Capitolo ventesimosesto
Vennero l’anno appresso alcuni altri bravi giovani:
Gabriello Balsamo, Ermenegildo Barci, Casimiro e Francesco De Rogatis,
Belfiore, i fratelli Finelli, Francesco Bax, Pasquale Villari, Domenico Müller
Ferdinando Vercillo. Erano passati alla scuola del marchese i giovani Filippo
De Blasio, Enrico Capozzi, Giuseppe Talamo, Matteo Vercilio. Tormentando la
memoria, non mi sovviene di alcun altro. La scuola era numerosissima. Già la
fama se ne spargeva per la città e per le province. In essa si era naturalmente
formata l’aristocrazia dell’ingegno. Per consenso tacito di tutti, i migliori
occupavano i banchi d’innanzi. Mi corse allora per la mente una reminiscenza
della scuola del Puoti, e volli consacrare quella distinzione ufficialmente,
volli anch’io gli Eletti. Il marchese gustò l’idea, perché ci vide come
un ritorno alle sue tradizioni. Vi fu una gran festa scolastica, ed egli venne
con tutti i suoi maggiorenti. Io pronunziai un discorso che non trovo piú fra
le mie carte. Il sugo era che la scuola è presentimento della società, che quei
primi banchi erano pronostico degli alti posti sociali a cui salgono i piú
degni, dei quali gli altri sono come il corteggio ed il coro. Potevo temere che
quella distinzione fosse principio d’invidia e di piccole gare; ma, schivo d’intrighi
e di raccomandazioni, feci la scelta con tale dirittura, che tutti la trovarono
giusta. Dicevano: “Cosí avremmo fatto noi”.
Quell’anno cominciarono le lezioni di letteratura. Nel
corso sullo stile e sulla rettorica avevo stabiliti i princípi generali dell’arte
dello scrivere. Qui venni ai cosí detti generi di letteratura, collegandoli con
quella parte della rettorica che si chiama invenzione. “I generi, – dissi, –
sono determinati non dalle forme, ma dal contenuto; anzi è il contenuto che
determina le forme, secondo la sua natura e la sua impressione sull’anima. La
stessa grande divisione di prosa e poesia non basta a determinare i generi,
perché lo stesso contenuto si esprime in poesia e in prosa, secondo le sue
impressioni nel tal tempo e nel tal luogo. Per esempio, il poema epico e la
storia appartengono allo stesso genere, quantunque l’uno sia poesia e l’altra
sia prosa. I generi e le loro forme hanno la loro origine e il loro andamento
nella storia dell’umanità, attraverso i secoli. Il linguaggio dell’immaginazione
e del sentimento precede il linguaggio della riflessione. Perciò la poesia
apparisce prima, e la prosa è invece il tardo frutto dell’intelletto venuto a
maturità”. Queste osservazioni parvero nuove, perché Giambattista Vico era piú
ammirato che studiato. Io per conclusione feci una lezione sulla Scienza
Nuova, che destò nei giovani il desiderio di quello studio, e parecchi
andarono a sentire le dotte lezioni di Enrico Amante sopra il Vico.
Il primo linguaggio dell’anima fu la lirica. E di qui
cominciai il mio corso. La distinsi, secondo il contenuto, in religiosa, eroica
ed amorosa. Toccai della lirica greca e romana, riserbando la trattazione a un
corso speciale. Mi fermai molto sulla lirica ebraica, esaminando in ispecie il
libro di Giobbe, il canto di Mosè dopo il passaggio del mar Rosso, i Salmi di
Davide, la Cantica di Salomone, i Canti dei profeti, specialmente
d’Isaia. Avevo sete di cose nuove, e quello studio era per me nuovissimo. Non
avevo letto mai la Bibbia, e i giovani neppure. Con quella indifferenza
mescolata di disprezzo, che allora si sentiva per le cose religiose, la Bibbia,
come parola di Dio, moveva il sarcasmo. Nella nostra immaginazione c’erano il
catechismo e le preghiere che ci sforzavano a recitare nelle Congregazioni, e
la Bibbia entrava nel nostro disgusto di tutti i sacri riti. Lessi non so dove
maraviglie di quel libro, come documento di alta eloquenza, e tirato
dall’argomento delle mie lezioni, gittai l’occhio sopra il Libro di Giobbe.
Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente comparabile
a quella grandezza. Portai le mie impressioni calde calde nella scuola. Avevo
già fatto una lezione sopra l’origine del male e il significato di quel libro,
e fu udita con molta attenzione. Ma quando lessi il libro tutto intero, la mia
emozione e la mia ammirazione guadagnarono tutti. Preso l’aíre, c’immergemmo in
quegli studi. Furono molto gustati la Cantica; un Salmo di
Davide, dove dalla contemplazione delle cose create si argomenta la potenza e
la grandezza del Creatore; e qualche Treno di Geremia. Era per noi come
un viaggio in terre ignote e lontane dai nostri usi. Con esagerazione di
neofiti, dimenticammo i nostri classici, fino Omero, e per parecchi mesi non si
udí altro che Bibbia. C’era non so che di solenne e di religioso nella nostra
impressione, che alzava gli animi. Chiamammo questo sentimento il divino, e
intendevamo sotto questa parola tutto ciò che di puro e di grande è nella
coscienza. Mi meraviglio come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante
cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il
sentimento religioso, ch’è lo stesso sentimento morale nel suo senso piú
elevato. Staccare l’uomo da sé, e disporlo al sacrificio per tutti gl’ideali
umani, la scienza, la libertà, la patria, questo è la morale, questo è la
religione, e questo è l'imitazione di Cristo. Le mie impressioni erano vivaci,
perché sincere, e partecipate da quella brava gioventú. Io non cercavo le frasi
per fare effetto e per eccitare applausi; essi se ne accorgevano, sapevano che
a me era piú grato il loro raccoglimento che il loro battimano. Volevo la
serietà delle impressioni. “Cosa mi fanno i vostri applausi, quando, usciti di
qua, non resta che un vaniloquio? No, la scuola dee essere la vita; e quella
lezione è bella, che vi avrà resi migliori”. La scuola era il riflesso della
mia anima, e rassomigliava piú a una chiesa che a un teatro.
Venendo alla lirica italiana, mostrai perché noi non
avevamo avuto lirica né religiosa né eroica. Questa lirica è voce di popolo
sotto forma individuale, come si può vedere nei canti biblici, dove il vero
cantore è il popolo ebreo, nel suo clima fisico e morale. Tale lirica è la voce
delle genti primitive, e si confonde con i tempi mitici ed epici. La lirica
italiana ha avuta la sua voce universale nella Divina Commedia, che
oltrepassa i confini d’Italia ed è il poema religioso del Medio Evo. Il
sentimento religioso ed eroico non ha avuto presso di noi un accento nazionale.
Ci sono delle cosí dette poesie sacre o eroiche, dove cerchi invano la
sincerità del sentimento, e spesso non sono che declamazioni, opere letterarie
e convenzionali, non voci della coscienza popolare. Non eccettuai la celebrata
canzone del Petrarca alla Vergine. A quel tempo correvano opinioni curiose
sopra molti nostri lirici. Si citava come modello di genere eroico una canzone
di Annibal Caro. Grande era l’ammirazione per le canzoni eroiche del Filicaja,
del Chiabrera, del Guidi, del Frugoni. La canzone del Guidi alla Fortuna era un
esempio di sublimità. Il Casa e il Costanzo erano lumi del Parnaso. Ma il
nostro gusto era divenuto cosí delicato, il nostro giudizio cosí sicuro, che
tutte queste divinità si liquefecero, e molti brani ammirati dagli altri
destavano in noi il riso, perché ci sentivamo sotto il vuoto e il gonfio. Certe
poesie facevano sdegno, come la canzone detta eroica di Annibal Caro, dove
l’adulazione si sentiva lontano un miglio. La lirica amorosa non era poi che un
sonnolento e artificioso petrarchismo. Ci fermammo dunque all’esame dei due
grandi maestri: Dante e Petrarca. Noi eravamo come certi ambiziosi, che sognano
re e imperatori, e abitano nei cieli, e sdegnano la bassa terra. Il mediocre e
il comune non ci attirava neppure per il piacere di dirne male. Non potendo cansarlo,
ci strisciavamo sopra con un “guarda e passa”. Miravamo alle stelle di prima
grandezza, disposti piú all’ammirazione che al biasimo. Certamente questa
inclinazione ci teneva alto l’intelletto e il sentimento, ma pur lasciava una
lacuna nello spirito. Non c’è niente di sí mediocre e piccolo, che non abbia il
suo valore nella connessione delle cause e degli effetti; non c’è libro cosí
volgare, dove non ci sia da imparare, e la storia dei sommi, scompagnati dal
corteo dei mediocri, è come concepire il re senza sudditi. Tutto sta che il
mediocre resti mediocre e non usurpi il luogo dei grandi: ciascuno al suo
posto. Mirando sí alto, a noi riusciva facile spogliare della propria porpora
molti re di cartone.
Le canzoni eroiche del Petrarca ci parvero roba letteraria.
C’era in lui il grande artista, non c’era l’uomo. Pure, nella sua canzone
all’Italia ammirammo la sincerità del sentimento giovanile. Venendo poi alla
lirica amorosa, uso com’ero a collaborare coi giovani, feci fare parecchie
ricerche sull’indole di quella lirica, indicando loro i libri da consultare. Fu
questo il tema di parecchi componimenti. Uno scrisse sul culto della donna, un
altro sul concetto dell’amore platonico, un terzo sopra Beatrice e sopra Laura.
Vi furono lavori di qualche importanza, e discussioni interessanti. Le lezioni
sulla lirica di Dante parvero una rivelazione. Conoscevamo la Divina
Commedia a menadito; ma quella lirica era nuova a me e a loro. Mi capitò un
esemplare muffito, macchiato e di caratteri antichi, che irritavano l’occhio.
Certi sonetti mi fecero venir le grinze al naso: “Che roba è questa?” Mi pareva
fra Guittone o fra Iacopone. Mi venne il sospetto d’interpolazioni o di
falsificazioni. Poi mi furono innanzi sonetti vivi e freschi, che parevano
scritti oggi: “Questa è poesia per tutti i secoli!” Feci notare che i sonetti
buoni avevano a base un fatto concreto e una situazione determinata, con
accordo di stile e di accento e di colore, e non vi comparivano le sottigliezze
e i luoghi comuni del secolo. La canzone della visione della morte di Beatrice,
e l’altra sulle tre suore destarono viva ammirazione, e parvero i monumenti piú
importanti della nostra lirica. M’è ancora presente il fremito di tutta la
scuola, quando dissi:
.... non sai novella?
Morta è la donna tua, ch’era sí bella;
e quando lessi:
.... Morte, assai dolce ti tegno:
Tu déi omai esser cosa gentile,
Poiché tu se’ nella mia donna stata.
Fu anche applaudito il
verso:
L’esilio che m’è dato, onor mi tegno.
La semplice lettura destava questi entusiasmi. Solevo
però prepararli, riempiendo le lacune della situazione, e notando le idee
accessorie, che fermentavano nel cervello del poeta, condensate in sintesi
gravide, solevo dire, piene di cose. Critica pericolosa; ma ci riuscivo, perché,
come un bravo attore, dimenticavo me nella situazione, e non vi aggiungevo
niente di mio. D’altra parte avevo fatto molto progresso nell’arte del leggere,
e ne avevo qualche obbligo a un tal Camilli, che teneva scuola di declamazione,
dove, imparando a recitare con verità e naturalezza, avevo corretto quel po’
d’enfasi stridente e piagnucolosa, che m’aveva appiccicato il Bidera. Ci
conferiva anche il gusto che mi si andava purificando, e quel mio viver dentro
nella lettura, sí che non mi sfuggivano le piú lievi gradazioni del pensiero o
del sentimento. L’intonazione era giusta, l’accento sincero, la voce
insinuante, fatta piú alla dolcezza che all’energia, non mai monotona. Dicevo
che le cose hanno ciascuna la sua voce, e quando qualcuno, leggendo, non aveva
la voce abbastanza flessibile e mutabile, mi veniva il mal di visceri, e non
sapevo infingermi. Me la prendevo coi maestri, che non sapevano leggere; e
dicevo che il modo di leggere mi mostrava il valore del giovane piú che
qualunque esame, ciò che sembra un paradosso, ed è verità. Quando ero chiamato
a qualche esame, solevo far leggere qualche periodo, e a dare il giudizio non
mi occorreva altro. Queste parranno puerilità; ma penso anche oggi cosí. In
Napoli pochissimi sanno ben leggere e ben pronunziare, e il fatto comincia nei
fanciulli, che imparano in modo cosí barbaro a compitare. Il marchese ci si
arrabbiava. L’importanza della buona pronunzia e delle letture pubbliche non è
ancora ben capita. La lettura che facevo io m’impressionava tanto, che mi si
ripercoteva nella memoria per piú d’un giorno, e i piú bei luoghi mi giravano
per il capo, e non mi volevano lasciare, e mi gettavano in dolci fantasie.
Parlando di Dante, toccai del suo amico Guido
Cavalcanti, e ci colpí non la vantata canzone sull’amore, ma le deliziose
strofe sulla forosetta, e ancora piú la canzone sulla Mandetta, dove sentivamo
il fremito d’una passione sincera, cosa rarissima nella nostra letteratura.
Sapevamo a mente molti sonetti e canzoni del Petrarca, e
appunto perché dimesticati con lui, ci fece poca impressione. Poi, il
petrarchismo, da noi tenuto a vile, noceva un poco al Petrarca, a quel modo che
l’abuso della religione non è senza cattivo effetto sul sentimento religioso.
Pure, io tenni molto a rialzare il concetto del Petrarca, e ciò feci a spese
de’ suoi imitatori. Notando che l’ispirazione del poeta era spesso letteraria,
come nelle stesse tre canzoni sorelle e in molti sonetti sulla bellezza di
Laura, trovai le orme d’una ispirazione sincera nella sua malinconia piena di
dolcezza e di grazia; piú che poeta, io lo chiamai un grande artista. I giovani
si misero a scernere il buono dal cattivo, e in queste ricerche e distinzioni
si affinava il nostro gusto. Feci anche una curiosa ricerca. Avvezzo a guardare
il di fuori nel di dentro, volli fare una storia del suo amore, cercando la
successione e la gradazione dei sentimenti, e trovando cosí un prima e un poi
in quelle poesie. Fu una volata d’ingegno, dalla quale uscirono una storia
intima del poeta e una classificazione delle poesie, secondo lo stato
dell’animo e la qualità dei sentimenti. Ciò piacque molto; ma piú tardi mi
parve un romanzo e non ci pensai piú. Venendo ai nostri tempi, toccato del
Parini e del Foscolo, mi fermai sopra il Manzoni e il Leopardi. Il Berchet non
era ancora giunto tra noi, e appena qualche sentore si aveva del Giusti: se ne
mormorava qualche strofa a bassa voce. Giudicai gl’Inni del Manzoni cosa
letteraria, eco piú del talento individuale che di un vivo e profondo
sentimento nazionale, stimando fittizio e superficiale quel sentimento
neo-cattolico, che allora faceva tanto strepito. Anche il Cinque maggio mi
parve opera letteraria, tale però, per vigore di concezione, per unità di
getto, per grandezza d’immagini e per forza di stile, che in questo genere si
poteva chiamare il piú grande monumento della nostra lirica. Ci feci sopra una
lezione che destò la piú viva impressione, e gli applausi mi suonano ancora
nella mente. Cari e bei giorni quelli, che non ho ritrovati piú.
Leopardi era il nostro beniamino. Avevo acceso di lui
tale ammirazione, che l’edizione dello Starita fu spacciata in pochi giorni.
Quasi non v’era dí che, per un verso o per l’altro, non si parlasse di lui. Si
recitavano i suoi Canti, tutti con uguale ammirazione; non c’era ancora
un gusto cosí squisito da fare distinzioni; e poi, ci sarebbe parsa una
irriverenza. Eravamo non critici, ma idolatri. Le canzoni patriottiche ci
parevano miracoli di genio, ci aggiungevamo i nostri sottintesi. Quelle Silvie
e quelle Nerine ci rapivano nei cieli, quel Canto del pastore errante ci
percoteva di stupore. Una sola poesia non fu potuta digerire; né io né alcuno
la potemmo leggere dall’un capo all’altro: I Paralipomeni. Anche la Batracomiomachia
ci pesava. Vennero molti di fuori a sentire le mie lezioni sopra Leopardi, nome
popolare in Napoli. Io lo chiamai il primo poeta d’Italia dopo Dante. Trovavo
in lui una profondità di concepire e una verità di sentimento, di cui troppo
scarso vestigio è nei nostri poeti. Lo giudicai voce del secolo piú che interprete
del sentimento nazionale, una di quelle voci eterne che segnano a grandi
intervalli la storia dei mondo. Esaminando il suo concetto, m’incontrai con
Byron, che fece trionfale ingresso nella scuola, argomento prediletto di molti
lavori. In quell’onda d’inganni e di disinganni, di aspirazioni e di
disperazioni, cercai un capo saldo che mi desse il filo; e ne venne un ordine
delle poesie, secondo le gradazioni dei suo concetto. Vedevo il suo pensiero
svolgersi, a poco a poco, sino alla negazione universale, e anche in quello, a
poco a poco, volli ficcare il naso, determinando le gradazioni e i passaggi.
In quel tempo la reazione contro l’idolatria delle forme
conduceva all’idolatria del concetto, tenuto come criterio principale e quasi
unico del valore di un’opera artistica. Si disputava se il concetto era buono o
cattivo, volgare o nobile, vero o falso. Queste dispute sorgevano anche intorno
al Leopardi. Io sostenni che il concetto non esiste in arte, non nella natura e
non nella storia. Il poeta opera inconsciamente, e non vede il concetto, ma la
forma, nella quale è involto e quasi perduto. Se il filosofo, per via di
astrazioni, può cavarlo di là e contemplarlo nella sua purezza, questo processo
è proprio il contrario di quello che fanno l’arte, la natura e la storia. Si
può della storia, della natura e dell’arte fare una filosofia, ma è un lavoro
ulteriore del pensiero su quelle produzioni spontanee. Perciò distinsi la forma
dalle forme, e chiamai forma, non il concetto, ma la concezione, che è come l’embrione
generato nella fantasia poetica. In questa produzione il poeta non sa quello
che fa, appunto come la natura. I poeti primitivi sono assolutamente
incoscienti, sono espressione spontanea e immediata di tempi tutto senso e
immaginazione. Nei nostri tempi il critico e il filosofo coesistono nella
mente, accanto al poeta: onde nasce una poesia riflessa. L’intelletto come
tarlo penetra nella fantasia; ma nei grandi poeti la fantasia sommerge e sperde
in sé il concetto, e lo profonda in modo nella forma, che solo piú tardi
un’acuta riflessione può ritrovarlo. Anche oggi si disputa quale sia il
concetto della Beatrice e della Margherita, il che dimostra l’eccellenza di
quelle concezioni. Leopardi ha dovuto conquistarsi lui il suo concetto, e si
vede il lavorío della mente dalle sue fluttuazioni. Ma quel concetto diventò
sua passione e sua immagine, e qui è l’eccellenza della sua poesia. Il suo
concetto è una faccia del secolo decimottavo e decimonono, lui incosciente, che
lo attinse nella vigoria e originalità del suo pensiero. Ma è poeta, perché
quel concetto è lui, è la sua carne e il suo sangue, il suo tiranno e il suo
carnefice, ed è insieme il germe che, fecondato nella fantasia, genera le piú
amabili creature poetiche. Le sue piú belle poesie sono quelle in cui la forma
è vera persona poetica, di modo che il concetto vi apparisce come immedesimato
ed obbliato nell’individuo, con appena un barlume della coscienza di sé. Cosí è
nell’Infinito, nella Saffo, nel Bruto, nella Silvia,
nella Nerina, nel Consalvo, nell’ Aspasia. Quando il
concetto non sia persona poetica, è necessario che sia almeno non una
intellezione, ma uno stato appassionato dell’anima, o una visione della
fantasia, com’è nei Salmi e nelle Profezie e negli Inni, e come nel canto Alla
luna, in Amore e morte, nel Pensiero dominante. Al contrario,
malgrado i fulmini di Pietro Giordani, tenni poesia mediocre La ginestra,
dove la base poetica è occasionale, il concetto rimane nella sua astrattezza
filosofica, e si esprime per via di argomentazioni e di ragionamenti. Dissi
che, appunto presso al nostro vulcano, s’era spento quel vulcano poetico.
Questa teoria della concezione, della fantasia, della situazione e della
persona poetica; quest’obblio del concetto nella forma; questa incoscienza e spontaneità
dell’artista fecero grande impressione, e sono rimasti sempre il capo saldo
della mia critica. Accompagnavo le teorie con frequenti letture di quelle
poesie, dove avevo modo di scendere nei piú fini particolari della composizione
e dello stile.
Coronammo quelle lezioni con un pio pellegrinaggio alla
tomba di Giacomo Leopardi. Divisi in piccoli gruppi, ci demmo la posta al di là
della Grotta di Pozzuoli. Quei paesani ci guardavano con gli occhi grandi, e ci
presero forse per una processione di devoti, che andavano in chiesa a
sciogliere non so qual voto. Noi ci fermammo con religioso raccoglimento
innanzi alla lapide, sulla quale è l’iscrizione di Antonio Ranieri, nome caro a
noi, perché caro a Giacomo Leopardi.
Intanto in casa continuava la baldoria. Costretto a non
interrotta meditazione per la novità delle mie lezioni, che mi tiravano il
miglior sugo dal cervello, perché non aveva tempo né voglia di leggere, né
libri adatti, e spesso tutto veniva da un’accanita riflessione in me stesso,
lasciavo dietro di me i rumori di casa, e me ne andavo tutto solo a
fantasticare per Capodimonte o per altri luoghi lontani, gesticolando, vagando
talora con gli occhi distratti, e ripigliando poi il filo col mio solito:
“Dunque, allons, pensiamo alla lezione”. Quei buontemponi ch’erano
attorno al greco, ne inventavano delle belle. Venne loro il ticchio d’imparare
il ballo. Si fece una compagnia d’amici, e due volte la settimana era un
diavoleto. Il bello e che vollero tirare anche me in quel gioco turbolento, e
io mi ci acconciai di buona grazia, ricordando le lezioni del maestro Cinque.
Non sapevo piú là del walzer tedesco; le chiamate della contraddanza
poco mi volevano stare in mente. Non era ancora di moda la polka, ma
c’era il walzer saltante e non so quali altre novità, e io con tutti
quei sopraccapi ci metteva poco studio. Poi ero tutto d’un pezzo, come diceva
il marchese, e non ci avevo grazia. Aggiungi una cert’aria professeur,
come diceva il greco, l’aria del mestiere, che ti sale sulla faccia. I motteggi
m’impacciavano di piú.
Si danzava quasi sempre nel gran salone, che qui
chiamano galleria, sotto a cui stavano due stanze da letto di un
commissario di polizia. A quel chiasso questi s’inalberò, e volle intimidirmi, abusando
del suo ufficio. Io non sapevo nulla dei fatti suoi, anzi neppure chi abitasse
in quella casa, sprofondato nelle mie lezioni. Un dí venne un feroce,
come chiamavano la bassa gente di polizia, e m’invitò a recarmi presso
l’ufficio. Era la prima volta che mi succedeva questo. La polizia era per me un
nome scuro e pauroso, ma non altro che un nome; non ci avevo avuto mai che
fare. Ci andai con la faccia scura: “Che sarà?” Trovai lí un signore grosso e
tondo, che fece una brutta cera, e mi scaraventò certe parole grasse alla
napoletana. Io restai grullo. Quando la tempesta finí, e mi fece capire cosa
c’era sotto, io, sicuro del mio diritto, e poco pratico del mondo, risposi
secco che in casa mia ero io il padrone, e potevo ballare a mia posta. L’amico,
rauco per lo sforzo della voce e per la rabbia, balbettò che mi avrebbe
insegnato lui l’educazione. Voltai le spalle e andai via sbuffando. Narrai il
caso, e la compagnia si mise a far peggio, quasi a dispetto. Allora mi sentii
chiamare in ufficio per “esibire il permesso della scuola”. Questo mi
impensierí. Io non avevo laurea né permesso, ero nel caso di quasi tutti i
maestri, non perché la legge non ci fosse, ma per una cert’abitudine di
tolleranza, che lasciava correre le cose. Capii onde veniva il tiro: quel
signore lí non mi avrebbe lasciato piú quieto. Avrei potuto accopparlo, perché
il prefetto di polizia aveva non so quale parentela con la famiglia Amante, a
me affezionata, e poi c’era il marchese. I ballerini mi aizzavano, e qualche
brutta idea di vendetta mi tentò un momento; ma la mia natura mite rifuggiva
dalle soverchierie, e cercai un altro modo. Me ne aprii con un tale Albanesi,
che faceva gli affari del mio padrone di casa. Costui sorrise del mio imbarazzo
e della mia inesperienza, e disse che lasciassi fare a lui, e stessi
tranquillo, che del permesso non si sarebbe parlato piú. Poi in tuono paterno
aggiunse: “Ballate pure, ma in ogni cosa c’è modo”. Non so che via tenne.
L’effetto fu che quel signore, una volta che scendevo, si fe’ trovare sull’uscio
di casa, e mi tese la mano, e mi si profferse, dichiarandosi mio buon vicino,
stimandomi un giovane dabbene, di cui aveva inteso a far molta lode. Io
interrompeva e cercavo di venire al quatenus; ma lui fece un gesto con
la mano, come volesse dire: “Al passato non ci si pensa piú”. La parte d’uomo
di spirito la fece lui, io feci la parte goffa. Il signor Albanesi non mi disse
niente; io capii che se la intesero fra loro.
Intanto in fin di mese non mi trovavo mai bene a
quattrini. Guadagnavo allora quanto non ho mai guadagnato in mia vita. Quei
cinquanta ducati mi parevano inesauribili, ma pure quei danari del greco si
liquefacevano come neve. S’erano introdotti in casa un disordine e una
dissipazione a cui non vedevo fine. Mi credevo ricco, e mi trovai povero:
maledissi il greco e i cinquanta ducati. Quei chiassi mi davano il capogiro;
quel disordine mi stomacava; quella vita non era la mia, e ci stavo per forza.
Pensai a ridurre le spese. Soppressi quel bicchiere di malaga che coronava il
pranzo, una cattiva malaga che mi pareva sciroppo e mi facevano pagar salata.
Il greco mi fece un ghigno, che mi saettò. Pensai che potesse recarlo a
meschinità d’animo, e rallentai il freno. In quella baraonda montò la testa
anche a me, e, chi il credería?, tornai ad Agnese. Colsi il pretesto che sua
mamma venisse a lavarmi il bucato. Era imbruttita, con aria stanca di malata.
Quel riso leggero non le veniva piú. Cercammo rianimarci l’uno e l’altra, ma la
parola usciva fredda. E non la vidi piú. Verso la fine dell’anno, il fratello
del greco mi scrisse una curiosa lettera, nella quale c’era qualche frase
allusiva alla somma “enorme” dei cinquanta ducati. Quella parola “enorme” mi
ferí, perché l’avevo trovata in bocca al greco, insinuatagli dai suoi compagni.
E feci una risposta risentita, indicando la spesa che mi costava il greco. Mi
portai da fanciullo, e ne venne un pettegolezzo. La fine fu buona: il greco
andò via, e abitò in casa del fratello ch’era venuto in Napoli. Ci separammo
con segni di cordiale amicizia: che infine quel povero diavolo non aveva altro
torto che d’essere un capo scarico, ed era buono d’indole e di cuore, e si
faceva voler bene da tutti. Cosí, finiti quei cinquanta ducati tentatori, mi
sentii piú ricco. Rimaneva don Raffaele, che mi si era insediato in casa e
spadroneggiava. Glielo feci capir bel bello; non se l’ebbe a male e rimanemmo
amici.
Cominciai pure a essere un po’ restío agl’imprestiti.
Pareva che la borsa mia non fosse mia: ciascuno vi attingeva sotto nome
d’imprestito. Quando incontravo qualcuno, quegli mi sfuggiva come un creditore.
Mutai la servitú, ch’era gran parte di quella dissipazione, visto pure che
molti oggetti sparivano di casa a vista d’occhio.
Cosí misi un po’ d’ordine in casa, e potei con cuore
tranquillo passar le vacanze sull’Arenella, in una villetta. Venivano a
visitarmi i miei giovani, e passavano con me la giornata, e tanto per non
perder l’uso, facevo lezioni alla peripatetica, per il Vomero e per Antignano.
La sera mi recavo a una villa vicina, dove si faceva tavola da gioco. Venivano
parecchi amici da Napoli e si formava una compagnia scelta e allegra. Là rividi
il Pisanelli, mio antico compagno nella scuola del marchese, e già innanzi
nella carriera forense. Era un bel giovane, persona alta e svelta, volto pallido,
pieno di distinzione, con occhi languidi, dolcissimo di favella e di modi.
Faceva crocchio intorno a sé e, come si direbbe oggi, posava. Gli occhi delle
signorine erano sopra di lui. Vestiva con eleganza, profumato, con la chioma
ben pettinata. Io lo guardavo incantato. Uso a stare cosí alla buona e alla
naturale, semplice di parola e di modi, mi sentivo piccolo dirimpetto a lui; mi
pareva una divinità, ma, come dissi poi ai giovani col mio linguaggio
scolastico, un tipo di eleganza un po’ manierata. Si fece un po’ di
conversazione. Tra quella gente lambiccata io ero una figura insignificante,
stavo tra la folla, non facevo spicco e nessuno mi badava.
Poco fatto alla conversazione, sgraziato e confuso in
tutti quegli usi convenzionali di una società elegante, stavo piú volentieri a
guardare le vicende del gioco, senza capirci un ette. Conoscevo un po’ la scopa
e lo scopone; ma non capii mai il mercante, che si giocava in
casa dello zio, e tanto meno il mediatore e la calabresella, che
non avevo visto mai. Pure, a forza di guardare, ci capii un poco. Una sera si
giocava il mediatore, e mancava il quarto. Pisanelli mi fece ressa,
perché il quarto foss’io, e per cortesia presi posto. Gioca e gioca, perdevo sempre,
il piattino era tutto pieno. “Che bella cosa una sola ora!”; disse
Pisanelli, guardando il piattino. “Sola!”, gridai io, e Pisanelli gettò
gli occhi sulle carte. “Sola!, temerario”, notò lui, con quella sua aria
di maestro che m’imponeva. Io non potei tirarmi indietro, ancorché tutti
dicessero: “Riflettete!” Il mio amor proprio m’incapricciava. Si fece un gran
cerchio intorno a me. Avevo molte carte simili; ma mi mancava il due, e, se
questo non cadeva, l’era finita. Io gitto il tre, e il cuore mi diceva: “Non
cadrà il due”. Ma ecco, il due cade, e io gitto le carte col riso trionfale
d’un imperatore che ha vinto la battaglia. Ci fu un urlo, batterono le mani, e
io mi misi in tasca non so quanti carlini, una cosa straordinaria. E come sono
piccoli gli uomini! Quella scena mi è rimasta impressa, e per piú tempo sono
andato raccontando il caso bizzarro a questo e a quello, e anche oggi m’è
venuto in mente.
|