Capitolo ventesimosettimo
Anche quest’anno il marchese veniva tutti i mercoledí
per la traduzione; talora anche il sabato, destinato all’esame dei
componimenti. Parecchi giovani erano molto innanzi per purità e castigatezza di
scrivere, e la loro traduzione era scelta per lo piú come la migliore, sulla
quale il marchese faceva poi la sua correzione. Tra questi puri scrittori, che
egli aveva in maggior conto, erano Vincenzo Siniscalchi, Francesco Corabi e
Agostino Magliani. Il marchese teneva ancora la sua scuola di perfezionamento,
ma nella sola domenica. Ci andavano alcuni giovani miei, come Bruto
Fabbricatore, Matteo Vercillo, Alessandro Parlati, venuti a me fin dal primo
anno, anche Siniscalchi, e credo pure De Meis. Di questi, Fabbricatore lasciò
la mia scuola, venne nella buona grazia del marchese, e gli rimase accanto,
assistendolo in tutti i suoi lavori. Era giovane laborioso, pratico della
lingua, e per la natura della sua mente poco atto ad altro indirizzo. Stava
strettamente alle opinioni del marchese, ed era il suo piú fido interprete
presso i giovani.
Anche don Francesco, che seppi essere il barone Corvo,
assisteva alle mie lezioni, primo a venire, ultimo ad andar via. Aveva preso
molta dimestichezza coi giovani, e stava in mezzo a loro, come papà. La sua modestia
e il suo riserbo gli mantenevano riverenza, e non ricordo che alcuno abbia mai
abusato di quella familiarità. La disciplina si rallenta quando il movimento
intellettuale stagna e l’attenzione non è tenuta viva da cose interessanti.
Ora, nella scuola non c’erano parentesi, non digressioni; anche parlando a uno,
dicevo cose che tutti avevano interesse a sapere, e perché non solevo ripetermi
mai, c’era del nuovo che tenea desta la curiosità. Una, sera, cominciata già la
lezione, entrava Ferdinando Vercillo. Era un giovane elegante, guantato,
ricercato nel vestire, e portava un cappello a punta allora in moda, e certi
scarpini rumorosi. Fu accolto dai giovani con un suono che voleva dir “zitto!”,
e che a me parve un sibilo. Questo mi turbò assai. Feci vive lagnanze, dicendo
con voce commossa che l’era un fatto grave, senza esempio nella mia scuola.
Nessuno fiatò. E io, eccitato dalle mie stesse parole, lasciai lí la lezione e
non volli continuare, congedai tutti bruscamente. Se ne andarono mogi, in silenzio.
Dopo mi fu spiegato il caso, e ripigliai le lezioni. Questa era la disciplina
della scuola.
E avvenne un altro scandalo, come io chiamavo queste
cose. Capitò un abate su’ trent’anni, di cui non faccio il nome. Uscito dalla
scuola dei Gesuiti, egli veniva pettoruto, con l’aria di volerci inghiottire
tutti. E tutti gli fummo addosso, al primo suo lavoro. Declamava certa
orazione, in tre punti, col relativo esordio ed epilogo, con le solite
amplificazioni, fermandosi dopo certi periodoni, che gli parevano magnifici e
di molto effetto, tutto pavoneggiandosi; e piú prendeva il tuono solenne e piú
ci metteva d’enfasi, e tanto piú erano romorose le risa. L’abate, vedendosi
sberteggiato, ricalcitrava, tutto rosso dalla stizza, e piú s’incolleriva lui,
e piú si rallegravano gli altri. Io feci il volto grave, e domandai ad uno dei
piú allegri il suo giudizio. Ma l’abate l’interrompeva con certe mosse di
stupore: “Come! Ma lei non sa che questa è una regola rettorica! Questa è una
ipotiposi. Ma questo nel linguaggio di chi studia si chiama un’amplificazione”.
E sghignazzava e si dondolava, facendo: ah! ah!, come per affogare le risate
nel riso suo. Lo spettacolo era nuovo e voleva una correzione. Feci d’occhio a
Francesco Corabi lí in prima fila, ch’era stato serio e prendeva delle note.
Costui era un ingegno secco di stretta logica e di analisi fine, acuto come un
coltello e stringente come una tenaglia. Ghermí il povero abate e ne fece un
cencio. Ben tentava qualche interruzione, ma lui non gli dava il tempo, e lo incalzava,
e in breve il ritroso abate si vide tirato a tale altezza, che gli mancò l’aria
e gli cascò il capo tra le mani. Io usai parole dolci per consolarlo e fargli
animo. L’abate presuntuoso si fece piccino piccino, e come in fondo era un
brav’omo, divenne un buon compagno e un buono scolaro, e se non fece miracoli,
imparò almeno a scrivere naturalmente.
La scuola era venuta a quel punto che Proudhon
chiamerebbe anarchia. Era una piccola società abbandonata a se stessa, senza
regolamenti, senza disciplina, senza autorità di comando, mossa dal sentimento
del dovere, da stima e da rispetto reciproco, da quello ch’io chiamavo
sentimento di dignità personale. Ci eravamo educati insieme. Io avevo per quei
giovani un culto, sentivo con desiderio le loro osservazioni e i loro pareri,
studiavo le loro impressioni. Godevo tanto a vedermeli intorno con quei gesti
vivaci, con quelle facce soddisfatte! Essi guardavano in me il loro amico e il
loro coetaneo, e mi amavano perché sentivano di essere amati. Io avevo il loro
entusiasmo giovanile, i loro ideali, e, se in loro c’era una parte del mio
cervello, da loro veniva a me una fresc’aura di vita e d’ispirazione. Senza di
loro mi sentivo nel buio, essi erano lo sprone che mi teneva vivo l’intelletto
e lo riempiva di luce. Scrissi nell’album di una signora: “Desiderando di
piacere a qualcuno, tu piaci a te stesso e ti senti felice”. Patria, libertà,
umanità, tutti i piú alti ideali che mi brillavano innanzi, si compendiavano in
quest’uno: piacere alla scuola; e lí erano la mia espansione, la mia felicità.
Quante volte anche oggi rimemoro quei giorni, e dico: “Com’ero felice allora!”
C’è nei giovani un sicuro istinto che li avvisa di tutto ciò ch’è nobile e
sincero; ed è vero che i migliori giudici del maestro sono i discepoli, sono
come il popolo, voce di Dio, giudice inappellabile di quelli che lo governano.
Il loro affetto era cosí delicato che, quando avveniva qualche sconcio,
dicevano: “Non lo facciamo sapere al professore”. Pure c’era un’ombra. Non mi
credevano capace di favori, di protezioni indebite; ma cosa volete? quegli Eletti
lí, per grazia mia, turbavano alcuni; un po’ di gelosia, un po’ di vanità e
debolezza umana: quella distinzione per ordine, quel carattere ufficiale, come
dicevano, non andava a garbo. La gerarchia dell’ingegno c’era, non la potevano
disconoscere; ma tant’è, volevano riconoscerla loro, non ammettevano una
gerarchia a priori, quasi per diritto divino, come diceva Luigi La
Vista. Il quale un giorno saltò a dirmi: “Professore, sbarazzateci; questo nome
di Eletti non ci va; vogliamo tutti lo stesso nome!” Cosí, dopo appena
un anno, venne a noia una istituzione tanto nel suo principio magnificata. Io
con buona grazia feci cader l’uso, e non si parlò piú di Eletti. “Ed
eccoci in piena democrazia, tutti uguali”, diceva Lavista, ch’era l’idolo della
scuola.
Io dimagravo a vista d’occhio; talora mi vagava il
cervello, cercando con gli occhi qua e là, senza uno scopo chiaro e
consapevole. Quello star solo e concentrato nella scuola, lontano da ogni umana
compagnia, aveva la sua parte in quegli accessi di umor nero, di mala
contentezza. Gli amici mi vollero ammogliare. Usavo da un pezzo in casa
dell’avvocato Tommaso J., uno stecco d’uomo, che passava tutto il giorno in
tribunale a far liti, il piú spesso per conto proprio. Passava per uomo ricco,
ma viveva con modestia e quasi con trascuratezza. Abitava in una casa che si
credeva sua: poche stanze antiche, sdrucite dal tempo e dall’incuria. Noi altri
non ci si guardava per il sottile; io distinguevo poco una stanza dall’altra,
come poco una vivanda dall’altra: avevo altro pel capo. Figlia di don Tommaso
era Caterina, cresciuta cosí alla grossa e alla buona, un po’ saputella, con un
cervellino sottile e acuto, sullo stampo paterno. Fatta grandina, dicevano che
era tutta suo padre, perciò un po’ bruttina. Stavo lí come un amico di
famiglia, e sentivo le grandi lodi di mamma per la figlia, e cercavo di scappar
via quando sopravveniva il babbo, che m’empiva la testa di chiacchiere,
parlandomi delle sue possessioni e delle liti, e non mi lasciava piú,
capacissimo di prendermi sotto il braccio, e volermi per forza accompagnare
sino a casa, per farmi la storia d’un processo e recitarmi la sua orazione. Io
sentivo di ciò una fiera noia, ma sapeva contenermi, e lui, immerso nelle sue
cause, non se ne accorgeva. Venne terzo fra noi don Raffaele, che m’investiva
sempre col suo: “Allegramente!” Poi s’aggiunse il babbo, che veniva a Napoli di
frequente, e conosceva don Tommaso, e s’intrometteva tra’ discorsi, e, faceto,
impaziente, gli rompeva la parola. Cosí trovai un diversivo, e talora mi
scaricava di don Tommaso, e lo regalavo a loro. Avevo preso dimestichezza con
la Caterina, senza intenzione, e talora si disputava di storia greca e romana,
dove lei era una dottora. La mamma rompeva le dispute con un motto d’elogio
alla figlia, istruita con molta cura e con grande affetto, e pur facendo
intendere che a lei, figlia unica, sarebbe spettato un ricco patrimonio. Quando
io venivo in malinconia, gli amici dicevano scherzando: “C’è il mal di cuore,
il mal della Caterina”. Cosí, parlando del mio amore, finii col crederci
anch’io, e mi trovai innamorato senza saperlo.
Don Tommaso stese sopra un gran foglio di carta
avvocatessa una lista delle sue possessioni, che non finiva mai. Ne aveva in
Atripalda, ne aveva in Montesarchio, ne aveva, anche in Napoli. Parlava come
Carlo quinto. Sovente tirava il discorso sopra i suoi feudi. E una sera mi
messe sotto il naso quella sua carta, credendo di abbarbagliarmi. Mi
accompagnò, secondo il solito, e tirandomi sotto il braccio, mi narrò non so
qual causa strepitosa, e sull’uscio di casa mi consegnò quella famosa carta. Vi
gittai l’occhio sopra. Era un carattere impossibile; ma, uso a deciferare tutti
i geroglifici dei miei scolari, non mi atterrii. Quel numeri, uno, due, tre, e
via via fino a cinquanta o sessanta, mi davano il capogiro: era la lista dei
suoi possedimenti. A un certo punto mi seccai, e non andai oltre. Non sono
stato mai atto a leggere tutto un istrumento o un regolamento. Leggo con
piacere dov’è una serie d’idee che si muovono. La mia natura abborre dai
dettagli, salvo che non mi ci ficchi io, e non ci metta il mio cervello; allora
mi ci delizio e divento minuto, anche troppo. Quella infilata di titoli, di
censi, di rendite, di fitti non mi entrava, non ci capivo nulla. Pure, una cosa
m’era rimasta, che don Tommaso avea molti feudi, e ch’io sarei divenuto un gran
proprietario. Non so quale influsso magico ha sullo spirito questa parola
“proprietario”. In provincia un contadino si farebbe tagliare il naso anzi che
cedere un pezzo di terra: “il danaro se ne va, la terra resta”. E quando hanno
danari, li seppelliscono sotto terra, come per impedire la loro fuga. Sono
ancora in un’età primitiva: le banche, le cambiali, il credito sono diavolerie
ch’essi scongiurano con un segno di croce. Io era rimasto un po’ contadino per
questo rispetto: i miei danari volavano, non sapevo come, e ci avevo fatto il
callo, sicuro che venivano gli altri. Il mio sogno era: una casa mia, con un
bel giardino; e, quando giravo per le alture di Napoli, e qualche villetta mi
fermava, cadevo in fantasia e dicevo: “Oh fosse mia! Stare qui tra questi
fiori, studiare sotto quelle ombre! Diventerei poeta”. Figurarsi qual fascino
aveva quella carta sulla mia immaginazione! E corsi al marchese Puoti, e gliela
porsi. Quell’eccellente uomo, che mi teneva come suo figliuolo, disse: “Adagio!
Fosse una canzone, ce ne intenderemmo tu ed io; ma è roba d’avvocati, e
potrebb’essere una canzonatura, e saremmo canzonati tu ed io”. Si tenne la
carta e chiese consiglio a suo fratello Giammaria, che teneva uno dei piú alti
posti in magistratura, uomo proverbiale per rettitudine e puntualità nel suo
uffizio, e, come noi si diceva allora, uomo all’antica, di cui si va perdendo
lo stampo. Dopo alcuni giorni mi chiamò a sé, e disse: “Sentite, don Francesco,
non so se vi farà piacere o vi spiacerà, ma la verità è una, e come uomo di
coscienza ve la debbo dire. Tutte queste possessioni sono come i castelli di
Spagna, che talora ci vengono in sogno. Qualcosa c’è in questa carta, ma niente
è liquido, niente corre liscio; qui c’è un semenzaio di liti perpetue, che non
ne vedranno la fine i figli dei figli, come dice il vostro Tasso. Don Tommaso
ci gavazza dentro e ci s’imbrodola, perché nato fra le liti, e ci ha un gusto
matto. Ma voi, caro don Francesco, col vostro Tasso e col vostro Dante, cosa
vorrete farne di tutta questa roba litigiosa? Finirete che gli avvocati si
mangeranno tutto e vorranno il resto. Dunque lasciate stare, non è cosa per
voi”. Io rimasi come chi si sveglia da un bel sogno e si trova a bocca
asciutta. Lui vedendomi cosí sospeso, disse, restituendomi la carta: “Se poi
amate quella creatura, l’è un altro affare; ma non c’entro piú io. Però, se il
vostro cuore dice di si, meglio pigliarla sola, che in compagnia di tutte
queste liti”. Mi strinse la mano con un sorriso pieno di bonomia, e mi congedò.
Me ne andai solo e correndo, com’era mio uso, con la
testa in tumulto. Don Tommaso e la Caterina m’incalzavano nel cervello, e dall’altro
lato c’era la lezione che cercava pure il suo posto. Feci un grande sforzo, ché
dovevo parlare del poema epico, e già mi frullavano alcune idee fin dal
mattino. Tentai ripigliare le fila, ma il matrimonio, le possessioni, don
Tommaso me le guastavano, e per quel dí caddi in preda ai fantasmi, e non
conclusi nulla di nulla. La sera fui dalla Caterina per abito preso, e non
fiatai della cosa; ma sulla faccia si leggeva il maledetto imbroglio ch’era nel
mio spirito. Capitò all’ultim’ora don Tommaso, e al solito volle accompagnarmi.
L’acuto sguardo della mamma notò la freddezza del mio addio alla Caterina, e
disse: “Qualcosa qui c’è sotto; non me la dai a intendere”. “Niente, niente”,
diss’io, piú confuso e piú rosso a quelle parole. Don Tommaso, assorto nelle
sue liti, non s’era addato di nulla, e cominciava la sua solita litania; ma io
mi sciolsi dal suo braccio, e dissi: “Don Tommaso, questa è la vostra carta”.
Aveva le braccia lunghe, giocava spesso co’ gomiti, e mi dié una gomitata,
dicendo: “Eh! eh! cosa ti pare?” “Mi pare, – diss’io, facendo animo, – che
dentro a questa carta c’è un semenzaio di liti”. “Semenzaio! – disse lui che
non capiva la parola, – cosa vuoi dire?” “Voglio dire che delle vostre liti
vedranno il termine i figli dei figli”. “Andate a fare con un maestro di
scuola! – disse lui con dispetto. – La lite è cosa ottima, perché guadagnando
hai il cento per cento”. E qui s’incaloriva, e contava le sue cause vinte, e si
prometteva grandi guadagni e vicina conclusione. Io non risposi piú. Andai
ancora un pezzo in quella casa; non volevo si dicesse che per quistione di
quattrini la lasciava; ma, non sapendo dissimulare, guardavo brusco e storto
don Tommaso che m’era parso un paglietta imbroglione, come dicono
a Napoli. Lui ne fece qualche motto in famiglia; la mamma si inalberò e usci in
parole grosse; nacque un pettegolezzo, e tutto finí. Io volevo bene alla
Caterina, ma non era di quell’amore che ti trascina; e poi in quell’età avevo
innanzi tanti belli ideali, e gli occhi erano vaganti e distratti. Il
matrimonio era per me una velleità, un verme messomi nel cervello dagli amici;
l’anima restava al di fuori, e, per dirla con frase moderna, non era giunto
ancora per me il momento psicologico del matrimonio. Ripensandoci ora, veggo
che fui ingiusto col povero don Tommaso, ch’era in perfetta buona fede,
tagliato cosí da natura, che viveva sazio e rubicondo tra le liti, e faceva
illusione a sé e agli altri.
Intanto la scuola sentiva già gli effetti della nuova
atmosfera letteraria che vi era penetrata. Quantunque nelle mie letture
entrassero sempre trecentisti e cinquecentisti, e scegliessi con accuratezza
quei luoghi che piú mi parevano dover dare nel genio e fare effetto; pure quei
secoli non solleticavano piú, e la gioventú si gittava con ardore sulla moderna
letteratura. Cercavamo ancora qualche vecchio autore, ma di quelli poco soliti
a leggersi, e che davano occasione a ricerche interessanti. Cosí ci fu uno
studio sopra gli scrittori politici, e un altro su’ nostri comici e novellieri.
Io davo questi temi letterari, perché occasione a letture e ricerche
profittevoli. Avendo terminato il mio corso sulla lirica con un’appendice
intorno alla satira italiana, seguí uno studio animato dei nostri satirici,
specie dell’Ariosto, andando su fino ai Sermoni del Gozzi e alle Satire
dell’Alfieri: il suo Misogallo fu divorato, molti brani si sapevano
a mente. Io poi cercavo sempre qualche lettura nuova, che fosse un solletico
alla curiosità. Una sera lessi la lettera che sta innanzi ai Discorsi del
Machiavelli, la quale aveva pieno me d’ammirazione, e destò in loro entusiasmo.
Pareva come un bel gioiello scavato di sotterra, e di cui nessuno aveva inteso
a parlare. Cominciò la moda del Machiavelli: si disputava intorno ai Discorsi,
intorno al Principe. Queste letture, coordinate con letture mie e con
mie lezioni, avevano i loro effetti nei lavori. Io abborriva dai metodi
meccanici e dai sistemi; quelle regole fisse sul prima e sul poi non mi
andavano; lasciavo molto alla spontaneità dei giovani, e nelle mie letture di
scuola facevo di gran salti. Volevo svegliare in essi l’iniziativa, la fede nel
loro criterio. Gli autori erano tutti di buona lega, ed il marchese, ancorché
non ci fosse l’ordine da lui prefisso, lasciava correre. Non ammetteva l’Ossian
di Cesarotti, e non le Notti romane e non il Jacopo Ortis, e
non il Bettinelli o il Baretti o l’Algarotti: erano autori scomunicati e
infrancesati, che pur si leggevano, ma in gran segreto, come si fa dei libri
proibiti. Non è che non trovasse a ridire sopra altri autori meno sospetti, in
ciascuno dei quali notava qualche taccherella; ma, infine, leggere Alfieri o
Foscolo o Manzoni non era poi un affare di stato. Meglio accetti erano Parini e
Gozzi. Un giorno giunse la sua tolleranza sino a far leggere il Manzoni. E fin
qui andava bene. Ma, visto che la gioventú correva dietro alle novelle del
Grossi e del Sestini, dove sentiva un odore di romanticismo, si strinse nella
sua toga come Cesare, e divenne intollerante nel suo classicismo.
Allora, vietata la politica, comparivano i giornali
letterari. Oltre l’antico “Omnibus”, erano sorti il “Poliorama” e l’“Omnibus
pittoresco”, e venivano in voga le “Strenne”. Uno sfogo ci voleva, e lo sfogo
furono villanie e polemiche, che si gittavano al viso, segno di ozio billoso. Piovvero
racconti, novelle, romanzi tra il fantastico e il sentimentale, sciarade,
logogrifi, volgarità e puerilità in prosa e in verso. Si voleva il nuovo, e il
nuovo era il genere romantico, e si diceva: racconto romantico, novella
romantica. Non era una nuova coltura che sorgesse spontanea, era un’eco confusa
e inintelligente di un moto letterario sorto molti anni indietro, di cui ci
veniva il rumore dalla Lombardia. Il marchese sfogava la sua bile contro quei
fogli, e non consentiva lettura di giornali a’ suoi giovani. Cosa era
romanticismo non si sapeva cosí per l’appunto, e i letterati piazzaiuoli
strillavano che bisogna scrivere come natura detta, mettere da parte le regole;
e mi ricordo questa frase comune: “Le regole tarpano le ali al genio”. Questo intendevano
per romanticismo. Il Medio evo saliva in moda, la leggenda era un genere
favorito, classico significava pedante. E cosí si aveva un romanticismo a buon
mercato. Il marchese rendeva pan per focaccia, e covriva de’ piú curiosi
epiteti questi letteratucoli. Tuffato ne’ miei giornali politici francesi, poco
leggevo quei fogli, e me ne venne subito il disgusto. Quel non approfondire
niente, quel saltellare di palo in frasca, con quei punti ammirativi e con quei
puntini, ne’ quali non c’erano altri sottintesi che la vacuità del cervello,
quelle situazioni tese e violente: tutto mi pareva falso e strano. Il marchese
vietava la lettura dei giornali; io non facevo divieti, ma non dissimulavo il
mio disgusto. Quella predica contro le regole, quel mettere da banda gli studi,
e confidare nella onnipotenza del genio, era un sistema comodo, che incendiava
molte teste di paglia di studenti, accensibili come un zolfino.
La scuola tenne fermo; pure c’era non so quale
inquietudine, un desiderio di cose nuove. Si gittarono sulla letteratura
francese: sentivo disputare di madame de Staël, di Chateaubriand, di Victor
Hugo, di Lamartine. Io mi mescolavo nella conversazione, e mi davo a quelle
letture con pari avidità, scolaro tra gli scolari. Non posso riafferrare piú le
mie impressioni. Rammento solo di lord Byron, che mi atterrí. Tutto mi pareva
gigantesco: situazione, azione, caratteri, affetti. Quella profondità d’odio e
d’amore, quella forza portata all’ultima sua espressione, quella eloquenza
terribile di passioni indomite, smisurate, mi parve come la scoperta di un
mondo nuovo, abitato da una razza superiore di umani.
Un sabato che ci capitò il marchese, Agostino Magliani
lesse una novella. Descrizioni, favole, racconti, epistole, dialoghi, discorsi
erano i soliti generi di composizione; ma la novella era il genere favorito.
Intorno al modo di condurre la novella c’era un codice prestabilito, divenuto
convenzionale. C’erano le regole intorno alla preparazione, alla favola, allo
snodamento, alla catastrofe, ai caratteri, agli affetti: regole che risalivano
fino ai primi tempi della scuola del Puoti. Per lo piú le novelle erano fatte
sullo stampo boccaccevole; il marchese richiedeva semplicità nell’intrigo, e
naturalezza negli affetti. Il sugo era che, sotto il liscio di periodi misurati
e rotondi, c’era superficialità d’immagini e di sentimenti. E questo è bene,
come esercizio di scrivere per giovani poco provetti, ai quali manca esperienza
della vita e del cuore umano, per guardare piú addentro. Ma nella mia scuola era
sorto il ticchio di mostrare originalità nell’invenzione, e venivan fuori certe
situazioni esagerate.
Il Magliani aveva scritto la sua novella con uno stile
castigato e in lingua assai forbita, di che il marchese gli dié lode. La
situazione era un po’ tesa; ma l’ingegno casto e misurato dello scrittore avea
saputo togliere gli angoli, rintuzzare le punte, rammorbidirla e regolarla con
peso e misura. “Pare una situazione romantica in forma classica”, scappò uno a
dire. Il marchese si fece verde. “Ma questa è roba di lord Byron”, rifletté un
altro. Il marchese non ci vide piú. “Lord Byron? E voi leggete lord Byron? E
voi, signor Magliani, copiate lord Byron?” Magliani si fece un pizzico,
e rimase muto; io non dissi nulla, come di solito, non volendo col contrasto
provocare la tempesta. Ma la tempesta venne e scoppiò sul capo di tutti. Se la
prese con me, con la scuola, coi giornali, coi romantici e con lord Byron. Poi
venne la bonaccia, e, com’era di bonissime viscere, ci disse parole dolci e
paterne. Lo accompagnammo a casa, che s’era già rabbonito, e frizzava i
giornalisti, e faceva il lepido ch’era una grazia. Quella collera era la sua
musa, che gli dilatava i polmoni e gli moveva l’immaginazione. Avremmo riso, ma
ci teneva la vista di quei lineamenti contratti, temevamo di recargli offesa.
Gli venivano osservazioni piccanti. Diceva che i giornali imbarbarivano la
lingua, sviavano da’ forti studi corrompevano il gusto e il cuore. Non
concepiva come il governo lasciasse correre tanti vituperi su di una certa stampa,
ch’egli chiamava un letamaio. Il romanticismo era l’ultima rovina degli studi.
Egli aveva combattuto quella peste di oltralpe, ch’è il gallicismo, “ma il
romanticismo è peggio, perché se quello vizia la lingua, questo rode come un
tarlo la mente”. Chiamava bolle di sapone, fuochi fatui quello che oggi si
direbbe eccentricità e fosforescenza. Ripeteva in caricatura la famosa frase,
che “non bisogna tarpar le ali al genio”. “E quanti geni, gridava, ci sono oggi
piovuti di cielo! Scribacchiatori pullulati come vermi dalle cloache, degna
loro stanza”. Ciò che piú gli spiaceva ne’ romantici, era la dismisura negli
affetti, ne’ caratteri, nell’intrigo, nella favola. Perciò ne voleva al Verri
ed al Guerrazzi, e lodava la semplicità del Manzoni, che da persone di umile
condizione, com’erano Renzo e Lucia, aveva saputo cavare potenti effetti. Nella
semplicità voleva il rilievo, e perciò motteggiava la Monaca di Monza del
Rosini e le Guerre civili del Davila: “Quel loro scrivere mi pare
una piscia, con riverenza parlando”. Lodava molto il Ranieri, ma notava non so
che concetti nella sua prefazione al Leopardi, e non so che situazione violenta
nell’Orfana della Nunziata, che avea fatta una grande
impressione, non solo come un’opera letteraria, ma ancora come un’azione
coraggiosa. Comparivano certe leggende e novelle in pura lingua e in terso
stile, ma non avevano grazia presso lui, per la natura dell’argomento; e diceva
della Isolina di Roberto Savarese ch’era scritta assai bene, ma che
c’era non so che puzzo di romanticismo, qualcosa della Ildegonda e
simili piagnistei.
Pure il marchese poteva andar contento dell’opera sua.
Attorno a lui stavano riverenti i piú colti e stimati uomini della città: il
marchese di Montrone, i fratelli Baldacchini, il Cappelli, il Campagna,
l’Imbriani, il Poerio, la Guacci, il De Vincenzi, i Savarese, il Gasparrini, lo
Scacchi, il Cassola ed altri, che non mi vengono sotto la penna. Molti
letterati di altre parti d’Italia gli facevano plauso. La sua scuola aveva già
messo buone radici fino nei seminari piú ritrosi. Mi ricordo il seminario di
Cava, dove il marchese era spesso invitato e festeggiato. I suoi libri di testo
erano sparsi nelle piú lontane scuole. Ultimamente avea posto mano ad un
dizionario domestico, che venne subito in favore presso gli studiosi. Fiorivano
molte scuole a sua immagine, come quella di Rodinò, e l’altra di Fabbricatore,
ch’era la sua prediletta. E già venivano in fama parecchi giovani valorosi,
entrati in molta dimestichezza con lui, come Luigi Settembrini, Vito Fornari,
Antonio Mirabelli. Tutti onoravano in lui l’educatore della gioventú.
Mi ricordo il grande scalpore che fece, quando gli venne
a mano un opuscolo di Luca suo fratello, in confutazione de Le ultime parole
di un credente, un libro di molto strepito e letto avidamente: chiamava
l’opera del fratello un basso atto di cortigianeria, verso il governo. Da lui
non venne mai niente di basso e di servile; poteva dunque esser contento. Ma in
quella nuova aria si sentiva affogare, e vi si dibatteva del suo meglio. Se la
prendeva con certuni come Cesare Malpica e Domenico Anzelmi, e con parecchi
altri che beffeggiavano lui e la scuola; e queste erano miserie non degne della
sua collera.
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