemia. Si raccontavano molti casi di colera fulminante, con le circostanze
piú strazianti. Si parlava di famiglie intere spente, di migliaia di morti al
giorno, e coi piú minuti particolari si descrivevano i casi di contagio. Non
c’erano allora giornali; il governo col suo mutismo accresceva il terrore e
provocava le esagerazioni. Quel tintinnio di campanelli che accompagnava le
comunioni, pareva la campana dei morti; i piú agiati fuggivano alle loro ville;
la plebe squallida e sudicia faceva spavento; nessuno osava accostarsi; l’uno
fuggiva l’altro. La vita pubblica fu sospesa; le scuole, le botteghe erano
deserte.
Il morbo, che dopo alcuni mesi pareva ammansito, riprese
con piú furore l’estate dell’anno appresso. È rimasta ancora nella memoria la
giornata di San Pietro e Paolo, per il gran numero dei morti. Avvenivano scene
che richiamavano alla memoria gli untori di Milano. Gli opuscoli dei medici
confondevano ancor piú le menti. Chi affermava l’epidemia e chi il contagio.
Molti i rimedi, e perciò si prestava poca fede ai medici e alle loro cure.
C’erano i creduli, che narravano cure miracolose; ma il morbo procedeva con
tanta violenza che lasciava poco adito alla ciarlataneria. Non mancavano le
processioni, le esposizioni di Santi e di Madonne, le invocazioni e le
preghiere e le penitenze; ma la paura del contagio raffreddava lo zelo
religioso. Nell’ultimo tempo, per non fiaccare piú gli animi, s’era tolta dagli
occhi ogni parte spettacolosa, i campanelli, le fraterie, i preti, i fratelli delle
congregazioni, ogni Sorta di accompagnamento, il che scemava poco la paura e
accresceva lo squallore. Erano sepolture notturne, le quali, esagerate di bocca
in bocca, riempivano nel mattino la città di nuovi spaventi.
Anche a me giungeva un vocío del colera; in casa e fuori
casa non si parlava che di questo. Ma l’impressione su di me era piccola. Uso
alla vita interiore, il mondo mi passava innanzi come una fantasmagoria; non
avrei saputo ridire cosa mangiavo, come vestivo e come vestivano gli altri. Anche
oggi dei miei piú cari amici ricordo le fisionomie, non il vestito. Quelle
varie voci del morbo si arrestavano come un ronzío importuno nel mio orecchio,
non turbavano la mia serenità; anzi io avevo una certa inclinazione a
esagerarle ancora piú, a metterci i miei colori e i miei ricami, a provocare lo
spavento sulle facce, stentando molto a frenare il riso. Vedevo le cose non
quali erano, ma quali volevo che fossero secondo la disposizione della mia
mente; quei mali già cosí gravi erano inadeguati alla mia immaginazione
letteraria, e andavo trattando e tormentando i fatterelli che mi erano
raccontati, come fossero pagine di romanzo. Presto divenni insopportabile agli
amici; il mio coraggio e la mia indifferenza già parevano loro un rimprovero;
ma ciò che addirittura li metteva fuori di sé, era quella mia aria
motteggiatrice, quei riso che mi appariva sulle labbra, innanzi ai moti
improvvisi che certe notizie producevano sulle loro facce contraffatte dalla
paura. Sentivo talora che facevo male, e sforzavo il viso a serietà; pur ci
riuscivo poco. La mia condotta non veniva da malignità o durezza di cuore; ma
da incosciente, allegra natura, che mi faceva sorvolare sui mali della vita.
Tutti se ne accorgevano, e però molti non se lo avevano a male, e talora
ridevano del mio riso e mi chiamavano poeta.
Intanto la scuola del Puoti s’era sciolta da sé; il
marchese con tutta la famiglia s’era ricoverato in Arienzo, dove aveva alcune
possessioni, e s’era messo a dettare un’Arte di scrivere. Gli studenti
s’erano riparati nelle case loro, dove non ancora li aveva inseguiti il morbo;
anche i fratelli Amante s’erano ritirati nel loro paese. Di questa fuga
generale quasi non mi accorsi, tutto pieno del mio compito in casa e fuori
casa. Zio era riuscito a levarsi qualche giorno, appoggiato sul bastone; ma
questo non accresceva numero degli scolari, e poco scemava la mia fatica.
Io avevo preso dimestichezza con la casa Fernandez. Il
povero Pasqualino, riparato in villa, era stato colpito dal morbo; poi, guarito
appena, e sparsasi la voce che andare in villa era peggio che stare in città,
fece con la famiglia ritorno. La sua casa era nella strada che conduceva al
monastero di S. Pasquale, e c’era un bel terrazzo ombroso, dove solevo passare
qualche ora, finita la lezione. A me non piaceva quel fare dottorale di
maestro; anzi mi ci seccavo e me ne vergognavo quasi, e quando qualcuno mi
diceva: “Signor maestro”, quella parola mi sonava male, cosí come essere
chiamato un pedagogo o un pedante, e mi sentivo vile al mio cospetto. Questa
falsa opinione mi veniva dal signor marchese, che non si lasciava mai chiamar
maestro. In quel tempo gl’insegnanti ambivano il titolo piú decoroso di
professore, per non lasciarsi confondere coi maestri di musica o di ballo. Quel
maestro perciò garbava poco alla mia testa piena di fumi e di fantasie
stravaganti, ed ero disposto a seppellire quel nome sotto l’altro di amico, al
che mi sforzava anche la mia natura affettuosa. Quando Pasqualino mi diceva:
“Signor maestro”, e faceva atto di volermi baciare la mano, mi sentivo nella
gerarchia sociale inferiore al mio discepolo, quasi il suo protetto e il suo
stipendiato, e rispondevo subito: “Chiamatemi amico”.
Egli aveva due sorelle di modi e costumi semplici, che
assistevano alla lezione, e piú tardi vi parteciparono. Innanzi a loro sentivo
anche piú vergogna di fare il maestro, e prendevo il tono della conversazione,
e poi, finito, continuavo a star con loro, e spesso uscivamo sul terrazzo,
intrattenendoci in discorsi familiari. Talora facevo letture. La mia voce era
chiara, intonata, ben variata, secondo il senso e l’affetto, un po’ enfatica.
Quella declamazione piaceva loro moltissimo, e io che vedevo l’effetto, ci
aveva messo una certa vanità, e poco mi faceva pregare, e prendeva il libro in
mano con un riso di soddisfazione anticipata. A poco a poco il maestro
scomparve e rimase l’amico. Non volli danaro da loro, e ci andavo piú spesso, e
le ore fuggivano in quelle visite desiderate. Fino a quella età non mi era mai
occorso di stare in compagnia di donne; quelle due giovanette amabili e ingenue
mi attiravano con un sentimento che non sapevo e non volevo definire: insomma
mi piaceva di star con loro, e mi si schiariva la faccia, e mi si scioglieva la
lingua, io ingenuo al par di loro. Avevo per la donna un culto letterario, e mi
sentivo disposto a piegar le ginocchia e adorarla. I miei sentimenti platonici
e spirituali, vestiti di poesia, di cui sonava l’eco in Beatrice e in Laura,
entusiasmavano quelle vergini nature, entusiasmavano me stesso. La faccia mi si
trasformava; gli occhi scintillavano, volti al cielo; la voce tremava di
commozione; talora nella declamazione si sentiva un accento di verità. Tuffato
in queste distrazioni dello spirito, non mi accorgevo piú del colera, se non
quando lo vedevo rappresentato sulle facce de’ conoscenti.
Le occupazioni mi erano anche schermo contro il morbo, e
non mi lasciavano tempo di pensarci. Da qualche mese avevo una lezione privata
anche presso il duca di Cassano. Costui era un grosso omone, di buonissima
pasta, e mi soleva ricevere con aria benevola, tanto che avevo preso
dimestichezza seco. Facevo lezione a un suo figlio, una testa stordita e
distratta che poco mi badava. Quel signorino aveva quasi l’aria di dirmi: “Non
mi seccate”. Poco si andava innanzi, ancoraché io mi c’infervorassi. Il duca,
dopo la lezione, soleva intrattenersi un pochino con me, e la prima domanda
era: “Come è andato?” “Male, – dicevo io con la mia sincerità; – egli tiene due
diavoli addosso, che gl’impediscono ogni serietà di studio: l’esser nobile e
l’esser ricco”. Il duca s’inalberava, e chiamavalo a sé e gli faceva una
strillatona. Ma come era un gran bravo uomo, gli si vedeva un certo riso di
bonomia tra’ baffi, che rassicurava quel birichino. E s’era sempre da capo, lui
con la sua noia e io col mio dispetto.
Intanto lettere mi venivano da babbo, da mamma e da zio,
atterriti dalle voci del colera, che giungevano in paese, e mi chiamavano, e me
ripugnante sgridavano e incalzavano. Io non voleva, e per una cotal sciocca
braveria, e perché non voleva lasciare a mezzo le mie lezioni, parendomi fare
quasi atto di disertore. Alfine cedetti alle grida di mia madre, e mi risolsi
di andar via. La sera fui dal duca. Erano già parecchi giorni che infuriava di
piú il colera, e il duca, per non sentirne a parlare, s’era fatto taciturno e
solitario. Giunsi io con un’aria imbarazzata, che annunziava qualche cosa di
grosso. “Cosa c’è?” disse lui. “C’è che..” “Insomma, vi sentite male?”
interruppe lui, che mi vedeva cosí smilzo e con la faccia del colera. Io
balbettava, cercando le parole, e che doveva per un mese allontanarmi, e che
mia madre mi voleva, e che sarebbe stato per poco... Ma egli appena mi udiva, e
non capiva niente. “Andate, andate”, diceva, con l’aria di chi mormori tra’
denti: Che il diavolo ti porti! “E come? – diceva il duca, tirandosi indietro,
– siete in questo stato e venite a casa mia?” Io lo pregai a volermi permettere
che prendessi commiato dal figlio; egli non disse di no, ed io entrai. Il
giovinetto ebbe assai caro di sapere che quella sera non c’era lezione, e quel
mesetto di vacanza in prospettiva me lo rese amico: mi strinse la mano, e mi
promise di scrivermi, e mi fece molte cerimonie. Mai non mi aveva usato tanti
riguardi il bricconcello.
Un’ora piú tardi ero già in via a Porta Capuana. Mi
avevo comprato una buona bottiglia di rum, come salvaguardia contro il mostro,
e un po’ di salame e non so cos’altro. Questo era tutto il mio fardello.
Camminavo a piedi velocemente, per non perdere l’ora della diligenza. L’idea di
mettermi in una carrozzella non mi era venuta, e non mi venne che assai piú
tardi, quando non guardavo piú al carlino. Giunto in quei vicoli stretti e
puzzolenti, che menano a quella brutta Porta Capuana, cominciò un via vai di
carri funebri, con preci sommesse, con grida di monelli, che mi fece capire
cos’era il colera. Mi strinsi tutto in me, chiusi la bocca e mi turai il naso,
come per salvarmi dall’infezione. L’infezione era un fetore acre, che veniva da
cessi, da orinatoi, da spazzature, da cenci, da uomini vivi e da uomini morti.
Tirai di lungo, quasi scappando, e giunsi affannoso, che il carrozzone era già
in via. “Ferma, ferma, cocchiere!” Fermò, e io mi gettai dentro, che per
fortuna c’era ancora un ultimo posto. Mi ci accomodai alla meglio, tra le
mormorazioni dei viaggiatori, che mi guardavano come si fa a uno straccione. Io
non me ne accorgevo; li salutai e offersi loro del rum, ed essi tirarono la
mano indietro, come per dir di no. Non ci fu verso di cavar loro una parola, e
io che avevo ripreso il mio buon umore, ed ero divenuto tutto ad un tratto
comunicativo, ne presi il mio partito, e mi posi a guardare le stelle, sorbendo
di volta in volta un po’ di rum.
Giunsi in Avellino che parevo un fantasma, e tirai da
Peppangelo, il celebre locandiere a quel tempo. “Signorino, cosa avete? voi mi
sembrate uno spirito”. “Vado a letto, – diss’io, – e dammi un buon bicchiere di
vino, ché la polvere m’ha asciugato la gola”. La mattina lasciai Avellino senza
vedere alcuno, con l’aria di un fuggitivo. Prima la via era buona, e io
caracollava con un frustino in mano e in aria di bravo, su di una mula. Mi
veniva appresso, correndo, il contadino che m’accompagnava. Era innanzi l’alba,
e il freddo avuto mi dava un tremolio, specie per le vie umide di Atripalda.
Col levarsi del sole la via si faceva sempre piú sassosa e ripida, e la mula
spaventata e poltra dava salti, tirava calci, chinava le gambe e il collo, e io
mi aggrappavo sulla sella per tenermi saldo. Il contadino andava stuzzicando la
bestia, e la pigliava per la coda e la bastonava di santa ragione, imbestialito
anche lui, e le due bestie parevano congiurate a farmi cascare. Spesso il
cappello rimaneva imbrogliato tra le spine, e talora davo di fronte in qualche
albero. La strada era cosí brutta, che in parecchi punti aveva l’aspetto di un
vero precipizio, stretta stretta, sdrucciolevole, aperta ai fianchi, di una
altezza che mi dava le vertigini, e io gridavo che volevo calare, e il
contadino bestia dava dei pugni alla mula. Avevo smesso quell’aria di bravo
cavaliere, e mi rodevo tra la stizza e la paura, col capo dimesso, assetato,
affamato, dissossato. Giunsi alla famosa taverna di Santa Lucia, e il cuore mi
si allargò, come vedessi Gerusalemme. Mi aiutarono a scendere, ché ero
intirizzito e non mi potevano le gambe. Entrai in un camerone oscuro e sudicio,
che mi parve una sala principesca, e mi gettai al desco senza badare al
tovagliolo e alla forchetta: avrei mangiato con le dita. Pane nero, formaggio
piccante, peperoni gialli e una caraffa di vino asciutto furono per me un
pranzo da re.
Mi levai arzillo e mi venne la chiacchiera con quei
mulattieri, pastori e contadini, che trincavano, giocavano e bestemmiavano.
Presto mi si fecero familiari, e m’invitarono a bere, e cioncai e giocai con
loro, e non mi parve scendere dalla mia altezza. La natura non mi aveva dato
un’aria signorile e di comando, e con la mia sincerità mi presentavo tal quale,
senza apparecchio e senza malizia. “Evviva lo Signorino!” dicevano; e
s’erano rabboniti tra loro, e io stringeva quelle grosse mani, come per dare un
pegno di fratellanza.
A quel tempo era il regno dei galantuomini; i
contadini, in povertà e in servitú, erano trattati come i loro asini; io non ne
sapevo nulla, ed ero soddisfatto e quasi sorpreso dei loro evviva. Rialzato
d’animo e di forza, mi messi a caracollare per la discesa, e via via giunsi a
un torrente, che si menava dietro grosse pietre e faceva gran fracasso. Il
contadino, presa la briglia, andava innanzi, tirati su i calzoni; io mi tiravo
su le gambe per non bagnarmi, e perdendo l’equilibrio, caddi rovescioni
nell’acqua, e il contadino mi afferrò e si disperava, e io gli dicevo: “Dio non
peggio”. Era un motto di papà, rimastomi impresso. Non giunsi in paese che a
ora tarda, di notte. Entrai in casa, sorridente, con le braccia aperte. Non mi
attendevano, e maggiore fu la gioia. Mamma voleva pagare il mulattiere. “È
pagato, – diss’io, e trassi di tasca un borsellino pieno di piastre, e gliele
offersi, dicendo: – A voi, mamma, le primizie”. La buona donna rideva tra le
lagrime, e tutti avevano gli occhi sbarrati su di me, come fossi un principe.
La mattina mamma mi fece mille tenerezze. Si staccava il
bambino dal petto, e mi avvicinava, ridendo, la mammella, con l’aria di chi
dica: “Ti ricordi?” E mi contava tante cose, e io, stando presso al
letticciuolo, negl’intimi penetrali della memoria ritrovavo certe notti lunghe,
ch’io mi svegliavo con grida e con pianti clamorosi, e lei veniva e mi toglieva
in collo e diceva, palpandomi: “Non aver paura, mamma è con te”. Io guardavo, guardavo,
come volessi mettermela bene in mente. Ah! povera mamma, come le volevo bene! E
ora m’intenerisco che l’ho innanzi a me, quella persona alta, asciutta e
spigliata, con quella faccia bruna e le folte sopracciglia e gli occhi neri e
dolci.
Presto la casa fu piena di gente. Molte strette di mano,
molti baciozzi di zie e di comari. Il discorso si oscurò subito, ché il colera
non invitato, entrava nella conversazione. Pretendevano che il morbo fosse
apparso già in Avellino e in molti paesi vicini, e c’era chi sosteneva di
averlo incontrato sulla via del cimitero, e della peggior natura, un vero
colera fulminante; un contadino, appena colpito, morto. “Non lo chiamate
troppo, che viene per davvero”, diss’io. Quelli mi guardavano con sospetto, e
volevano sapere da me perché, cosí giallo e tisico, mi avevano lasciato passare
senza la quarantena; e i soprastanti del paese conchiudevano che bisognava
chiudersi e non lasciare piú entrare nessuno, e per poco non mi volevano
affumicare. Pochi dí appresso mi giunse notizia che il duca di Cassano, il
giorno dopo ch’ero partito, colto da timor panico, s’era rifuggito sul Vomero,
ed era morto subitamente. La notizia accese ancora piú le fantasie, e le facce
erano oscure, e i discorsi lugubri. Io aveva la testa piena di grilli e non
sapeva star solo. Mi vennero a noia paese e paesani, e presi il volo. La
mattina seguente volli partire. Mamma, ancorché fosse innanzi l’alba, e il
freddo grande, volle accompagnarmi fino al cimitero, e là c’inginocchiammo e
pregammo. Io avevo una gran tosse e lei mi si attaccò al collo, e mi stringeva
forte, e mi diceva con lacrime: “Figlio mio, forse non ti vedrò piú”. Ed era
presaga! Non dovevamo piú rivederci.
Trovai in Napoli il colera un po’ rimesso. Gli studenti
tornavano, le scuole si riaprivano; la novità era l’edizione fatta di fresco
delle poesie di Giacomo Leopardi. Io ne andavo pazzo, sempre con quel libro in
mano. Conoscevo già la canzone sull’Italia. Allora tutto il mio entusiasmo era
per Consalvo e per Aspasia. Avevo preso lezione di declamazione
dal signor Emanuele Bidera, che aveva stampato sopra la sua arte un volume,
zeppo di particolarità e minuterie. Io era tra’ suoi scolari piú diligenti, e
quando c’era visita di personaggi, il primo chiamato ero io. “Fatevi avanti,
signor De Sanctis, declamatemi l’Ugolino”. Quello lí era il mio Achille.
E io, teso e fiero, trinciando l’aria con la mano diritta, cominciavo: “La
testa sollevò...” Non mancavano i battimani; ma un uomo di spirito mi disse:
“Piangete troppo”. Ricordo il motto, non ricordo la persona. Ed era un motto
vero. Io peccavo per eccesso, volendo accentuare tutto e imitare tutto, suoni,
immagini, idee. Consalvo mi fece dimenticare Ugolino. Lo andavo declamando
anche per via, e parevo fin ebbro, come Colombo per le vie di Madrid, quando
pensava al nuovo mondo. Lo declamavo in tutte le occasioni, e mi c’intenerivo.
Sovente lo declamai in casa Fernandez, e mi ricordo che, per un delicato
riguardo alle signorine, dove il poeta diceva “bacio”, io mettevo “guardo”.
Poco poi seppi che il gran poeta era morto. Come,
quando, dove non si sapeva. Pareva che un’ombra oscura lo avvolgesse e ce lo
rubasse alla vista. Le immaginazioni, percosse da tante morti, poco rimasero
impressionate da quella morte misteriosa.
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