Capitolo diciannovesimo
In questo primo anno della mia scuola mi giunse notizia
che la divisione nella famiglia era compiuta. Papà, sempre un po’ poeta, avea
scelto quella parte della casa ch’era in uno stato meno buono, perché col tempo
era possibile allargarsi da quel lato e farsi una casa bella. Cosí con la
poesia dell’avvenire si consolava della miseria presente. Intanto ci si stava
alle strette, e bisognò farsi l’uscita da un’altra strada, fabbricare e
lasciare a mezzo la fabbrica, dove gli altri, col loro pensiero prosaico,
ebbero la casa bella e fatta, senza spesa e senza ansietà del domani. Questo fu
il frutto della poesia. I due zii s’erano divisi secondo le loro inclinazioni;
zio Carlo stava con gli altri, e zio Peppe con noi. Il cugino Aniello era in
Avellino a studio; poco poi rimpatriò e studiava medicina col padre. Paolino
mio fratello era in seminario. Gli altri fratelli rimasero in casa sotto la
disciplina di zio Peppe. Vito si trovava con me ch’era un pezzo. Io non potea
troppo avergli l’occhio sopra; e poi era già grandicello, e pretendevo che
facesse da sé, prendendo me per esempio. Ma parve ch’egli incappasse in mala
compagnia, e di questo me ne veniva qualche sentore, e gliene volevo male, e
gli facevo lunghe paternali. Ma vedendo le cose sempre sullo stesso andare, me
ne stancai e non gli parlavo piú. Quel mio silenzio mi pareva gli fosse freno,
e invece gli fu sprone. Quel vedersi trattato con indifferenza e non parlato e
messo lí come un cencio, mi sembrava il maggior castigo che potessi dargli, e
che gli fosse coltello al cuore. Questo pareva a me, che spesso mi sono
ingannato, supponendo nella gente sentimenti troppo delicati e raffinati. A lui
parve, non sentendo piú i miei rimproveri, d’essere come scarico d’un gran
peso, e s’indurí e si senti piú libero. Io che non gli vedevo cambiar registro,
avrei dovuto cambiarlo io, e prendere altra via; ma la scuola mi teneva tutto a
sé, e poco mi giungevano i rumori del mondo.
Un giorno, rimasto solo in casa, stanco di passeggiare e
fantasticare per il solito stanzone, mi sedetti e tirai a me il cassetto della
scrivania, e lo trovai vuoto, e rotta la serratura. Rimasi spaventato, e non
credevo a me e non sapevo come l’era andata; ché lí dentro ci doveano essere i
miei sudati danari, e non ci trovai niente. Con gli occhi smarriti corsi nella
stanza da letto per vestirmi e correr giú, per isfogarmi con la famiglia
Isernia ch’era al primo piano. E non trovavo gli abiti, e fremevo d’impazienza;
e mi volto di qua e mi volto di là, gli abiti non li trovo. Erano scomparsi
insieme con i miei danari. Venne Enrico e gli contai la cosa. Rimase intontito.
Mio fratello avrebbe dovuto già essere a casa, e non si vedeva. Ci mettemmo a
tavola muti. Nessuno osava dire all’altro il suo sospetto. “Ma, che è successo?
– scoppiai io. – Vito non viene!” E m’infilai certi calzoni vecchi, e con gli
occhi di fuori lo andai cercando per le vie di Napoli cosí all’impazzata. Fui
dalla zia e da don Nicola Del Buono, alla sua scuola, da parecchi amici:
nessuno seppe dirmi niente. Tornai costernato. Passai la sera in casa Isernia,
e mi sfogai ben bene con donna Rosa e donna Maddalena, due zitellone, tutte
paternostri, che per giunta mi facevano la predica e accusavano la mia poca
vigilanza. Rimasi per due giorni balordo, con gli occhi asciutti, senza forza
di pensare a nulla, e quando mi si parlava del fatto, mi era trafittura. Al
terzo o quarto giorno, ritirandomi, ch’era già ora tarda, veggo scendere dalle
scale un signore, e io, miope e per solito frettoloso nell’andare, lo investo e
ci trovammo muso a muso. Era il babbo. Le lacrime da lungo tempo compresse
scoppiarono con abbondanza. Egli cercava calmarmi, chiamandomi coi piú dolci
nomi, e pigliandomi la mano. Mi narrò che quel disgraziato s’era fuggito di
casa con un tal don Raffaele, che lo spogliò per via e lo abbandonò. Cosí solo,
a piedi, senza un quattrino e affamato, giunse in paese. Le circostanze del suo
arrivo e le sue risposte confuse mossero il babbo a venire da me per sapere il
netto. Fu questa una crisi terribile nella mia vita. Non me ne sapevo
persuadere, né consolare. Quel fratello s’era perduto senza rimedio, e mi prese
un dolore profondo a considerare quella leggerezza e quella ingratitudine. Era
la prima volta che dalla famiglia mi veniva una puntura cosí acerba. Quanto piú
alto e puro era il mio ideale della vita, tanto mi appariva piú riprovevole
quella condotta.
Aggiungi a queste angosce del cuore la vita
faticosissima, quasi senza riposo. La mattina ero al Collegio militare; verso
sera andavo a scuola; gl’intervalli della giornata erano riempiuti dalle
lezioni private. Metti pure il continuo travaglio della mente sui libri, e
quell’aculeo del cervello che è la meditazione, diventa una abitudine e quasi
un fantasticare, quando ci mancava sotto un fondamento serio. Questa era la mia
vita. Mancavano quelle lunghe passeggiate che pur mi tenevano su, negli anni
passati; mancavano pure le allegre conversazioni giovanili in casa Puoti, de
omnibus rebus, che portavano al mio spirito notizia del mondo di fuori e lo
dissetavano. La mia vita era monotona, quasi una ripetizione quotidiana. Seppellito
nella scuola, sempre nello stesso piccolo cerchio d’idee, il cervello si
fissava, e, attivissimo in un punto, rimaneva quasi stupido in tutti gli altri
aspetti della vita. Di sentire delicatissimo, quell’ambiente volgare e
grossolano in cui ero pur costretto di vivere, mi offendeva e mi guastava i
nervi, sí che sempre mi sentivo esule dalla società, e cercavo rifugio nei
giovani. Dimagravo a vista d’occhio; ero gracilissimo, spesso infreddato, e
passavo i giorni fra tosse e mal di gola. Una buona igiene poteva forse
guarirmi; ma ero inesperto e spensierato. Le occupazioni si prendevano tutto il
tempo; pure, in certi ritagli della giornata contentava la mia voglia sfrenata
di leggere, e la mia faccia gialla cadeva sui libri. Quel frequente chinarsi
del petto e del capo mi aveva incurvato il dorso. Talora volevo leggere quello
ch’era necessario a sapersi per la mia lezione: ma che! cominciato, non finivo
piú che non finisse il libro. Sceglievo un periodo per la lettura; ma l’un
periodo si tirava appresso l’altro, e divoravo le pagine, e passavo ore intere
come immemore. Alzando il naso dal libro, mi guardavo intorno, come chi si
sveglia e non riconosce ancora il luogo dove si trova.
Un giorno mi venne alle mani un trattato di patologia
generale. Leggo e leggo con una curiosità mista di spavento quella infinita
serie di morbi, e mi pareva il corpo umano come inverminito, e che vi
pullulassero quei morbi l’uno dall’altro. Quelle descrizioni animate, che
finivano quasi sempre col delirio e la morte, mi spaventavano e mi attiravano
come un romanzo funebre. Lessi piú volte la descrizione del tetano: ignoravo il
nome e la cosa. Impressionabile molto, mi pareva di sentirmi nelle ossa quei
morbi che mi passavano dinanzi come fantasmi. Eccomi alla tisi. Mi batté il
core, perché di quei mal sottile morivano per lo piú i giovani e le ragazze, e
pietose storie se ne contavano, e io, cosí gracilino com’ero, mi toccavo spesso
il petto per paura della tisi. Leggo adagio, notando i fenomeni, e, quando
giunsi al calore nel vôto delle mani e al rossore delle guance scarne, mi levai
turbato, che mi sentivo bruciare le mani, e corsi allo specchio per mirarmi le
guance. Tacito, impensierito, stetti agitato per un paio di giorni, insino a
che me ne confessai con l’antico medico di casa, signor Domenico Albanesi.
Costui era un elegante mingherlino, ben chiomato, ben vestito, di faccia aperta
e allegra. “Cos’hai?” mi disse, veggendo la mia brutta cera. Lo pregai di
tastarmi il polso, esaminarmi il petto, e la voce mi tremava. “Ma io non t’ho
visto mai cosí bene, – disse lui, toccandomi il polso. – Tu stai benone, via!
vuo’ farmi il malato di Molière?” Poi, mi guardò in viso, e, vedendo che stavo
lí non persuaso, aggiunse: “Dimmi, leggeresti forse qualche libro di medicina?”
Gli narrai tutto, con semplicità uguale all’ingenuità. Il medico rise molto, e,
accarezzandomi il mento, disse: “Gitta al foco tutti questi libri di medicina”.
Mi confortò piú quel riso che quelle parole, e tornai a casa rassicurato. Ma
pochi giorni di poi mi venne all’orecchio una notizia che mi atterrò. Il povero
medico faceva l’amoroso con una giovanetta, figlia del Ronchi, medico di Corte.
E faceva l’amoroso come si soleva in Napoli, in istrada, a chiaro di luna,
guardando, facendo gesti con la bella al balcone. Una di quelle sere che il
freddo era grande, stando cosí al sereno, gli furono attaccati i polmoni, e
cosí quel meschino, che rideva con me del mal sottile, moriva pochi dí appresso
di mal sottile. Il fatto mi contristò assai. Non mi pareva vero di non dover
piú incontrare per via quel giovanotto gaio e spigliato, che ammiccava di qua e
di là le ragazze, e, vedendomi, diceva subito: “Come stai? Io sto benissimo”.
Il fatto è ch’io era malato per davvero, malato di
esaurimento, o, come si direbbe oggi, di anemia. Me ne fece avvertito una
ragazzotta robusta come una contadina, con la quale talora ci vedevamo sopra un
terrazzino a pianterreno, che metteva nella sua casa. Era conoscenza vecchia, e
ci trattavamo alla buona e senza malizia. Ella mi diceva spesso che i miei
occhi erano amorosi, e io non capivo e non rispondevo a tuono. La famiglia si
riuniva sopra quel terrazzino per sollazzo, e si facevano parecchi giuochi. Un
dí giocavamo a chi alzasse una sedia con sola una mano. Lei la ghermiva e la
slanciava subito in aria; io mi ci scorticavo la mano, la levava a gran fatica,
e il braccio si piegava, e piú ci poneva forza e meno mi riusciva di tenerla
alta, ché il braccio mi tremava sotto. La bricconcella se la rideva, e mi
mostrava il suo braccio rotondo e rubicondo, e, guardando al mio, diceva: “Il
sangue non ci arriva”. La sentivo con ammirazione. Poi guardai e vidi che il
mio braccio era esile e pallido, e presi l’abitudine di strofinarmi i polsi con
la mano per farci venire il sangue. A scuola ero un altro. Giovane tra giovani,
esaltato in me stesso; là regnava il cervello, e il cervello straviveva.
Nessuno, vedendomi cosí vivace e acceso, avrebbe pensato ch’io fossi infermo;
pure, quella scuola si portava via una parte di me. Ventura fu che l’anno volgeva
al suo termine, e io potei rinfrancare le forze in Sorrento.
Capitai in casa di una buona contadina, piuttosto
agiata, che aveva una figliuola unica, grandetta e belloccia. La mamma nel dopo
pranzo la lasciava con me, e passavo le ore accanto a lei, sedia a sedia, sopra
un terrazzino coperto, onde si vedeva un bel cielo azzurro e il tranquillo
mare. In altri tempi avrei fatto il poeta, e cavate fantasie graziose dalla
luna, dalle stelle e dalle nuvole. Ma ora non mi veniva niente alla lingua, e
stavo le ore intere a mirarla, e facevo il Consalvo, timido innanzi alla
Divinità, e aspettava una parola da lei, e lei da me, e nessuno parlava. Da
questo grottesco intermezzo mi vennero a togliere alcuni amici che mi menarono
seco loro a desinare. Da quel tempo, per non trovarmi faccia a faccia con la
mia bella statua di gesso, usai le ore vespertine a girare per quei dintorni.
Le camminate lunghe, l’allegra compagnia, l’aria pura, il riposo, le
distrazioni mi ebbero in poco di tempo rifatto il corpo e lo spirito, tanto
che, al partire di colà, osai dare alla mia contadinotta un’abbracciata.
Consalvo me lo perdoni.
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