Capitolo diciottesimo
Facevo la mia lezione di grammatica alla buona, seduto,
senza gesti e senza intonazione oratoria, in modo familiare e didascalico. Il corso
durò due buoni anni. Finita la lezione, facevo un po’ di lettura. Caldo ancora
di fantasmi grammaticali, cercavo gli esempli e le applicazioni nel libro,
ricorrendo spesso alla lavagna, perché mi piaceva di parlare ai sensi, e non
ristavo finché la cosa non era chiara a tutti. Avevo molta attitudine alle
minuzie; sminuzzavo tutto, e su ciascuna minuzia esercitavo il mio cervello
sottile. Quelli che mi sentivano filosofare in grammatica, e tracciare le cose
a grandi tratti, non si persuadevano come foss’io quel medesimo cosí minuto
nelle minime particolarità grammaticali. La stessa minuteria era nelle cose
della lingua. Dopo di avere analizzato e rovistato in tutti i sensi il fatto
grammaticale, mi divertivo con le parole, e con la mia infinita erudizione,
attinta ai testi di lingua, di ciascuna parola dicevo i derivati e i composti,
i sensi antichi e nuovi, le somiglianze e le differenze, tanto che mi
chiamavano “il dizionario vivente”. Talora la lettura non era che di un periodo
solo, e prendeva una buona ora, e non la finivo piú, e mi ci scaldavo io, e ci
si scaldavano gli altri. E quando, riscossomi e cavato l’oriuolo, vedevo l’ora
e facevo la faccia attonita, quei cari giovani mi sorridevano dicendo:
“Professore, quando vi ci mettete!...” Il fatto è che in quella scuola non si
sentiva la noia, perché dicevo cose novissime con un calore, con una unzione
che li teneva tutti a me, vivendo tutti la stessa vita.
In quell’anno lessi dei brani del Pandolfini, del
Compagni e di Frate Guido da Pisa, e terminai con la famosa leggenda del
carbonaio di Iacopo Passavanti. Nella prima lettura non andai piú in là del
primo periodo del Governo della famiglia, e ci feci sopra le piú nuove e
le piú sottili avvertenze, indicando le differenze di tutti quei sostantivi ammassati
l’uno su l’altro, che esprimevano delicate gradazioni di una stessa cosa, e
parevano simili ed erano diversi, e spiegavo anche il perché del loro
collocamento. Spesso tiravo fuori il capo da queste nebbie di minute
osservazioni, e mi trovavo in puro cielo, nel cielo luminoso dell’arte, e
m’entusiasmavo io, e tutti si entusiasmavano, mutando io voce e colore e
accento. Mi rimane ancora oggi l’impressione viva che fece la lettura del
convito del Pandolfini. Quando lessi: “spento il fumo alla cucina, è spento
ogni grado e grazia”, e quando, con intonazione solenne, uscii in quel
“solitudine e deserto”, quella vivace gioventú non si poté contenere, e
proruppe in applausi, affollandomisi intorno. Quella descrizione magnifica
degli apparecchi del convito, dove tutto è pieno di senso, ch’io annotava e
scolpiva, si trasformava nella mia calda analisi in una scena drammatica.
Un’impressione piú durevole forse fece la descrizione graziosa di una festa,
nella quale il nostro messer Agnolo Pandolfini colse la moglie che s’era
imbellettata. Fece ridere quella “faccia imbrattata a qualche padella in
cucina”, e tutti colsero il garbo e la bonomia che è verso la fine, quando il
marito, vedendola piangere, dice: “Io lasciai che s’asciugasse le lagrime e il
liscio”. Pure, questo benedetto libro non l’ho aperto piú dopo quel tempo, sono
passati tanti anni e tante vicende, e queste frasi mi tornano alla memoria, e
mi tornano quelle letture come se le facessi ora, sí forte fu l’impressione.
Una volta la settimana si faceva il lavoro. Di rado davo
un tema; il piú delle volte se lo sceglievano loro. Io tornava a casa carico
come un ciuco. Il dí appresso mi levavo di buon mattino, e cominciavo la
lettura di tutti quei componimenti. Avevo fatto l’occhio ai diversi caratteri,
tanto che anche oggi dalle scritture piú orribili me la soglio cavare. Mettevo
in quel lavoro un’infinita pazienza, perché infinita era la mia coscienza: mi
sarebbe parso un delitto l’andare in fretta o leggere a salti. Mettevo nel
margine le correzioni con le debite osservazioni, e talora tiravo in lungo,
perché volevo farmi ben capire. Fatta quella fatica, tornavo da capo a legger
tutto, spesso aggiungendo altre postille; poi sceglievo in quella selva di
errori quelli che davano occasione ad avvertenze grammaticali o di lingua, e
che era bene che tutti sentissero. Questa era la mia occupazione di tutto il
dí. Nel dimani andavo cosí armato a scuola, e chiamavo i giovani, uno per uno,
e sempre trovavo a dir loro qualcosa, o biasimo o compatimento o lode, consegnando
le carte. Poi prendevo i miei appunti, e con l’occhio alla lavagna facevo
scrivere le frasi o i periodi da me scelti, dov’erano gli errori, e volevo che
i giovani me li trovassero. Di là cavavo materia molto istruttiva di
osservazioni e di applicazioni nelle cose della lingua e della grammatica.
Quello era l’esercizio piú utile. Posso dire che s’imparava piú a quel modo che
con tante regole e con tanto filosofare. Io non lasciava mai in ozio
l’intelletto e non dava luogo alle distrazioni: sempre lí, l’occhio alla
lavagna, attento, caldo, come se vivessi là entro, e quella serietà, quel
calore guadagnava tutti, li tirava a me.
|