Capitolo ventesimoquinto
In questo tempo feci lezioni sulla rettorica, o piuttosto
sull’anti-rettorica. Dissi che la rettorica ha per base l’arte del ben pensare,
e perciò non può insegnarsi che ai già provetti nelle discipline filosofiche.
Fu essa una invenzione e quasi un gioco dei Sofisti, i quali, separando le
forme del dire dallo spirito che le avea generate, e nel quale sono vive e in
atto, avevano fatto di quelle un morto repertorio. Di qui nacque l’indifferenza
verso il contenuto, e il disprezzo della verità, trattando essi tutte le cause
buone e cattive, e lodando l’abilità e il talento del dicitore anzi che la sua
scienza e la sincerità. Contro questa prostituzione si armò la collera di
Socrate, che flagellò come violazione dell’umana coscienza questi lenocinii
dell’arte. Le regole rettoriche non hanno la loro verità che nelle forme del
pensiero, materia della logica. Ma come la rettorica non ti dà il ben dire,
cosí neppure la logica ti dà il ben pensare, essendo le sue forme staccate da
quel centro di vita che si chiama lo spirito. Non perciò le regole sono
inutili; anzi sono buone a consultare, come si fa un dizionario di parole o di
frasi o di rime. Anche un cinquecentista credette di potere insegnare a
scrivere de omnibus rebus, elaborando un dizionario di tutti gli
oggetti. Tutto questo è un materiale grezzo, che dee riempire la memoria e
divenire come l’arsenale dello spirito; ma, nell’atto dello scrivere, lo
spirito dee mantenersi libero e guardare e ispirarsi nell’argomento, e guai a
colui che cerca aiuto nei dizionari. Ricordavo il motto di Orazio, che lo
scrittore dee per prima cosa studiare il suo argomento ed averne un’intera
padronanza: la parola non manca a chi ha innanzi viva e schietta la cosa.
Lo studio delle cose richiede serietà e libertà
d’intelletto: due qualità molto desiderate nei nostri scrittori. Serietà vuol
dire che l’intelletto non si arresti alla superficie, ma scruti le cose nella
loro intimità, perché la verità è nel pozzo, e là nel profondo bisogna ficcar
l’occhio. Le armi dell’intelletto sono la sintesi e l’analisi, due forze che,
debitamente esercitate, gli dànno la guardatura giusta e piena. Cosí armato,
l’intelletto prende possesso delle cose, e ne fa il suo pensiero e la sua
parola. Divenute proprietà dello spirito, ricevono ivi dall’intelletto,
dall’immaginazione, dal sentimento, cioè da tutta l’anima, una seconda vita.
C’è la cosa e c’è l’anima, che le dà la sua guardatura, e se la pone dinanzi e
se la rappresenta. Qui è il foco dove prendono luce tutte le regole dei ben
pensare e del ben dire, la logica e la rettorica. Ma occorre a questo che
l’intelletto abbia piena libertà di moto; altrimenti le sue forze giacciono
inoperose. La libertà è all’intelletto cosí necessaria, come la serietà. Spesso
l’intelletto si crede libero, ed è servo, servo dell’abitudine, della
tradizione, dell’autorità, della società. Segno certo della decadenza è la
servitú dell’intelletto, la quale gli tarpa le ali, gli annebbia la visione
delle cose, lo tiene sulla superficie, uccide ogni serietà. Perché l’intelletto
sia libero, è mestieri che abbia l’amore del vero, quell’amore che è padre
della fede. Qui è la moralità dello scrittore. Chi non ha fede in qualche cosa,
può essere un buon giocoliere nel maneggio della rettorica, non sarà mai uno
scrittore. Il liscio nella forma e la superficialità nelle cose sono i due piú
gravi indizi di decadenza nazionale. In Italia l’espressione piú piccante di
questa decadenza fu il seicentismo prima, e l’Arcadia poi, e dell’uno e
dell’altro rimangono ancora oggi i vestigi anche nei nostri migliori, come io
mostrai in parecchi scrittori, anche in Pietro Giordani, tenuto allora principe
dell’arte, il cui stile io qualificai accademico. L’originalità è il risultato
di quelle due qualità dell’intelletto. Lo spirito ha un suo orizzonte proprio,
nel quale colloca le cose divenute sua proprietà, e partecipa a quelle
l’impronta sua e dei tempo. Questa è l’originalità nelle cose e nelle forme. I
grandi ingegni sono come le aquile, hanno la guardatura dall’alto e da lontano.
L’umanità, dopo analisi secolari, giunge a questa guardatura aquilina, per
ricominciare poi il lento lavorío analitico. La storia dell’umanità si ripete
negl’individui, che solo dopo le pazienti analisi salgono alle sintesi serie e
reali. La sintesi è la cosa guardata non nelle sue particolarità, ma nel suo
tutto e nelle relazioni con le altre cose: relazioni di somiglianza, di
differenza e di contrasto.
Le cosí dette figure rettoriche, cosí come i tropi, non
sono che l’espressione di queste relazioni, e hanno in esse la loro verità.
Venni all’esame di queste figure, e le ridussi in categorie, secondo le
relazioni che esprimono, guardando dal di dentro al di fuori, come avevo fatto
con le forme grammaticali, con la lingua e con lo stile. Mi fermai molto sui
contrasti o antitesi, flagellando il loro abuso, massime quando lo stile a
contrasti sia divenuto una maniera dello scrittore: il qual vizio io chiamai la
piú grave malattia dell’intelletto, che, appagato in quei riscontri o raffronti
o paralleli delle cose, non posa in alcuno. Biasimai soprattutto la critica dei
paralleli, come quella che rimaneva alla superficie, toccando delle cose non la
loro sostanza individua, ma le loro attinenze. Compiuto questo lavoro sulle
figure, notai ch’elle non sono solo mezzi di stile, come le avevano considerate
i retori, che le veggono solo nelle parole e nelle frasi. Le figure entrano
nell’organismo stesso della composizione, e sono il modo di concepire e di
guardare le cose nelle loro somiglianze, differenze e opposizioni. Esse dunque
sono il processo delle cose nel loro tutto e in ciascuna parte. Addussi molti
esempi di queste figure, sia nell’intimo stesso della concezione, sia nei
singoli periodi. Questo lavoro parve nuovissimo, specialmente per le
applicazioni.
Conchiusi che la rettorica, attirando l’attenzione sopra
forme esteriori alle cose e appariscenti di falsa luce, indirizza la gioventú
alla menzogna, e la svia da’ forti studi, guasta l’intelletto e il cuore. Dissi
il simile di quelle figure che hanno la loro radice nell’immaginazione e nel
sentimento. “Buttate al foco le rettoriche, – dicevo, – e anche le logiche. Ci
vuole il verbum factum caro, la parola fatta cosa. Studiare le cose,
questa è la vostra rettorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali
solo in esse e con esse sono intelligibili. Lo studio isolato delle forme adusa
l’intelletto al vacuo. Solo nello studio delle cose lo spirito esercita ed
educa tutte le sue forze, e a questa educazione dee provvedere la scuola”.
L’istruzione non ha limiti. Nessuno può esaurire, non
dico le scienze, ma né una scienza sola, per circoscritta che sia. Ogni anno si
allarga il campo del sapere; dopo alcuni anni il maestro diviene appena un
discepolo. Perciò l’ufficio della scuola non è l’istruzione sola, ch’è un fine
inarrivabile, ma ancora e piú l’educazione dello spirito in tutte le sue forze.
Questo io chiamava ginnastica dell’anima. Le forze te le dà la natura, ma
limitatamente anche nei piú grandi. Ricordandomi certi miei studi di medicina,
descrissi i quattro famosi temperamenti, notando le loro forze e le loro
debolezze. Mi promettevo un grand’effetto da quella lezione, che contro il mio
costume avevo scritta tutta intera, non ben sicuro della materia. Avevo segnato
anche nella memoria i punti che mi parevano piú interessanti, e dai quali mi
attendevo grandi applausi. Ma gli applausi non vennero né grandi né piccoli;
anzi la lezione fu udita con una freddezza insolita, che a poco a poco guadagnò
anche me. Non mi sapevo consolare di questo insuccesso, e passai la sera con
quel chiodo nel cervello. Il dí appresso, attendendo il marchese per la
traduzione, si fece crocchio; e io, con quel martello che aveva nel cuore,
buttai fuori tutti i miei pensieri. “La lezione che ieri mi costò molta fatica,
ma non fu gradita, fu un vero fiasco. Io ci ho pensato ben sopra, ed ecco la
spiegazione. Voi non credevate alla mia competenza, e io non ci credevo. Quella
materia, ancorché molto da me ruminata e studiata nei piú piccoli particolari,
rimaneva fuori del mio spirito, come parte di una scienza a me nuova. Temevo di
errare, pesai le virgole, usando i modi e le parole del testo, e sempre con
questo pensiero fitto in mente: dovesse uscirmi qualche sproposito! Cosí
riuscii freddo e insipido, scontento io, scontenti voi. E ho imparato a mie
spese, che a parlar bene d’una materia è mestieri aver dimestichezza con la
scienza di cui è parte. Ed ecco nella mia persona un esempio di quello ch’io ho
chiamato serietà dell’intelletto. Questa serietà mi è mancata”. La mia
confessione, fatta con tutta bonomia, mosse in loro un riso di applauso, e io
mi sentii compensato abbastanza dell’insuccesso.
Sissignore, la natura ti dà le forze e le attitudini.
Non si nasce solo poeta; si nasce oratore, filosofo, scrittore. La natura ti dà
la genialità; e se la natura fa difetto, non c’è arte che possa riempire questa
lacuna. Ma la natura è semplice potenzialità; occorre l’educazione perché
diventi atto. E questo è il miracolo che dee fare la scuola. Discorsi del basso
concetto in che è tenuta la scuola, e del dispregio che si ha dei maestri e
degli studenti. “Il maestro, – dicevo io, – non dee dogmatizzare, tenersi fuori
dell’uditorio, sputar senno e mettere sempre innanzi il suo personcino. Egli
dee entrare in comunione intellettuale con la gioventú, e farla sua
collaboratrice. È in questo lavoro di tutti e di ciascuno che si genera l’amore
del vero, il desiderio della ricerca e dell’esame, la pazienza dell’analisi; è
in questa collaborazione che si fondano le amicizie e si formano le piú nobili
qualità dell’anima, le piú alte aspirazioni, il culto della scienza accompagnata
dalla modestia e dalla bontà”. E questa fu la mia rettorica.
Venne poi la poetica. Qui non avevo che studi
superficiali. Non ebbi mai la pazienza di legger tutta intera l’Arte poetica
di Orazio o di Boileau, o la Ragion poetica di Gravina. Costui, malgrado
gli elogi del marchese, m’era antipatico; lo trovavo pesante e pedante, spesso
piú acuto che vero. Della metrica conoscevo solo le divisioni e suddivisioni
dei trattati scolastici; la materia era quasi nuova nelle sue profondità. Non
avevo tempo di leggere; mi posi a meditare e ad osservare. Sentivo un giubilo,
quando quel mondo a metà oscuro mi si rischiarava; e quel giubilo brillava
sulla faccia dei giovani, attirati da osservazioni inaspettate. Mi fermai molto
sull’endecasillabo, ch’io chiamai potentissimo, mostrando le ragioni della sua
superiorità sull’alessandrino, la cui monotonia, cantilena e parallelismo mi
spiacevano. Mostrai la flessuosità del nostro endecasillabo, che, mediante la
posizione degli accenti, rispondeva a tutti i bisogni della melodia e
dell’armonia. Notai che, come le parole e le frasi, cosí i versi non vanno
considerati solo in se stessi, come buoni o cattivi, ma ancora e principalmente
per rispetto alle cose. Perciò la magnificenza è qualità relativa, e, a
pigliarla in senso assoluto, è cosa cosí biasimevole, come in prosa l’eleganza
ricercata e l’ornamento. Dissi che i principii generali dell’arte dello
scrivere intorno al modo di concepire, di situare e di esprimere gli oggetti,
sono i medesimi anche per la poesia. La differenza è nel fine e nella facoltà
motrice, la quale nella prosa è l’intelletto, e nella poesia è la fantasia.
Riserbando a uno speciale trattato questo studio, e tornando alla metrica,
dissi che tutti i metri sono parti e frammenti dell’endecasillabo, nel quale
spesso ci è la risonanza di questo o di quello, come del quinario, del
settenario, del decasillabo. La lettura dei versi prese per noi un nuovo
sapore. Facevo osservazioni piccanti e minute sul loro congegno e sui vari
effetti di melodia. Distinsi il verseggiatore dal poeta. Colui era un fabbro
piú o meno perito, non un artista. Venni alle rime e poi alle strofe, e feci
una breve storia del sonetto, della canzone, della terzina, dell’ottava e del
verso sciolto, secondo i tempi e secondo gli autori. Parlai della poesia
solenne e della poesia popolare. Mostrai che il cammino delle forme poetiche è
determinato dalla civiltà, e si va sempre verso la maggiore libertà di congegno
e verso la maggiore popolarità. A quel modo che la lingua, arricchendosi, va sempre
piú rompendo i suoi nativi confini, e si va sempre piú accostando alle forme
popolari del dialetto; a quello stesso modo la poesia produce con piú libertà
nelle sue forme, e si rinfresca e si rinsangua nell’immaginazione popolare.
Cercai gli esempi nella nostra storia, e spiegai cosí la preponderanza, negli
ultimi poeti, del verso sciolto, e la libertà nel gioco delle rime e delle
strofe.
Di queste lezioni qualche notizia giungeva al marchese,
travisata ed esagerata, come suole avvenire. Gli si diceva ch’io insegnava la
noncuranza, anzi il dispregio della regola e delle forme. Egli non mi fece
motto, ma vedevo sul suo volto una certa freddezza. Quello che non diceva lui,
dicevano i suoi discepoli, dei quali alcuni mi gridavano la croce addosso,
motteggiando me e la scuola. Alcuni miei discepoli, esagerando la dottrina del
maestro, e pigliando per Vangelo qualche parola uscitami nel calore della
lezione, andavano gridando che delle grammatiche e delle rettoriche bisognava
fare un bel falò. Questi vari rumori mi giunsero all’orecchio, e ne fui
sdegnato. Nuovo del mondo, inesperto delle passioncelle che muovono gli uomini,
mi meravigliava che le mie opinioni fossero riferite senza quella misura giusta
nella quale io mi tenevo. Non pensai di aprirmene col marchese; la mia natura
poco comunicativa, anzi restia, me lo impediva. Credulo nella sincerità degli
altri, pensai che la colpa dovesse esser mia, e che forse non m’ero spiegato
bene. Feci dunque un’ultima lezione, nella quale mi studiai di dare le piú precise
determinazioni alle mie idee. Dissi che lo studio delle cose e l’educazione
delle nostre forze intellettuali e morali sono il fondamento dell’arte; ma che
l’arte non si può esercitare senza istrumenti, e che le forme sono gli
strumenti dell’arte. Citai con lode il marchese, e dissi ch’egli soleva
chiamare le forme, “i ferri dei mestiere”. Le mie lezioni non erano state che
uno studio delle forme, e non dovevano menare al disprezzo di quelle.
Dizionari, grammatiche, rettoriche, poetiche non erano roba da gittare al
fuoco. Sole esse conducono alla pedanteria; ma lo studio delle cose,
scompagnato da esse, conduce alla barbarie. Quello solo rimane nei posteri che
riceve il suo suggello dalla forma. Paragonai le forme al culto, senza il quale
la religione rimane un fatto interiore, senza espressione. Dissi ch’era bene
studiare le forme con la penna in mano, notando i modi, i pensieri, i versi che
piú facevano impressione. “Notate anche, – dicevo, – i vostri pensieri e le
vostre osservazioni, giorno per giorno; sarà il giornale dei vostri studi, non
meno prezioso che il giornale della vita. Ciascun dí riandate la vostra
giornata, fate il vostro esame di coscienza; scrivete i fatti, i pensieri, i
sentimenti buoni e cattivi; siate confessori a voi stessi. Nessun uomo fa senza
del libro dei conti; oh come dee mancare il libro della scuola e il libro della
vita? Con l’uno imparerete a scrivere, con l’altro imparerete a vivere”.
Stetti alcuni dí, dicendo fra me: “Qualcuno dirà di
questa lezione al marchese”. E m’immaginavo già che mi venisse incontro con
quella sua faccia aperti, piena di bontà. Andai a lui e lo trovai muto e
freddo. Nessuno gliene aveva detto verbo. Curiosa questa natura umana!
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