Capitolo sedicesimo
Chi sa perché questo vicolo fu chiamato Bisi? Oggi lo
chiamano vico Nilo, ed è un termine piú presentabile. Del resto, esso era degno
di quel nome. C’era lí da impiccarsi per malinconia. Figurarsi un vicolo
stretto stretto, con case altissime, che pare ti si congiungano sul capo e ti
rubino la vista del cielo. Là, in una gran sala oscura, s’impiantò la scuola
nel modo piú semplice: un tavolino nudo, non netto di macchie d’inchiostro; un
discreto numero di sedie piú o meno impagliate, e lunghe file di panche. Le
mura bianche e nude mi recavano alla mente il mio stanzone da studio. La
decorazione c’era, ed era nel cuor mio e dei miei giovani, che vedevamo lí
attaccate a quelle mura tutte le memorie della nostra vita intellettuale.
Quando io entrava colà, e, cambiato uno sguardo coi giovani, mi si accendevano
gli occhi e mi si scioglieva la lingua, quella sala mi appariva splendidamente
decorata dalle immagini generate dalla mia fantasia. Né quel luogo pareva poco
decoroso al marchese Puoti, uomo semplice, ch’era egli medesimo di quella sala
la piú bella decorazione.
Il mercoledí era giorno di traduzione. Ci veniva il
marchese, e si faceva presso a poco quello che s’era fatto nel suo studio,
salvo che, essendo ivi gioventú nuova, capitata allora allora dalle provincie,
al marchese non parea di stare in casa sua, tra gente familiare, e usava un po’
piú di riserbo nei modi e nelle parole. Anche la mia presenza gli faceva una
certa impressione, perché io gli stavo a lato teso e duro, con la faccia oscura
e severa, e non ridevo mai; i suoi scherzi e i suoi motteggi cadevano freddi in
mezzo a una gioventú che la mia imperturbabilità teneva in soggezione. La
scuola prese presto un’aria magistrale, e fu smesso quel tono di familiarità
scherzevole, che piaceva tanto in casa del marchese. Non c’era ancora comunione
spirituale tra maestro e discepoli; e quell’aria magistrale portava facilmente
seco non so che di grave e pedantesco, che in certi intervalli ti toglieva ogni
elasticità di pensiero, e la noia ti possedeva. Quel mercoledí era il giorno
dello sbadiglio; era quella stessa scuola di Basilio Puoti, ma senza genialità,
senza sale: la veste era pur quella, ma lo spirito era altro. il marchese ci
stava a disagio; io parlavo poco, con un’aria fredda, che pareva alterigia ed
era timidezza. Talora venivano alcuni dei piú provetti suoi discepoli, e questi
pigliavano la mano e dottoreggiavano e animavano la scuola. Sorgevano dispute,
e ci si metteva l’amor proprio; gli “Anziani” volevano mostrare la loro
superiorità; gli altri li ribattevano e non se la lasciavano fare; il marchese
balzava fuori col suo naturale, le fronti si spianavano e le ore passavano
rapide.
Lunedí e venerdí ero solo io, e la scuola prendeva
un’altr’aria. Mutolo e timido, quando il marchese stava lí, allora mi sentiva
io, e mi metteva tra quelle panche a confabulare, a interrogare, a spiegare; e
presto giunsi ad affiatarmi con quei giovani quasi tutti della mia età. Quando
s’era fatto numero, salivo su di una cattedra e dettavo grammatica; poi mi
mettevo a tavolino tra un cerchio dei giovani piú attenti, e si faceva la
lettura. Col mio fare monotono e severo c’era da morir di noia; ma tant’era la
mia vivacità, e la novità delle cose, che presto vivemmo tutti insieme entro
quegli studi, e non udivi batter sillaba, e la scuola pareva una chiesa di
quacqueri. Ciascuna lezione spremeva il miglior sugo del mio cervello. Io mi ci
preparavo per bene, e tutto il dí non facevo che pensare alla lezione, anche
per istrada, gesticolando, movendo le labbra; e gli amici dicevano, canzonando:
“Che fa De Sanctis? Pensa alla lezione”. Talora mi riscotevo, veggendo qualcuno
guardarmi e ridere; ma poi tiravo di lungo con aria sdegnosa, come chi dicesse:
“Gente, a cui si fa notte innanzi sera”.
Il mio disprezzo dei poltroni e dei vagabondi era
infinito, e battezzavo cosí tutti quelli che non si profondavano negli studi.
Pensando sempre alla stessa cosa, mi stillavo il cervello; il pensiero si
volgeva in un vano fantasticare, e, non reggendo piú al gioco, mi veniva la distrazione;
altri oggetti mi passavano innanzi, e finivo con sottigliezze e con frasi
incoerenti: il cervello diveniva fumoso e pieno di ombre. Talora si avvicinava
qualcuno e si ostinava a volermi tener compagnia. Io a fargli capire che volevo
star solo, e lui a non volerla capire, e a dire: “Non fate cerimonie, tanto non
ho che fare”. E mi si cuciva ai panni, e parlava parlava, e io non sentivo
niente che mi si aggirava la lezione per lo capo; e lui a voler per forza una
mia risposta, e io col mento in aria, e lui da capo ricominciava la storia: era
uno sfinimento, un tormento; l’avrei preso per la gola. Uno di questi, un tal
Tommaso, mi ricordo, non gli bastando l’avermi seccato per tutta la lunga via,
giunto al portone di casa, a me che gli dicevo addio, disse: “No, no, vi pare!
vi accompagno per le scale”. E sali, e mi entrò in casa, e visitò le stanze, e
poi si ficcò nello stanzone da studio, e con scioltezza si mise a voltolarmi
libri e carte, e chiacchierava, rideva e non la finiva piú. Io era come un
condannato a morte, pallido, livido: fra due ore dovevo andare a scuola e fare
la lezione, e in capo non ci avevo messo nulla, e quel manigoldo, piantato lí,
ch’era una rabbia. “Amico, l’ora della lezione si avvicina”. “Ebbene, ti
accompagno a scuola”. Questa parola mi fece venire un brivido. Lui credeva di
farmi piacere, e non avendo a fare altro che mangiare, voleva fare ora per il
pranzo. Io mutai colore. Perché non lo presi per il braccio e non lo misi alla
porta? Ora mi viene questa idea; ma non mi venne allora. Ero di una estrema
delicatezza, e non avrei osato mai piú di dire a taluno: “Andate via”. Fare
cosa poco amabile o poco piacevole non mi veniva in mente. Mi risolsi di dirgli
cosí come era la cosa. E lui a fare le grandi meraviglie. “Come! voi siete il
grammatico, avete in corpo tutte le grammatiche, e dovete prepararvi la
lezione? Ma voi pigliate le cose del mondo troppo tragicamente. Con questi
giovinotti sballate due o tre regole, fate qualche barzelletta, e salute a voi.
Volgete le spalle e non ci pensate piú, e non mi fate la faccia di spedale con
quel chiodo fisso nel cervello”. E si rimise tra quel monte di libri,
scartabellando. “Per Iddio! ma siete matto a mettervi tutta questa roba in
capo? Bembo, Salviati, Varchi, Castelvetro, Buommattei, Corticelli, bum!” E
volgeva le pagine e mi parea che le stracciasse, cosí andava presto. Poi,
cavato l’oriuolo, disse: “È ora di pranzo, buona lezione”; e andò. Io respirai.
Quel pensare per le strade mi dava la giravolta; spesso
piú ripensavo e piú mi si guastava il pensiero o la frase; non vedevo piú la
cosa, l’andavo cercando e non la trovavo, e piú mi si assottigliava il
cervello, e piú quella mi si oscurava. In verità, tutto questo travaglio era
vano e nocivo; la lezione si faceva qualche ora prima di andare a scuola. La
pressura del tempo m’ispirava, m’illuminava; io giungeva caldo a scuola, e
parlando, le cose mi venivano incontro di per sé, e mi ridevano.
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