Capitolo quindicesimo
Quando zio Carlo seppe la mia nomina a professore nel Real
Collegio Militare, pianse e ricordò ch’egli aveva cominciato la sua carriera
professore alla Real Paggeria, dov’era il Collegio di Marina. “E Ciccillo, tomo
tomo, fa il suo cammino”, conchiuse. Una certa apparenza d’insensibilità e
una certa tensione nei modi mi avevano procacciato in casa quel nome di tomo
tomo, e anche di tomo sesto.
A me stesso parve gran cosa quella nomina. Forse c’era
quel pensiero del mensile fisso, che trae molti agli uffici di Stato; forse era
curiosità, come d’una condizione nuova e ignota. Il fatto è che, quando venne
il tempo, poco dormii la notte e, con aria impaziente, giunsi in carrozzella
nel Collegio. Trovai al primo corridoio l’aiutante maggiore, un bassotto
rugoso, con una cera punto militare, che mi guidò all’ultima camera, a
sinistra. Quei ragazzotti si levarono in piè, e io salii alla cattedra posta
vicino all’ingresso. “Sedete”, gridò l’aiutante maggiore, quando mi fui seduto
io, e tutti fecero come un sol tonfo, con un rumore eguale. L’aiutante mi fece
il saluto militare, e via. Io ero lí, rosso e confuso per la novità, e quelli
mi spiavano, cambiandosi cenni birichini con l’occhio. Quando cominciai a
parlare, essi mormoravano tutti insieme: “Chiosa chiosa”. Io non capivo,
e stavo lí tra la stizza e la vergogna, e piú ero stizzito io, piú loro erano
impertinenti, e facevano rumore coi piedi, e sghignazzavano, e si
berteggiavano, guardando me. Quell’ora fissata per la lezione mi parve una
eternità. Quando venne l’aiutante, respirai e scesi frettoloso, a capo basso. Quella
prima giornata non avea niente di trionfale; pochi badarono a me; l’aiutante mi
si mostrò freddo. Aggiungi che l’aiutante mi disse: “Signor maestro”, appena
con un cenno di capo, mentre si levò il berretto gallonato con un profondo
saluto e con un “Signor professore”, quando entrava il mio successore. Questa
differenza tra maestro e professore non era solo di stipendio, ma di grado e di
dignità, ciò che mi pungeva.
La sera, caduto dalle nubi dorate delle mie illusioni,
fui in casa di monsignor Sauchelli, maestro come me, e di lettere come me.
“Monsignore, – diss’io, – i vostri alunni sono cosí birichini come i miei?”
Egli indovinò, e fece una risata, guardandomi con una cera di benignità
equivoca, che il sangue mi fuggí dal viso. “Tu hai poco mondo, – disse lui,
prendendomi la mano; – non occorre che tu la prenda cosí sul tragico; ti
spiegherò io la cosa”. E mi narrò che il mio predecessore era un tal Carlo
Rocchi, un povero prete piú che sessagenario, messo al ritiro, divenuto
zimbello di quei ragazzi vivaci. “Cosí tu li trovi male avvezzi. Poi, ci sono i
soffioni che cospirano contro il marchese Puoti, e fanno la sua caricatura
presso quei giovanetti, e dicono che un giorno si lasciò dire che il vero
maestro dee far le chiose al libro. Mi sono spiegato?” “Capisco perché
gridavano: chiosa chiosa”. “Poi, – disse lui, squadrandomi da capo a
pié, – tu non hai cera imperatoria; il tuo contegno è troppo umile, troppo
semplice; con quei monelli si vuole stare in guardia, essere bene
apparecchiato, non andare alla buona”. Seguí snocciolandomi consigli buoni
quanto inutili. La natura mi aveva fabbricato cosí, e a farle contro era
peggio.
Il dí appresso andai prevenuto e apparecchiato. Volevo fare
l’aspetto imponente; ma in quella imponenza non c’era la calma, e c’era una
stizza ridicola. Alzavo la voce, e quelli facevano coro. Talora il baccano era
tale, che correva l’aiutante con in bocca un: “Cosa c’è?” Minacciava il
piantone; ma quelli cosí piantati facevano tanti attucci col viso, che ridevano
tutti, e io non sapevo perché, e m’irritavo piú. Quando io non capivo, facevo
un tale atto di sorpresa, e in quella sorpresa c’era tanta bonomia e sincerità,
che quelli ridevano piú forte: i bricconcelli leggevano sulla faccia tutti i
miei pensieri. La miopia mia accresceva il disordine, perché vedevo il male
spesso dove non era, e castigavo l’uno per l’altro, tra risa, grida e proteste.
Allora per la prima volta mi armai il naso di due formidabili occhiali, che a
ogni mio movimento brusco ballavano, e mi facevano parere tanto curioso: quel
gran coso su quel volto scarno e pallido. Ma feci male il conto, perché ero uso
a vivere dentro di me, ed ero cosí immerso nel mio pensiero, che non potevo
distrarre gli occhi e volgerli in giro, e gli occhiali ci stavano per comparsa.
Però, passata la prima foga, m’accorsi che in certi
momenti quei giovanotti mi prestavano attenzione, quando sentivano da me
qualche fattarello, o qualche spiegazione chiara, o qualche lettura piacevole o
commovente, e allora stavano cheti come olio, e talora i piú curiosi davano
sulla voce ai piú impertinenti o distratti. Pensavo: “il torto non è tutto
loro, ma è anche un po’ il mio, che non so interessarli”. E m’ingegnai, e posi
tutto il mio insegnamento sulla lavagna per attirare l’attenzione e l’occhio di
tutti. Quelle maledette regole grammaticali io le ridussi in poche,
moltiplicando le applicazioni e gli esempi, e sempre lí sulla lavagna. Misi una
certa emulazione, invitandoli alla mutua correzione. Mi persuasi che quello
resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi,
logicamente. Cosí nacquero i miei quadri grammaticali, categorizzando,
subordinando e coordinando tutto. Mi ricordai i metodi mnemonici di zio Carlo.
Se non che, quelli venivano da combinazioni esterne, superficiali e
convenzionali, e i miei venivano dall’intimo nesso delle idee. La mia mente
abborriva dai fatti singoli e dai metodi empirici, e correva diritto alle
leggi, ai rapporti, riducendo i particolari sotto specie e generi. I miei
quadri erano appunto una sintesi, che si andava decomponendo in analisi, e uno
degli esercizi piú cari ai giovani era, posta la sintesi, di lasciare ad essi
l’analisi, che li svegliava, stimolava l’ingegno, accendeva la gara tra loro.
Questi quadri avevano un altro lato buono, che non erano materia morta e noiosa
nei libri, ma nascevano lí vivi sulla lavagna, formati da me e dai giovani,
ciascuno per la sua parte, con una collaborazione paziente. Cosí non lasciavo
un momento d’ozio al loro cervello, e li tenevo piacevolmente avvinti alla
lavagna, esercitando a un tempo i sensi, l’immaginazione e l’intelletto, e
facilitando in loro i due grandi istrumenti della scienza, l’analisi e la
sintesi. L’aria della scuola era mutata; quei giovinetti si pavoneggiavano e
facevano la scuola agli altri, insegnando loro tante cose nuove; io poi
solleticavo il loro amor proprio, lodando, incoraggiando. In pochi mesi mi
sbrigai della grammatica, e capii che lo studio della grammatica cosí come si
suol fare, per regole, per eccezioni e per casi singoli, è una bestialità piena
di fastidio, sí che metteva in furore i giovani, quando sentivano dire: “Ora
veniamo alla grammatica”. Vedevo pure che la lettura li annoiava terribilmente,
e faceva lo stesso effetto sopra di me, mi annoiava terribilmente. In quello
studio di parole e di frasi non c’era sugo. Vidi che loro andavano appresso
alle cose e non alle parole; e scelsi allora dei brani, nei quali la materia
fosse interessante, spiegando loro il senso e il nesso delle idee, e le
gradazioni piú delicate del pensiero, incarnato nelle parole. Posi da banda le
analisi grammaticali e l’analisi logica, noiosissime, e feci l’analisi delle
cose, a loro gustosissima. Solevo scegliere i luoghi piú acconci a lusingare
l’immaginazione, a movere il cuore, saltando spesso i cancelli dell’“aureo
Trecento”, e andando giú giú sino a Manzoni. Olimpia e Bireno, Cloridano e
Medoro, Eurialo e Niso, la presa di Troia, il pianto di Andromaca, la morte di
Ettore, Egisto e Clitennestra, Ifigenia, Lucrezia e Virginia, Olindo e
Sofronia, i giardini di Alcina e di Armida, la pazzia di Orlando, la morte di
Rodomonte o di Argante, il giardino del Poliziano, il Mattino del
Parini, il Saul, la Lucia, la Cecilia, l’Ermengarda erano letture
favorite, che li facevano uscir di sé, ed io, stupito io stesso da queste
novità, mi dicevo: “Meno male che il marchese non ne sa nulla!” Io leggevo
bene; la mia voce andava al cuore; quell’ora di lezione, già cosí lunga,
passava con un: “È già finito?” E quei bravi ragazzi restavano scontenti, e
domandavano in grazia una mezz’oretta di piú, e gli alunni delle altre classi
si affollavano all’ingresso, e volevano sentire anche loro. Lasciai pure quei
temi soliti di composizione simili a quei testi insulsi di lettura che si
usavano nelle scuole, e che facevano “spensare” Vittorio Alfieri, e seccavano
tutti quanti. I miei temi erano letterine o fatterelli, di rado descrizioni, e
sempre cavati da cose note e facili. Il difficile, il raro, il complicato,
l’epigrammatico, l’indovinello mi è stato sempre antipatico. I piú svelti
facevano di bei lavoretti. Io soleva staccare periodi buoni o cattivi, e li
fissava lí sulla lavagna, e ne faceva tema d’interrogazione: ciascuno stava
teso a domandar la parola, a fare la sua osservazione. La mia lezione divenne
cosí popolare, che i piú grandi, quelli dell’ultimo anno, desiderarono ch’io li
esercitassi nello scrivere, e io lo feci ben volentieri.
Cosí le cose andavano nel Collegio mica male, con
soddisfazione mia e dei miei alunni. Scendendo di là, mi andavo a chiudere nel
Caffè del Gigante, dove usavano negozianti stranieri, posto nelle sale terrene
del palazzo del principe Leopoldo (Borbone). Erano quattro o cinque stanze ben
larghe e ben pulite, cosa rara in Napoli, dove spesso il caffè non è che una
stanza sola. Vi si beveva un caffè buono, del quale io era ghiotto. Ma ciò che
mi tirava là erano i giornali francesi. C’erano lí il “Siècle”, i “Débats”;
c’erano anche, pe’ negozianti inglesi, il “Times”, il “Morning-Post”.
Scrivevo e pronunziavo il francese poco bene, ma l’intendeva benissimo, e
leggevo in un baleno. Trovai nei “Débats” le tornate della Camera dei
Deputati e del Senato. Mi ci gittai sopra con avidità. Quella lettura divenne
per me come una malattia, che mi si era appiccicata addosso: non potevo starne
senza. La domenica, che non c’era tornata, mi sentivo infelice. I miei eroi
erano Molé, Guizot, Berryer, Montalembert; ma il mio beniamino era Thiers. La
sua Storia della rivoluzione francese mi aveva ubbriacato; quel suo dire
didattico e insinuante mi rapiva. C’era nella sua maniera non so che di maestro
di scuola, un voler spiegar le cose, senz’aria però di pedagogo, anzi facendosi
piccino per meglio conquistare i suoi uditori. Sentivo in lui confusamente
qualche cosa che rispondeva alla mia natura. Il mio genio mi tirava sempre
all’opposizione, alla minoranza. Avevo poca simpatia però con l’enfasi nebulosa
di Odilon Barrot, e con gl’impeti a freddo di Ledru-Rollin. Stavo cosí
profondato in quelle letture, che non vedevo altro, non udivo niente. Non era
già un’attenzione letteraria solamente; io ci portava un’emozione e una
passione, come fossi un francese, e mi trovassi lí, e prendevo parte per l’uno
o per l’altro. Giunto appena nel Caffè, la mia impazienza era vivissima, e,
mentre bevevo, divoravo già con gli occhi il giornale. Quei maledetti vecchi
negozianti mi facevano crepare di rabbia con la loro flemma. Quando prendevano
un giornale, non lo lasciavano piú. Io mi rodevo e dicevo tra me: “Pezzo
d’asino! mi pare quasi che stia lí compitando le lettere”. Altro che mezz’ora!
Io contavo i minuti, e mi pareva che stessero lí le ore intere.
Un giorno vidi uno di quei cotali, e mi presi in fretta
il giornale, mentre bevevo il caffè. Egli notò la mia manovra, si accostò
gravemente, e disse: “Pardon”, e si riprese il giornale. Io non ci vidi
riparo, e lo lasciai fare. Strettamente la ragione era sua: tu bevi il caffè,
lascia leggere me. Nella mia vita ci è stato sempre questo, che non ho mai
osato di oppormi deliberatamente a cosa che in fondo la mia coscienza
dichiarava ragionevole. Quel mostrare di aver ragione, quell’alzar la voce e
volere imporsi, quel dire sí quando la coscienza dice no, il presumere e il
pretendere non mi è andato mai ai versi. Quel prendere il giornale di sul
tavolo dov’era quel signore, mi era parsa una gherminella, e al suono di quel “Pardon”
mi venne il rosso fino sulla fronte. Il messere squardernò il giornale, inforcò
due occhiali verdi, si prese una grossa “pizzicata” di tabacco, si pose
il giornale sotto il naso, e andava dimenando il capo da destra a sinistra e da
sinistra a destra. Io credevo che per delicatezza dovesse far presto, sapendo
ch’ero lettore anch’io, e che stavo lí aspettando il suo comodo. Guardavo, cosí,
distratto, ma l’occhio ansioso lo spiava, e quel lento movere del capo mi
pareva eterno. Per farlo venire in sé, guardai piú volte l’orologio, e una
volta dissi a mezza voce: “Diavolo! sono già le dieci e mezzo”. Fiato sprecato.
Quel galantuomo prese una “pizzicata” di tabacco, e io cacciai fuori uno
sbadiglio. Ecco il mio uomo entrare in conversazione. Io stendo la mano e dico:
“Pardon”, e cerco di pigliare il giornale; ma lui, piú lesto di me,
disse: “Pardon”, e ci ricadde sopra col naso. Gran Dio! era uno
sfinimento. Si avvicinavano le undici, ora in cui solevo terminare le letture e
avviarmi al palazzo Sangro. Parte puntiglio, parte curiosità, non mi risolsi di
andar via, preferendo quella lettura, tanto piú gustosa quanto piú ritardata,
all’adempimento del dover mio. Gridai: “Cameriere!” Venne; e, trovati due soldi
di regalo per lui, disse: “Grazie”. “Come si fa? – diss’io, – anch’io ho
diritto di leggere”. Il cameriere capí, e si voltò a quel signore pancione e
tabaccone, dicendo: “Quel signore aspetta”. E lui senza moversi disse: “Ho
finito”. Io respirai; l’amico era in terza pagina, e stava col naso giú giú.
Fra poco avrà finito! Ma che finito d’Egitto! Egli spiava me di sotto agli
occhiali, mentre io spiava lui, e, tranquillo e impassibile, voltò la quarta
pagina. “Anche gli annunzi, – diss’io, – costui legge anche gli annunzi!” Vidi
in lui un mezzo riso, e mi balenò che in lui doveva esserci partito preso, e
che per me non c’era misericordia. Uscii sconfitto, in collera contro di me che
avevo perso tanto tempo attorno a un imbecille. E giurai che non ci sarei
capitato piú. Ma poi ci capitavo spesso; la natura era piú forte dei
giuramenti.
Quelle letture mi facevano tanta impressione, ch’io ne
parlavo con tutti, in ogni occasione, e faceva dei soliloqui, perché nessuno
leggeva i giornali. Io avevo tale memoria, che spesso ripetevo punto per punto
qualcuno di quei discorsi. Essi mi udivano con maraviglia, ma senza interesse.
Di politica si parlava poco, e io stesso sentiva un’ammirazione letteraria per quei
potenti oratori; ma di politica non me ne incaricavo, secondo il motto
napolitano. Erano alla moda pettegolezzi letterari; cominciavano a uscir fuori
“Omnibus”, “Poliorami” e “Strenne”; le menti costrette in piccol cerchio
impiccolivano e pettegoleggiavano. Si chiacchierava ancora molto di musica.
Bellini morto, era piú vivo che prima. Era il tempo di Lablache e della
Malibran. San Carlo era nel suo pieno fiore; la Norma aveva voltato i
cervelli i motivi li sentivi canticchiare per tutte le vie. In mezzo a queste
ebbrezze musicali e letterarie io ero una stonatura; e mi piantavano lí con
Thiers e Guizot, sicché finii con ruminarli io tutto solo. La mia vita
intellettuale si compendiava nel caffè del Gigante e nella scuola al vico Bisi.
Sembravo un estraneo alla società, che mi respingeva da sé con un’alzata di
spalle. Io passava per le vie, pensando alla scuola o al caffè, e m’era dolce
naufragare in quel piccolo mondo, ch’era il mio “Infinito”.
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