Capitolo ventesimoterzo
La scolaresca era cosí cresciuta che in quella mia sala
ci si stava a disagio. Pensai di mutar casa. Zio Peppe, vedendomi ben guarito,
tornò in paese, adducendo per motivo la gravezza dell’età. In verità io era
proprio guarito, perché non guardavo piú al balcone, e rimandavo indietro i
bigliettini, senza aprirli. Una sera si fe’ trovare giú al suo portoncino, e mi
fece il pissi pissi. Ma voltai il viso e andai. Un filo di speranza ebbe
quando sentí partito zio Peppe. Infine si persuase, e non la vidi piú.
La nuova casa era nel larghetto di San Pellegrino a San
Paolo. Mi parve la piú bella casa che uomo potesse avere. Un gran cortile,
belle scale, posta quasi tutta a mezzodí, con un giardino dirimpetto e un grazioso
terrazzino. La casa era all’antica, con grandi finestre e grandi sale. A dritta
era una sala capace di meglio che trecento persone, bene aerata, piena di luce.
Lí m’installai. Non era messa con lusso, ma non mancava la decenza. In fondo, a
sinistra, era il tavolino con l’immancabile lavagna, e presso la finestra, di
lato, era la cattedra. A sinistra della entrata c’era la cosí detta galleria,
una sala capace di un migliaio di persone, ch’io aveva cercato di riempire alla
meglio con lunghi sofà coperti di tela bianca. C’era nel mezzo una gran tavola
coperta di marmo, con sopra libri e carte alla rinfusa: poteva parere una sala
di lettura. Quella casa fu di buon augurio. Gli studenti moltiplicavano. E
quantunque io concedessi ingresso gratuito a tutti quelli che si dicevano
poveri, pure era un bel numero che pagavano, e ne cavavo di bei quattrini. Non
si era dato ancora il caso che qualcuno lasciasse la mia scuola. Io dispensai
dal pagamento quelli che vi rimanevano piú di un anno, e avvenne che parecchi vi
rimasero fino a otto anni, vale a dire tutto il tempo che durò la scuola.
Tra i nuovi arrivati c’era un vecchio, per nome don
Francesco che, venuto per curiosità, non se ne partí piú, e pigliava un gran
gusto alle lezioni. Talora disputava di rettorica; ma io presi tale ascendente,
che non fiatò piú e stava cheto e attentissimo. Il marchese l’ebbe in grande
onore, e tutti gli volevano bene. Una sera che la lezione era finita, e molti
mi stavano attorno, mi fu presentato un giovane basso e pallido, con due occhi
vivacissimi. Mi dissero che si chiamava Angelo Camillo de Meis. Quel nome non
m’era nuovo. Sapevo già in confuso dei suoi studi e del suo ingegno. Gli dissi
il suo posto essere alla scuola del marchese Puoti. Rispose: “No, no, voglio
restare con voi”. Aveva un’aria di modestia e di semplicità, e quasi un
abbandono nei modi e nel vestire.
Feci un corso sullo stile. Intorno a questa parola
trovavo una grande confusione. Alcuni intendevano significare con essa
l’elocuzione; altri la rettorica; alcuni vi mescolavano il genio ed il gusto; e
chi il bello ed il sublime. C’erano poi infinite maniere di stili, come il
tenue, il magnifico, il forte, l’eloquente, il poetico, il prosaico, ecc.
Queste confusioni e queste divisioni avevano la loro spiegazione nell’abitudine
dello spirito a considerare tutta questa materia letteraria nella sua
esteriorità, secondo le singole apparenze di ciascuna forma. Tante erano le
divisioni quanti erano gli aspetti delle cose, considerate nella loro
superficie, e vuol dire ch’erano moltissime. Io avevo preso un’abitudine
affatto contraria, ché non vedevo le forme, ma le cose da quelle significate, e
dalle cose tiravo la definizione e la divisione delle forme. Cosí avevo fatto
per la grammatica e per la lingua, cosí feci per lo stile. Secondo che andavo
piú innanzi, piú ci vedevo chiaro, e piú stavo saldo in questa idea. Solevo
dire che bisognava capovolgere la base.
Correva allora per le mani il Blair; certo, un progresso
dirimpetto al Falconieri e al De Colonia. Io mi divertivo a sue spese. Diceva
il Blair: “Le regole conducono al ben dire”; io dicevo: “No, è il ben pensare
che conduce al ben dire, e le regole del ben dire prendono norma e qualità dal
ben pensare”. Combattevo la celebre definizione di Buffon: “Lo stile è l’uomo”.
Io diceva: “Lo stile è la cosa”, e intendevo per cosa quello che piú
tardi ho chiamato l’argomento o il contenuto. Se lo stile è
l’espressione, questa prende la sua sostanza e il suo carattere dalla cosa che
si vuole esprimere: lí è la sua ragion d’essere. A quel modo che la parola non
ha valore in se stessa, ma nella cosa di cui è segno; a quel modo che le forme
grammaticali hanno il loro senso nelle forme del pensiero, cosí lo stile ha il
suo valore nelle cose espresse. In questa guisa coordinavo insieme, sulla
stessa base, grammatica, lingua e stile.
Ma la cosa non si dee prendere nel suo valore
assoluto. Essa va considerata per rispetto a quello o questo argomento. Perciò
non comparisce nella sua totalità, ma in quelle sue parti che vi hanno
relazione. A quel modo che un oggetto, situato cosí o cosí, mostra di sé alcuna
parte, e le altre nasconde, anche la cosa dee avere la sua situazione, che
determina il suo comparire, cioè il suo stile. La situazione era per me il
punto capitale. Nell’esame degli autori avvezzai i giovani a cercare la
situazione; e ne venivano osservazioni nuove e acute su’ loro pregi e su’ loro
difetti. Anche nell’esame dei componimenti i giovani si avvezzarono per prima
cosa a determinare la situazione. Questo punto di partenza, ch’io chiamavo la
base, fu un gran progresso per me e per loro. Ma la cosa non si doveva
considerare in una maniera isolata. La cosa vive nello spazio e nel
tempo, che formano la sua atmosfera, pigliando modo e colore da questo o quel
secolo, da questa o quella società. Questi elementi avevano una grande
importanza nella determinazione dello stile. Esprimere la cosa nella sua
verità, questo era lo stile. Chiamavo stile falso quello che non era
conforme alla cosa, nella sua situazione e nei suoi elementi.
L’uomo dee pur entrare nello stile, ma di modo che non
aggiunga niente che sia estraneo alla cosa; altrimenti è una espressione
traditora. Dicevo che il grande scrittore oblia sé nella cosa, risecando da sé
tutto quello che è fuor di lei. Questo oblio di sé nelle cose era per me il
carattere dello stile vero. Nondimeno ciascuno scrittore ha una maniera
sua propria di espressione, che nasce da certe sue qualità predominanti, come è
l’intendere, il concepire, l’immaginare, il disegnare, il colorire. La cosa
comparisce cosí o cosí, secondo questa o quella impressione che fa
sull’individuo. In questo senso può dirsi che lo stile è l’uomo, come lo stile
di Dante o del Petrarca. L’impronta individuale non dee però offendere le cose
nella loro verità.
Notavo tre specie di stili: stile naturale, che ha in
mira l’espressione delle cose nella loro natura; stile sociale, che guarda
principalmente al colore del tempo; stile individuale, che prende qualità dallo
scrittore. Questi diversi stili non sono che tre lati di un solo e medesimo
stile, le parti necessarie a formare il tutto. Una sola di queste parti non ti
dà la cosa nella sua integrità, l’è una mutilazione. Dicevo che due difetti
capitali erano la mutilazione e la esagerazione, il meno o il piú del vero, ciò
ch’era proprio degli scrittori aridi o ampollosi. Non biasimavo meno le
digressioni e le parentesi, tutto quello che si suol chiamare un fuor d’opera,
fuori della cosa.
Venendo alle qualità dell’espressione, dicevo che la
nota fondamentale dello stile è la chiarezza, cioè a dire la visione immediata
della cosa, come in uno specchio. Stile terso o limpido non sono che gradi
della chiarezza. L’eccellenza dello stile è in questo trapasso dello spirito
nella cosa, senza che ci sia niente di mezzo che oscuri o alteri la visione.
Questo io chiamavo trasparenza dello stile. La chiarezza ha per sua compagna la
semplicità, che è la cosa nella sua apparenza immediata, nella quale si
acquieti lo spirito. Lo splendore della chiarezza è l’eleganza, la quale perciò
non è convenevole, quando non sia richiesta dalla natura delle cose o dal
colore del tempo o da altre condizioni particolari. “Ciò che luce sempre, –
dicevo io, – si arrugginisce e invilisce”. La chiarezza sta nella quantità e
qualità degli aggiunti o accessorii intorno all’idea principale. Dicevo che
ciascun argomento dee avere il suo protagonista, com’è in un quadro, visibile
in tutte le parti. Illustrai il simplex et unum di Orazio. Questa unità
di disegno doveva determinare le idee che possono entrare nell’argomento. Ma ciascuna
di queste idee era a sua volta un protagonista, circondato e illuminato da idee
necessarie e accessorie. Di qui cercavo il fine e il contenuto del periodo. Non
volevo lo stile a singhiozzi, ch’era spesso una mutilazione; ma non volevo
neppure lo stile periodico, che portava spesso alla digressione o distrazione,
al troppo e al vano. Sul numero e sulla scelta degli accessori mi giovò assai
il Beccaria, quantunque non approvassi quel suo ridurre lo stile quasi a un
meccanismo. La forza è il rilievo della chiarezza, e si ottiene mediante il
parallelismo o il contrasto o l’urto delle idee, che ti fanno balzare innanzi
una nuova idea improvvisa, quasi una sintesi che si affacci nello spirito
stimolato e percosso dall’analisi.
Andavo accompagnando queste teorie con esempli e
applicazioni copiose, quasi sempre nuove. A me era di stimolo la mia
opposizione alla corrente. Non s’imparavano che forme, e io tirava gli spiriti
a guardare sotto di esse le cose. L’effetto era maraviglioso. Io stesso non mi
rendevo conto di questa maraviglia, e neppure i giovani. Era una ginnastica
intellettuale, che acuiva l’intelligenza e spoltriva l’immaginazione.
Avvenivano nuove rivelazioni. Quando mi veniva alle mani un lavoro che usciva
dal comune, la faccia mi raggiava, e dicevo: “Ecco una nuova rivelazione”. La
lettura del lavoro finiva tra i battimani e i mi rallegro.
Un giorno di vacanza mi trovavo alla Prefettura vecchia.
Faceva un caldo grande; era nelle prime ore vespertine, quello che in Napoli si
chiama la contr’ora. Io era volto verso casi, e mi frullava pel capo la
lezione del dí appresso. Stavo per infilare la strada che mena alla Posta,
quando vidi una laida vecchia che mi faceva l’occhiolino, e io voltai la faccia
con disgusto. Ma lei mi si accostò dicendo: “Bel cavaliere, volete voi
accompagnarmi? In questa maledetta Napoli le donne non possono andar sole”. Mi
venne in pensiero: “la bella giovinetta, che ha paura di andar sola!” Ma rimasi
a bocca chiusa, e lei senza piú mi si mise sotto il braccio. Mi tirò a dritta
della Prefettura, per una brutta discesa, ch’io non avevo vista mai. E cammina
cammina, mi trovai ingolfato tra vicoli fetenti che vedevo per la prima volta.
“Ma dove andiamo?” Diss’io infine, rinnegata la pazienza e turandomi il naso. E
lei, con la vocina rauca di uno strumento scordato, disse: “E mi volete lasciar
cosí in queste brutte vie, signor cavaliere?” Io ansava per il caldo, avevo
ritirato il braccio e la guardava fiso. Era una strega, con la faccia di un
rosso carico, che pareva un empiastro. C’era in quella fisonomia non so che
d’equivoco. Stetti per dirle: “Vai al diavolo!”; ma la mia naturale delicatezza
mi tenne. E lei diceva: “Via, siate buono; avete fatto il piú, fate il meno,
solo pochi passi”. E mi si rimise sotto il braccio, e mi tirò seco,
ringraziandomi e lodando il mio buon garbo. Andammo ancora un bel tratto,
scendendo verso la Marinella, e ci fermammo a un uscio. Lei disse: “Fatemi
ancora una grazia; accompagnatemi quassú; faccio una visita, e poi vi lascio”.
Entrammo in un salotto, dov’erano certe figure, gente di cattivo odore, come a
dire falsarii di carte, usurai e simil risma. Lei entrò con impeto e disse:
“Ecco, vi presento il signor contino”. “Ah!” fecero quelli, e s’inchinarono.
“Avete visto? – gridò la strega. – O ch’io era un cencio? o ch’io dicevo
bugie?” E gridava per cento, e voleva ragione. Io stavo come un asino in mezzo
ai suoni, e non ci capivo nulla, e non volli svergognare la sgualdrina. Quelli
facevano scuse, e si tirarono con lei da parte, e parlarono a bassa voce. Poi
la mi disse: “Andiamo, signor contino”. Io aveva una grande stizza in corpo.
Giunti in istrada, lei con un riso di caricatura mi disse: “Signor contino!
signor contino!” E a me usci di bocca finalmente: “Vai al diavolo!” E, volte le
spalle, studiai il passo, dicendo: “Dunque, allons, torniamo alla
lezione!” Il dí appresso raccontai ai giovani come io era stato conte per un
quarto d’ora, e fecero le grandi risa, ammirando la mia semplicità.
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