Capitolo ventesimoquarto
La mia casa era cosí silenziosa, che mi ci pareva
naufragare. E quando seppi che voleva abitare con me un giovane appartenente a
una famiglia stretta d’antica amicizia con la mia ci ebbi gusto. E fu un vero
acquisto.
Costui era Giambattista Mauro, di Andretta, un paese
prossimo al mio. Veniva a fare i suoi studi, ai quali si diede con una serietà
superiore agli anni. Semplice, modesto, sobrio di parole, di carattere facile e
paziente, mi fu dolce compagno, e la compagnia si mutò presto in una stretta
amicizia, fondata sulla stima. Mi pagava dodici ducati al mese. Piú tardi
capitò un greco, certo Giovanni M... Educato a Parigi, veniva in Napoli per
compiere i suoi studi, affidato alle mie cure. Mi offerse cinquanta ducati al
mese. Questo mi fece aprir gli occhi. Mi parve una somma enorme, e quasi un
tesoro venutomi da qualche zio d’America. Quei cinquanta ducati mi parevano una
ricchezza inconsumabile, e, per fare onore all’ospite, non guardai a spese. Gli
diedi la piú bella stanza e provvidi che il desinare fosse lauto. Era un
giovane sveltissimo e vivacissimo, l’allegria della casa. La natura lo aveva
fatto a grandi cose, ma i quattrini e Parigi avevano guasta l’opera della
natura. Crebbe frivolo, superficiale; faceva dello spirito; motteggiava con
frizzi spesso volgari. Suo bersaglio era principalmente Giambattista, che gli
passava tutto con un mezzo riso, tenendosi sempre dalla sua. Prendeva aria di
gran signore, affettava una superiorità benevola, che si esalava nei motteggi
fatti con certo garbo di giovane a modo. C’era in quel suo riso un’amabilità
che troncava le punte, e non ti dava modo di mostrarti offeso. Era un buon
compagnone e un buontempone, vago di sollazzi tra gioviali brigate.
Giambattista era il contrapposto di lui; la sua serenità era in contrasto
grottesco con quella leggerezza capricciosa del greco. Veniva anche alla
scuola; ma il suo spirito vi rimaneva estraneo, e stava lí solo per far
raccolta di sali e di motti. Soleva mettere in caricatura tutti i nobili sentimenti;
era come il diavolo in chiesa. Se la pigliava alcuna volta col povero don
Francesco: non sapeva cosa ci venisse a fare lui, in quella età. Religione,
patria, libertà, scienza, tutto ciò che faceva risuonare le nostre anime,
rimaneva senza eco in quello spirito mobile. Nondimeno gli volevano bene,
conversavano volentieri con lui, e lo trovavano un buon amico. Parecchi gli si
attaccavano ai panni, e facevano le scampagnate con lui, tutto contento di fare
le spese.
Questo diavoletto mutò le mie abitudini. Da modesto nel
vivere e severo nel volto, mi fece allegro per forza, e prodigo. Vedendo che
gli piaceva la compagnia, a tavola non mancavano mai invitati, amici suoi o
miei. Si faceva del chiasso, si consumavano allegramente i cinquanta ducati.
Sopraggiunse il babbo, che faceva lui solo per tre giovinotti, e inventava
sollazzi e facezie, in buonissima lega col greco. Spiccava tra gli altri un don
Raffaele, che mi veniva sempre incontro con le braccia tese, gridando:
“allegramente!”, come per darmi animo a essere de’ loro. Costui finí con
istallarsi a casa, pigliandosi la sua camera senza cerimonie, con aria di
comando, come se il padrone di casa fosse lui. Per un tal modo di vita mi
sarebbe occorsa una persona sicura, affezionata e proba; ma la casa era in mano
alla servitú, e nessuno ci aveva l’occhio, e tanto meno io, assorto negli
studi. Fra tanti chiassi s’insinuava una nebbia di dissipazione e di disordine,
che mi dava il capogiro.
Ma questo turbinío rimaneva al di fuori di me, non mi
scalfiva neppure. Il mio naturale tranquillo e concentrato resisteva senza
alcuno sforzo alla corrente, e rimanevo sempre io. Non perciò facevo il Catone,
ché non era il mio costume; anzi avevo una grande indulgenza. I motteggi non mi
destavano collera, e gli scherzi anche grossolani non m’impazientivano. Un
risolino, un’alzatina di spalla era la mia risposta. Perciò non perdevo
autorità e non destavo antipatia. Stavo tra loro di buonissima voglia, senza
confondermi con loro. Medicina efficace era la scuola, che tirava a sé tutto
me.
In quell’anno la scuola s’era molto popolata. V’erano
intervenuti giovani d’ingegno, che spiccavano in quella grande moltitudine. Era
già venuto Carlo Pavone, giovane bonario e affezionato, concittadino di
Magliani. Da Molfetta mi vennero i fratelli De Judicibus, Orazio Pansini,
Felice Nisio, Samarelli. Di Calabria vennero Giuseppe De Luca, Liborio
Menichini, Francesco Corabi, i fratelli Mazza, Diomede Marvasi. Venne da Venosa
Luigi La Vista, da Spinazzola Michele Agostinacchia, e da Sarno Vincenzo
Siniscalchi con parecchi altri. Ci vennero anche due frati, padre Juppa e padre
Smith, ch’ebbero il ben venuto e furono tra i piú studiosi. Questa eletta
schiera diede il tono alla scuola. Io li chiamavo il mio stato maggiore. Era
visibile il progresso, soprattutto nei componimenti e nella critica. Non era
piú quistione solo di lingua e di stile: i giovani si addestravano a cercare
nelle viscere dell’argomento, a trovarvi la situazione, e da quella derivavano
la bontà o il difetto del lavoro. Questo li tirava all’unità del disegno,
all’ossatura e al congegno delle parti. Lo stile veniva in ultimo, ed era
esaminato non solo in sé, ma piú in relazione all’argomento. Quando la
conclusione della critica era questa formola: “la situazione è sbagliata”, l’autore
si faceva pallido, il lavoro era giudicato essenzialmente cattivo. Nei giudizi
il piú indulgente ero io, che trovavo sempre nei lavori piú mediocri qualche
pregio, il quale mi apriva l’adito a parole di conforto e d’incoraggiamento.
Questa maniera di critica riusciva barocca presso gl’ingegni comuni, inetti a
orientarsi e a guardare il lavoro nella sua sostanza, pedanti nel loro rigore e
facili a dire: “La situazione è sbagliata”. “Ciò che vi è di sbagliato, –
dicevo io allora, – è la vostra critica”. Un giudizio buono era un avvenimento,
come un buon lavoro. Si dice che i giovani sono i migliori giudici dei
professori, ed è vero, ed io ci credevo molto. Il livello infatti s’era tanto
alzato, ch’io mi misi in pensiero, e misuravo le cose e le parole, perché essi,
sincerissimi e attentissimi, talora mi guardavano con un’aria impersuasa,
alzando il muso con un atto che voleva dire: “Questa volta non ha dato nel
segno”. Io mi ripetevo, rincalzavo, mi spiegavo meglio; ma la mia coscienza si
avviliva in quel mio armeggiare, e la mia sincerità mi dipingeva sul volto la
mia condanna. Questo mi rendeva piú preziosa la loro approvazione, ugualmente
sincera, e mi stimolava a raccogliermi e a studiar bene. Non era in verità cosa
facile imbroccare la situazione, guardando, nel fare la critica, la cosa da
quei lati che l’argomento richiedeva. Talora si rimaneva troppo sul generale e
s’ingrandiva il quadro, e questo avveniva per lo piú con frequenti richiami da
parte mia. Qualche volta ci capitavo io, ed il loro volto diceva: “Ecco, anche
lui ha incespicato”. I due che avevano acquistato piú autorità erano Magliani e
De Meis. Magliani era un po’ secco, ma preciso e serrato. Però il suo dire non
andava al cuore e non destava entusiasmo. De Meis era insinuante, incisivo, facile
all’emozione, e guadagnava gli animi e suscitava le approvazioni.
Una sera la scuola era molto animata. Io ero di
buonissimo umore, e lessi la Griselda del Boccaccio. Feci parecchie
osservazioni piccanti, e scelsi tre giovani perché studiassero la novella e ne
facessero la critica. Tra questi era De Meis, che si scusò allegando le sue
occupazioni, ma insieme ci annunziò un suo lavoro. Era il primo suo lavoro in
iscuola. Successe uno di quei movimenti di attenzione che segnalano qualcosa di
straordinario. Egli cominciò adagino, con quella sua voce che anche oggi tocca
il cuore, senza ombra di ostentazione o pretensione, semplice nello scrivere,
com’era nella vita. Si trattava di uno studente venuto in Napoli e divenuto un
giocatore. Il giovane era studioso, ma, capitato in mala compagnia, fu tratto
al vizio. Sul principio il racconto procedeva liscio, ma sempre filato e
nutrito, non stagnava mai e non divagava, l’attenzione era sostenuta. Poi,
nella storia di quella depravazione progressiva si notarono certe finezze di
gradazione, che rivelavano un ingegno superiore. Cominciò nell’uditorio uno di
quei movimenti di soddisfazione, che si sentono e non si descrivono. Era un
senso indefinito di ammirazione, che scoppiò in voci di applauso quando il
giovane autore, con uno stile colorito e pittoresco, ci mostrò il giovane,
sprofondato nel gioco, che “metteva la sua anima su quattro carte dipinte”.
Quel motto fece cosí viva impressione, che non l’ho dimenticato piú. Quando
finí, gli fummo tutti attorno, e io mi levai e gli andai incontro, e dissi:
“Ecco un’altra rivelazione”. Ebbe un’ovazione, in mezzo alla quale egli si
faceva piccino, quasi per sfuggire a quel trionfo.
De Meis divenne l’anima della scuola. Lo stimavano per
il suo ingegno e per la sua coltura straordinaria, e lo amavano per la bontà
della sua natura. Anima pura e ideale, accompagnava la rettitudine e severità
dei princípi con un’amabile indulgenza, che gli amicava anche i piú rozzi.
Partecipe a tutti i sollazzi giovanili, piú per compiacenza che per desiderio,
aperto all’amicizia, salí in tale fiducia e in tale dimestichezza, che divenne
il confidente intimo di quella gioventú. Pure serbò tanta modestia, che
sembrava lui solo ignorasse quello ch’egli valeva.
La scuola s’era arricchita di altri valorosi. C’era
venuto Francesco Saverio Arabia, Cirillo di Trani, Paolo Kangian; e tutti si
strinsero intorno a De Meis. Questo nucleo di giovani, mantenutosi saldo insino
a che durò la scuola, divenne il punto fermo, intorno al quale girava tutto il
resto. La scuola prese un’aria di famiglia, penetrata da un solo spirito. Non
ricordo mai che un giovane si fosse incollerito della critica fatta al suo
lavoro, anche severissima; anzi nacque il costume che si andava a ringraziare
l’autore della critica, e seguiva uno scambio di cortesie. Questo ingentiliva
gli animi piú zotici, e li disponeva a sentimenti nobili. C’eravamo tutti
alzati in un’atmosfera elevata, alla quale non pervenivano i rumori della vita
comune. Una volta si sentí non so che diverbio in sala, e tutti vi prestavano
orecchio. Io feci il volto severo, e citai il verso di Dante:
Ché voler ciò udire è bassa
voglia.
Si fecero un pizzico. E non avvenne mai piú cosa
simile.
In mezzo a loro io non prendeva aria professorale. Stavo
come amico tra amici, alla buona e in tutta dimestichezza. Ma la mia natura
concentrata mi teneva lontano da soverchia familiarità; c’era non so che cosa
nell’aria del volto, che non consentiva altrui un soverchio abbandono, e mi
manteneva il rispetto. Quando poi si usciva dalle conversazioni e cominciava la
lezione, io mi trasformavo addirittura. Avevo un concetto cosí alto della mia
missione, che il mio magistero mi pareva un sacerdozio. Avevo gli occhi bassi,
la mente in travaglio, insino a che, preso l’aíre, gli occhi s’illuminavano e
la voce s’intonava. Tutto questo avveniva con tanta serietà e con tanta
sincerità, che produceva una certa comunione delle anime, e non si sentiva un
zitto. Questa era un’aureola che manteneva il mio prestigio, sí che bastava una
voltata d’occhio per farmi ubbidire. Non mi ricordo mai che nessuno mi abbia
risposto.
Ciascun uomo ha il suo ritornello. E il mio ritornello
era il disprezzo del luogo comune e il disprezzo del plebeo. Il maggior
dispiacere che potesse avere un giovane era il sentirsi a dire di qualche suo
lavoro: “L’è un luogo comune”. Ed era una trafittura quando si sentiva dire: “I
sentimenti sono plebei”. Questo dava una impronta singolare alla scuola. Si
abborriva dal mediocre; si mirava alla eccellenza. Io era incontentabile; solevo
dire: “Mi contento per ora”, mostrando loro un piú alto segno. Dicevo che il
vero ingegno non s’acqueta mai, e poggia sempre piú alto. Questo teneva in moto
continuo l’intelletto, e lo sforzava a cose nuove. Qualcuno mi osservò che
ponevo la mira troppo alta, ove non arrivavano che i pochi; ma non c’era verso,
l’impulso era dato. Dotato di molta pazienza, mosso da un gran desiderio del
bene, tentai un corso speciale per i meno provetti, ritornando alle cose
grammaticali, e dettandone un sunto. Ma se ne cavò poco frutto. Ciascuno mirava
là dove splendevano gli astri maggiori, e avveniva che talora in lavori a
grandi pretensioni si notavano scorrezioni grossolane, anche sgrammaticature.
Se però il profitto non era uguale, il buono indirizzo giovava a tutti, stimolando
le forze dello spirito.
Quello che volevo nello scrivere, volevo anche nella
vita. Dicevo che lo scrittore dee concordare con l’uomo, e perciò anche
nell’uomo volevo il disprezzo del comune e del plebeo. Ciò io chiamavo dignità
personale. In questa parola compendiavo tutta la moralità, e dicevo che la
dignità era la chiave della vita. Contravveniva alla dignità la menzogna, ch’io
perseguitava cosí nello scrivere come nell’azione. “La menzogna nello scrivere,
– dicevo, – è roba da retori e da pedanti”. Ero cosí inflessibile, che dannavo
non solo gli ornamenti e i ricami, che chiamavo il belletto e il rossetto dello
scrivere; ma anche le frasi convenzionali e usuali di una ostentata
benevolenza. Parimenti inflessibile ero nella vita, e dicevo che la menzogna
era la negazione della propria personalità, un atto di vigliaccheria. Con lo
stesso zelo flagellavo ogni atto basso e volgare, come la cortigianeria, la
ciarlataneria, l’intrigo, la violenza, la superbia. Dicevo che l’orgoglio è il
sentimento della dignità, ed è nell’uomo e nella donna la guardia della virtú,
e chiamavo la superbia una maschera della dignità, una menzogna. “La vita, –
dicevo, – è una missione determinata dalle forze che ciascun uomo ha sortito da
natura, e che ha il dovere di svolgere secondo i grandi fini dell’umanità: la
scienza, la giustizia, l’arte, che con parole del tempo si chiamavano il vero,
il buono, il bello. La dignità non è cosa passiva, e non è cosa esteriore; il
decoro è la sua apparenza, non è lei. La dignità è uno sforzo verso il meglio,
che nobilita la persona”. Queste idee mi venivano fuori, non in forma di
lezione, ma secondo l’occasione, e trovavano il loro luogo specialmente nella
critica degli autori e nelle mie prolusioni. Ho trovato nelle mie vecchie carte
vari brani d’un discorso che pronunziai in quell’anno. Voglio riferirne alcuni,
che daranno un concetto della scuola: “Ed ecco, noi siamo qui insieme un’altra
volta: amico, rivedo gli amici miei. Con questa cara parola ci separammo
l’ultima volta, e questa cara parola mi ritorna ora sul labbro. Voi, giovani,
che qui la prima volta venite, specchiatevi in coloro ch’io ho chiamati col
nome di amici miei; e il loro esempio vi mostri che delle lettere il primo
frutto è gentilezza; e ricordatevi che spesso la bontà genera la sapienza e il
cuore ispira la mente. Questo è il fondamento della nostra scuola; e quando vi
sarete avvezzi a scrivere quello che avete prima sentito, voi non descriverete
piú battaglie, assedi, tempeste, tombe e cimiteri, e non scriverete piú lettere
di complimenti, di congratulazioni, di lode, voi, giovani sdegnosi
dell’adulare, e schivi di quelle civili menzogne che chiamano cerimonia e
convenevoli. No: preparatevi a scrivere con verità e naturalezza, serbando
inviolata in voi l’umana dignità. Sia questo il principio e l’insegna della
nostra scuola”.
Queste idee non erano rettorica, anzi talora mi venivano
di rimbalzo dalla stessa scuola. Alitava sopra tutti uno spirito pieno d’amore,
come direbbe Dante, il quale ci teneva stretti intorno alla bandiera, alti
sulla vita comune. L’esempio piú puro e piú attraente era Camillo De Meis,
carattere eroico nella maggiore naturalezza.
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