Capitolo tredicesimo
Il colera aveva ripreso con piú di vigore. Ma avevo ben
altro in capo. Lo stato della famiglia mi teneva tutto tirato a sé. C’era
speranza che zio Carlo guarisse interamente con la stufa ai piedi, come diceva
il medico; ma intanto una gran tristezza lo aveva preso, e stava tutto il dí
taciturno. Teneva corrispondenza epistolare una volta per settimana con zio
Peppe, ch’era in paese e governava la famiglia. Zio Carlo, veggendosi in grandi
strettezze, sfogava il suo mal umore con zio Peppe, e gli chiedeva non belle
frasi di condoglianza, ma soccorso di danaro. Zio Pietro chiedeva la sua parte,
scrivendo: “Non posso resistere al clamore dei miei figli, ai quali manca il
bisognevole”. Zio Peppe s’ingegnava alla meglio, e mandava prosciutti e
caciocavalli. Ma ci voleva altro a calmare quei clamori! Il bisogno era grande.
Cominciarono le ire e le recriminazioni, cattive compagne dei cattivi giorni.
Le ire si volgevano contro il babbo, che aveva fatto un debito garantito da zio
Carlo, e che non badava ai fatti di casa, e che si mangiava la porzione sua e
di zio Pietro. E se la pigliavano pure con me, che m’ero incocciato ad abitare
con Enrico Amante. In fondo era una lotta tra le due famiglie, quella di Napoli
e quella di Morra, sostenuta e capitanata dai due preti, quello di Morra e
quello di Napoli. A me dicevano plagas del babbo, e di me scrivevano plagas
a zio Peppe: “Che io faceva lo zio monaco, e stavo sempre mutolo, ed ero
l’uomo del mistero, un fanatico sofistico, un testardo”. Zio Peppe mi scriveva
lettere agrodolci, e che dovevo essere piú buono, e fare a modo dello zio
Carlo, e non lasciar la casa, e non essere avaro dei miei guadagni verso la
famiglia. Io, presupponendo donde venissero le accuse, mi chiudevo ancora piú
in me, e non dicevo verbo, e non mi lasciavo scorgere, con gli occhi a terra e
il muso duro, ciò che imbestialiva gli zii. Scrivevo poi a zio Peppe col tuono
di un imperatore. A quel tempo avevo piena fede in me, e perché guadagnavo già
di bei quattrini, mi pareva essere un re; mi pareva che bastasse battere i
piedi a terra per farne uscir danaro. E scrivevo non aver bisogno di alcuno, e
bastare a me io, ed esser buono anche per gli altri. Quest’aria di gradasso non
dispiaceva a zio Peppe, un po’ gradasso anche lui, che fra tante tenebre vedeva
in me un raggio di luce.
M’era venuto in capo, disperato com’ero dello zio Carlo,
che forse zio Peppe potesse ristorare le sorti della casa, venendo in Napoli e
dirigendo lui la scuola. Avevo un po’ gelosia di mio cugino che s’era avviato
per il foro: e perché non io pure? Poi, quel maestro di scuola mi sonava cosa
miserabile nella mente piena di Demostene e di Cicerone, e sognavo trionfi con
la toga indosso, come antico romano. Non mi spiaceva perciò che zio Peppe
stesse lí a fare le cose di scuola, e ch’io entrassi in pratica, come
Giovannino. E scrissi a zio Peppe che gli avevo trovato una buona lezione, e
gli dipingevo il suo nuovo stato coi piú bei colori. Ma non voleva muoversi, e mettersi
negl’impicci. Forse aveva fiutato ch’io voleva caricar lui della soma che stava
addosso a me; ma il disegno pareva bello a zio Pietro e a zio Carlo, che ci
vedevano uno scopo. Però quegli stette duro, e allora tornarono alla carica e
chiedevano la loro porzione. Sí e no; gli animi s’inasprirono, e zio Peppe
scriveva a zio Carlo che gli piaceva di fare il vezzoso, e questi rispondeva
all’altro che gli piaceva di fare l’indiano. Tra i due si ficcava zio Pietro,
che gridava di non poter tollerare che la sua porzione andasse a benefizio dei
terzi. Questi propositi si tenevano talora innanzi a me, che mi facevo verde.
“Anch’io voglio la mia porzione”, scriveva l’uno. “Voi rovinate la famiglia”,
rispondeva l’altro. “Ciccillo è che
rovina la famiglia”. “Ah! quel briccone di Ciccillo; gli scrivo subito”. “Zio
Peppe, volete andare a Santo Jorio? Vi è una magnifica situazione per voi”,
questa era la mia risposta. E tra scrivere, rispondere e riscrivere passava il
tempo, e i bisogni crescevano e i cuori s’indurivano.
Io n’ero arrabbiatissimo; vedevo tutte le batterie
rivolte contro di me, come se al mondo non ci fossi altro che io; e non c’era
altro nel mio capo che io, babbo e famiglia mia. Ora che ci guardo, mi viene da
ridere. Non pensavo che in quella farsa stizzosa ciascuno rappresentava la
parte a cui lo chiamava il suo interesse, e che tutto era ragionevole e non
poteva andare che cosí. Finalmente una parola che era nel desiderio degli uni e
nel timore degli altri, fu lanciata fuori come una bomba: “La divisione,
vogliamo la divisione!” E qui zio Peppe a strepitare ch’era uno scandalo, e che
i panni sporchi si lavano in famiglia, e che vis unita fortior. Invano.
A Napoli non si poteva piú vivere, a Morra c’era da rivendicare il proprio.
Partirono. Seppi che il povero zio aveva fatto la quarantena. Quando fu
lasciato entrare, ricomparve nella casa paterna, dopo molti anni di assenza e
di lavoro, povero e malato, sostenuto a braccia. E io che ce l’avevo con lui!
Ora mi rimprovero di essere stato un fanciullo crudele.
Giovannino andò in casa di zia Marianna; io da Enrico
Amante a San Potito, in un secondo piano. Al primo piano abitava un tal Luigi
Isernia, un avvocato amico di casa Puoti, col quale pensavo di poter fare la
pratica forense, giacché quel grillo non m’era ancora uscito di capo. Quando
zio Carlo seppe il fatto, mi scrisse: “Evviva la furia francese!” E voleva che
io stessi da zia Marianna insieme con Giovannino, col quale ero cresciuto. Ma
gli risposi, che quando i padri si dividono, non potevano i figli restare
uniti. Cosí si divisero a Morra e ci dividemmo a Napoli.
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